I Simpson sono con noi da più di venticinque anni. Sono stati il simbolo di una generazione a cavallo tra due millenni, e ancora oggi esercitano un fascino ed un'influenza senza pari.

Il 17 dicembre 1989 i Simpson facevano la loro prima apparizione sulla FOX: è una data importante, che sembra un ultimo saluto agli anni Ottanta e un benvenuto ai Novanta. E gli anni Novanta sono stati importanti, c’è poco da fare… certo, probabilmente a parlare è soprattutto quello spirito da 90’s kids che caratterizza me e una moltitudine più o meno nostalgica, ma voltando lo sguardo indietro è inevitabile riconoscere in quegli anni una serie di peculiarità, di momenti topici, che sono un po’ il 1968 dei giovani nati ben più tardi dell’epoca della rivoluzione hippy. E dico giovani non a caso, perché se vogliamo è proprio negli anni Novanta che si è formata la generazione di ‘eterni giovani’ che oggi è entrata – volente o nolente – nell’età adulta.

Sono stati gli anni in cui i videogiochi sono entrati prepotentemente nelle case di tutti: certo, già a fine anni Ottanta le console ad 8 bit erano testimonianza di un fenomeno che stava diventando sempre più rilevante, ma solo con l’era dei 16 bit di Super Nintendo e Sega Mega Drive il videogioco inizia davvero a far parte della cultura popolare. E chi è stato in prima linea in quegli anni così indimenticabili per l’esperienza videoludica, oggi è più incline che mai a dedicare decine di ore alla stessa causa… anche a costo di non crescere mai.

 

i Simpson 1

I turbamenti di Bart incarnati dai protagonisti di alcuni dei più bei titoli degli anni 90. Ovviamente dall’episodio Marge non essere orgogliosa, celebre anche per il gioco di golf Ammazza, che mazza!

 

Sono stati gli anni in cui anche il cinema ha regalato dei capolavori che, forse per la prima volta in maniera così evidente, sono stati in grado di abbattere le barriere dell’età anagrafica, diventando trans-generazionali. Non è un caso se, ancora oggi, titoli come Nightmare Before Christmas o Toy Story sono considerati dei capolavori: quelle che potevano sembrare opere ascrivibili al genere ‘per ragazzi’ sono diventate un simbolo della cultura pop occidentale, superando quelle categorie che sembravano scontate e da cui pareva non potersi sottrarre. E lo hanno fatto non solo grazie al magistrale soffio artistico che aveva donato loro la vita, ma anche grazie ad un potere comunicativo in grado di mettersi in contatto con un pubblico estremamente vasto ed eterogeneo, tanto da esercitare poi un’influenza senza precedenti direttamente nel nuovo millennio.

 

E proprio in questo contesto, compariva sui nostri piccoli schermi a tubo catodico una serie animata americana che ci sarebbe rimasta per molto tempo: i Simpson, nella più immediata vigilia degli anni Novanta, piombano sulla società globale per non andarsene mai, diventando uno dei simboli dell’eterna giovinezza di chi ha – per sua fortuna – vissuto gli anni Novanta. Come le forme d’espressione di cui ho parlato poco sopra, l’arte che i Simpson esprimono è profondamente trans-generazionale, e alle due del pomeriggio genitori e figli si ritrovavano insieme sul divano (e ci viene in mente il finale sempre variabile della sigla) a ridere come mai era successo. Lo spettatore più giovane era ipnotizzato da quello che vedeva per la prima volta in un cartone animato: le dinamiche erano così vicine al mondo degli adulti da fargli dubitare di star davvero vedendo un cartone animato, e al contempo riusciva ad empatizzare con Bart e Lisa ad un livello totalmente nuovo. Lo spettatore più maturo, rapito dalla comicità schiettamente raffinata e così spontanea, entrava in comunicazione con il piano ‘superiore’ del racconto, cogliendo magari particolari che il ragazzino avrebbe apprezzato solo anni più tardi. E diversi anni più tardi, quel ragazzino – diventato adulto – riconoscerà in quella comicità, ancora così viva e potente, una scusa per essere davvero ancora ragazzino.

 

i Simpson alt 2

Il memorabile episodio Fratello dello stesso pianeta è uno dei migliori esempi di come i Simpson abbiano saputo rappresentare una fusione a tutto tondo del mondo dei genitori e di quello dei figli

 

Oggi, trascorsa più di una generazione da quel dicembre del 1989, ci ritroviamo profondamente segnati dalle categorie espressive che i Simpson hanno saputo infondere nel nostro modo di pensare, di ridere, di comunicare. Gli atteggiamenti dei personaggi, le relazioni che intercorrono tra essi formando quel tessuto così spontaneamente divertente, hanno dato vita a dei temi ricorrenti che abbiamo fatto nostri: il rapporto di Homer con il cibo e con il lavoro, quello di Bart con scuola ed insegnanti, sono i casi più eclatanti di come andiamo a ritrovare materiale umoristico nell’immaginario della serie. Ma ancora di più, quello che davvero profuma di Simpson è la sottile e personalissima psicologia sottesa a personaggi come il direttore Skinner, le sorelle di Marge, o il barista Boe: nel corso delle stagioni si è andato a definire un trascorso tanto ricco quanto vivo e plausibile, da farci conoscere gli abitanti di Springfield come fossero persone in carne ed ossa, o forse anche di più. E questo è diventato uno strumento fortissimo nelle mani degli autori, in grado di farci ridere anche solo con un’immagine di Boe che, segretamente, va a leggere le favole agli orfani, o di Skinner che comunica a distanza con la madre dall’ufficio di Preside.

 

i Simpson alt 3

Il disturbo da stress post traumatico del dopo-Vietnam non ha risparmiato il direttore Skinner, che dimostra di non aver mai tagliato il cordone ombelicale con una madre decisamente apprensiva (episodio indimenticabile, Fratello dello stesso pianeta).

 

È proprio questa raffinatissima vena comica a rappresentare la base, il motivo fondamentale, di ciò che rende i Simpson intrattenimento di qualità: prima ancora della natura dissacrante della serie, elemento che viene quasi sempre innalzato a rappresentarne la comicità… ma andando in realtà a ridurne il senso e la grandezza. Perché ben prima di dissacrare, i Simpson fanno intrattenimento, parlano di vita, famiglia, lavoro, dipingono tipologie umane con una ricchezza psicologica difficile da eguagliare.

 

Eppure in tanti hanno provato ad imitare lo stile inaugurato dai Simpson: restando nel campo dell’animazione, il pensiero va subito ai Griffin, e poi a South Park. Sarebbe estremamente ingiusto ridurli a copie dei Simpson, soprattutto per la qualità e le peculiarità che hanno saputo produrre nel corso di altrettanto gloriose carriere, ma non si farà certo un torto a questi eterni rivali affermando che, senza la spinta originaria dei Simpson, non avrebbero visto la luce. Il concetto di base sdoganato dalla serie di Groening, ovvero che un cartone animato possa essere il veicolo per una narrazione e una comicità maturi, è il comune denominatore con le serie citate, ma non basta a renderle davvero sovrapponibili. Il modo che hanno i Simpson di farci ridere è molto più ‘politically correct’ rispetto alle tematiche di Griffin o South Park: la comicità di Springfield parla la lingua della nostra interiorità, più che cercare il sensazionalmente scorretto, l’elemento magari così sconcertante per la morale da far pensare che nessuno l’avrebbe mai usato per far ridere. È bello (e giusto) pensare che ai Simpson questi strumenti non servano, che siano colpi bassi – e magari di facile presa – resi inutili da un approccio più intimo e, diciamolo, anche più di buon gusto. L’umorismo della serie di Groening è, di fondo, sempre basato su valori positivi, che nel corso della narrazione possono scontrarsi con la loro controparte ironica di non-valore, ma solamente per giungere poi ad una sorta di ‘lieto fine’ in cui vengono confermati: quello più importante e presente è il valore della famiglia, che nonostante tutte le difficoltà che metteranno alla prova Homer, Marge e figli, vincerà sempre su tutto.

 

i Simpson 4

L’amore per i figli, in questo caso Maggie, diventa un motivo per Homer per sopportare le angherie sul posto di lavoro (episodio E con Maggie sono tre)

 

La grandezza dei Simpson, in definitiva, è stata quella di sfruttare con magistrale buon gusto e raffinatezza strumenti comici semplici: e proprio grazie a questa semplicità sono in grado di parlare a tutti, sia in termini geografici che di età. Le altre serie animate a cui mi sono già riferito pagano lo scotto di aver optato per un’ironia più di nicchia, non nel senso di più raffinata o più elevata, quanto più ascrivibile alla cultura americana, o in alcuni casi a fenomeni di tale cultura riferibili strettamente al momento storico in cui la puntata veniva proposta. Non è una scelta qualitativamente peggiore o migliore, ma ha sicuramente portato la comicità di molti episodi dei Griffin o di South Park su un piano nettamente meno globale ed empatico.

 

i Simpson 5

Nell’episodio Grattachecca e Fichetto: il film, vediamo la grande difficoltà dei genitori a punire Bart. Bart: “Potresti punirmi, è vero, ma…” Homer: “Niente trovate, ragazzino. Ho detto che ti punirò e ti punirò, e che venga l’inferno o il diluvio io ti… aspetta un momento, IL CAMIONCINO DEI GELATI! Io, io c’ero prima io!”

 

Un’altra disciplina in cui i Simpson sono stati in grado di distinguersi dai rivali è quella delle parodie, o più in generale delle citazioni: uno strumento espressivo a doppio taglio, in grado sì di dar vita ad un’ironia intelligente e con vari livelli di comprensione ed apprezzamento, ma anche – se abusato – di rendere la narrazione sterile e auto-referenziale. Nei Griffin, ad esempio, si è ricercato un umorismo volto spesso alla citazione ‘fulmine’ verso personaggi o fenomeni pop della cultura occidentale, soprattutto statunitense, con un risultato spesso divertente ma con evidenti limiti in termini di ripetitività e mancanza di spessore. Nei Simpson le parodie non sono mai state fini a sé stesse, preferendo sfruttare particolari tagli cinematografici, magari scene celebri riproposte in chiave Simpson, ma senza sbatterlo in faccia allo spettatore, che può apprezzare la situazione comica anche senza sapere cosa si stia citando.

 

i Simpson 6

Sonny Corleone è al centro del citazionismo in chiave Il Padrino, con Marge che ne riprende la violenza nell’episodio Le forti braccia di mamma.

 

L’esempio più eclatante, nonché uno dei momenti più alti della serie, lo ritroviamo nella puntata Rosebud (L’orsetto del cuore, in Italia): la puntata è una rielaborazione del capolavoro di Orson Welles Citizen Kane (Quarto Potere, in Italia). La scelta stessa dell’oggetto della citazione è delle più apprezzabili in quanto a qualità artistica e spessore culturale, e la resa è davvero d’eccezione: gli autori non si sono limitati a ricalcare qualche scena, o a copiare pedissequamente la trama del film. Al contrario, hanno operato una trasposizione del significato del lungometraggio, trasponendone valori e narrativa nelle categorie simpsoniane. Il miliardario Kane trova incarnazione in Montgomery Burns, ma soprattutto il valore dato nel film allo slittino – simbolo dell’innocenza infantile e di una realtà tanto semplice quanto genuina – viene trasposto nell’orsacchiotto Bobo, per il magnate di Springfield un ricordo legato ad un’infanzia di cui non sapevamo praticamente nulla, e che ci viene raccontata con un espediente magistrale.

 

i Simpson 7

Due fotogrammi dell’episodio Rosebud confrontati con i corrispettivi del film Citizen Kane di Orson Welles. È un peccato come nella traduzione in italiano del titolo della puntata (L’orsetto del cuore), si sia perso l’esplicito riferimento al tema dello slittino, così centrale nel film di Welles.

 

Ma forse, a questo punto dell’articolo (o più probabilmente anche qualche paragrafo fa), il lettore che davvero ama i Simpson per tutte le ragioni di cui ho parlato, si sarà accorto che qualcosa non torna. Una vocina continua a disturbarlo, e a disturbarmi: “Certo, ma cosa sono diventati i Simpson oggi?”. E la vocina, purtroppo, ha tutti i motivi per inquietarci… anzi, potrebbe anche essere ben più pungente ricordandoci che è da parecchi anni ormai che qualcosa si è incrinato. E se ho tardato così tanto per parlarne, è anche perché mi si stringe il cuore: fa male vedere cosa è stato fatto ad un’opera di così grande valore. Se vogliamo dare delle indicazioni temporali, è dalla decima stagione (andata in onda nell’ormai lontano 1999) che i Simpson hanno iniziato a perdere pezzi, in termini di spessore, originalità, carisma… in breve, hanno smesso di far ridere. Ma com’è successo?

 

i Simpson 8

L’immagine di Spiderpork è esemplare per rappresentare la decadenza della serie: è diventata un pò il simbolo del lungometraggio dei Simpson (2007) e questo la dice lunga sulla qualità del film.

 

I motivi sono sicuramente svariati. Verrebbe in primo luogo da pensare ad uno sfavorevole avvicendarsi degli autori: ma il loro alternarsi è in verità un fenomeno che si verificava anche nelle gloriose stagioni fino alla decima. Anzi, addirittura uno degli autori che avevano scritto gli episodi tra il 1991 e il 1993 è tornato a farlo dal 2001, ma i risultati non sono stati sicuramente all’altezza delle aspettative. L’unica spiegazione che riesco a darmi, è che le categorie fondamentali con cui i Simpson facevano ridere, erano destinate morfologicamente ad avere vita breve: l’efficacia della narrazione comica era data, come si è detto, dalla semplicità dei temi e dallo spontaneo divenire che animava i rapporti tra i personaggi. È evidente come questo meccanismo abbia una scadenza, ed è bello riconoscerlo. Al contrario, in mancanza di una coraggiosa quanto amorevole presa di coscienza di tale assioma, il fenomeno della cosiddetta ‘minestra riscaldata’ diventa inevitabile… e non è difficile pensare che i produttori stiano preferendo continuare a generare inquantificabili quantità di denaro grazie ad un brand che difficilmente può esaurire il suo potere commerciale.

 

South Park, a modo suo, lo aveva già riconosciuto nel 2002 con la puntata I Simpson l’hanno già fatto: quel tipo di animazione aveva attinto a più non posso da certe forme narrative, e l’unica via era fare qualcosa di diverso. South Park di sicuro è riuscito a reinventarsi, più di una volta anche, in maniera soddisfacente e dando prova di una vera evoluzione, ma questa è un’altra storia. Nei Simpson, l’esaurita pletora di situazioni domestico-famigliari è stata sostituita da episodi ben oltre il limite dell’assurdo: è un sintomo che l’ultima puntata della decima stagione racconti della famiglia Simpson che si reca in Giappone, era già evidente come la cosa fosse alquanto tirata per i capelli. Alla ricerca dell’assurdo (nella stagione 23 c’è un episodio basato su uno straccio di Boe senziente e parlante…) si è affiancato un superamento dei tratti comportamentali che caratterizzavano gli ormai ben noti e consolidati personaggi, in peggio ovviamente. In un episodio della stagione 26 (sì, ho deciso di farmi del male guardando alcuni di questi sedicenti Simpson) Homer diventa uno stacanovista in seguito al pensionamento di un suo collega introdotto per l’occasione, che aveva svolto in tutti gli anni precedenti il lavoro di addetto alla sicurezza al posto suo… una scelta terribile che vede uno dei pilastri della filosofia della serie, ovvero la totale avversione di Homer per il lavoro, rivoltato senza pietà.

 

In sostanza, è con la perdita della semplicità che i Simpson hanno preso il largo, diventando sempre più una caricatura di loro stessi, fino ad assomigliare ad uno show per guest star, e senza più essere in grado di innescare la scintilla della risata: anche visivamente la serie ha subito un’evoluzione indice di questo cambiamento. In principio i disegni erano estremamente rozzi, per quanto già nelle primissime stagioni ci sia un evidente e giustificato miglioramento: ma anche da questa sorta di lo-fi derivava l’esagerata e vincente espressività che contraddistingue i personaggi nelle prime stagioni. Mano a mano che passavano gli anni, i disegni si facevano sempre più patinati, soprattutto dalla stagione 14 quando si è passati definitivamente alla realizzazione in digitale.

 

i Simpson 9

Il confronto, in questo caso anche solamente visivo, con un fotogramma dei Simpson anni Novanta con un episodio recentissimo è impietoso. Davvero si sentiva il bisogno del digitale?

 

E il passaggio al digitale è una misura importante per spiegare una volta per tutte la decadenza della serie, e metterci l’animo in pace: l’ultima stagione davvero apprezzabile (salvo qualche episodio di poco successivo ancora in grado di ricordare i fasti di un tempo) è la decima, come detto trasmessa nel 1999. Allora si comincia ad intravedere una sorta di traccia, e se la seguiamo vedremo che davvero i Simpson sono stati gli anni Novanta. L’analogico, tratto che ha visto nel glorioso decennio l’ultimo strenuo testimone, ha ceduto il passo al digitale, e così i Simpson devono essere inquadrati e ricordati come uno dei più rappresentativi e riusciti fenomeni pop degli anni Novanta: che poi il nuovo millennio sia stato un palcoscenico su cui si sono mossi in modo maldestro e anche spiacevole, poco importa. Perché possiamo sempre tornare ragazzini con i Simpson, quelli veri, e amarli proprio per questo loro incommensurabile potere.

 

*****

Se ti è piaciuto questo articolo leggi anche: Hayao Miyazaki – tre capolavori d’animazione.