Perché molti adolescenti cadono facilmente vittime della dipendenza da sostanze stupefacenti.

In seguito alla morte di Marco Pannella, avvenuta il 19 maggio, in Italia si è ripresentato un forte interessamento per il dibattito riguardante l’utilizzo delle sostanze stupefacenti. Essendo una tematica che coinvolge la vita di tutti quanti noi, in modo più o meno diretto, è indubbiamente un bene che se ne parli. Altrettanto importante sarebbe però la fine della trasmissione di nozioni non veritiere o derivanti dal cosiddetto ‘sentito dire’, provenienti da leggende popolari o da un non ben precisato ‘senso comune’.
Così, dopo aver cercato di smuovere mio padre durante il pranzo domenicale dalla sua convinzione che la legalizzazione delle droghe comporterebbe necessariamente una riduzione dei costi delle sostanze – rimodulando anzitutto la sua visione totalmente distorta dei prezzi degli stupefacenti sul mercato nero – ho pensato che presentare un punto di vista meno conosciuto riguardo la tossicodipendenza potesse essere utile per esporre un nuovo parere all’interno di questo dibattito, proponendo una concezione a mio avviso innovativa che spero possa attrarre l’attenzione di qualche lettore.

 

Il mio intento in questo articolo non è quello di spiegare perché, nell’eventualità di un intervento statale all’interno del commercio delle sostanze psicotrope, si renderebbe necessaria l’attivazione di politiche di prevenzione e promozione della salute più efficaci di quelle attualmente messe in atto.
Non ho nemmeno intenzione di dimostrare come i meccanismi repressivi adottati finora si stiano dimostrando sommariamente improduttivi e siano plausibilmente più dannosi di un’alternativa basata su campagne volte a un utilizzo consapevole e responsabile delle droghe in modo tale da ridurre i rischi da overdose.
Non ho infine il desiderio di spiegare come la demonizzazione della droga abbia semplicemente causato un dilagare di ignoranza riguardo questo argomento. Posso utilizzare come esempio pratico la convinzione di mio padre che una dose di una non precisata droga pesante – rappresentabile probabilmente come cocaina nel suo immaginario – possa costare sul mercato un centinaio di euro. A suo dire tale prezzo risulterebbe incrementato dal desiderio di arricchirsi di coloro che hanno parte attiva nel portare avanti tale attività illecita tutelandosi in questo modo dai rischi connessi a questo tipo di commercio.

 

È però ben noto ai più giovani che, invece, nella nostra realtà quotidiana ogni giorno container carichi di ogni tipo di sostanza sbarchino nei principali porti del sud dell’Italia e della Spagna e la merce venga successivamente distribuita sfruttando elementi socialmente fragili o deboli, riducendo i costi delle sostanze stupefacenti che diventano accessibili a tutte le sfere sociali e non più un ‘privilegio’ delle classi sociali più abbienti.

La mia intenzione attuale è quella di presentare una differente visione delle ragioni che possano indurre un giovane all’utilizzo di queste sostanze, fino a sviluppare una forma di dipendenza. A tal proposito ho intenzione di riferirmi alla teoria del triangolo perverso di Jay Haley, uno dei pionieri della psicoterapia familiare.
Secondo l’autore, all’interno di ogni relazione umana sarebbero presenti delle dinamiche di gestione del potere. Queste dinamiche, inserite all’interno del contesto familiare, indurrebbero alla creazione di alcuni rapporti di forza e relazioni di potere consolidate nel tempo. La modalità con cui il potere viene gestito dai differenti membri della famiglia sarebbe identificabile nei sintomi patologici presentati dai differenti soggetti appartenenti al nucleo familiare.
All’interno delle famiglie sintomatiche si riscontrerebbe costantemente una particolare dinamica di potere che coinvolge tre differenti individui, definita triangolo perverso. In questa situazione un membro di una generazione formerebbe “una coalizione segreta con una persona di un’altra generazione contro un proprio pari” (Gambini, 2007). Tale coalizione consisterebbe nel mettere in atto strategie che danneggino la persona lasciata all’esterno del legame creato dalle due persone che decidono, come la parola stessa suggerisce, di unirsi tra loro e difendersi vicendevolmente.

 

Haley definisce questo tipo di relazione coalizione intergenerazionale poiché, in questa forma di conflitto, vengono costantemente coinvolte due persone appartenenti alla stessa generazione che presentano tra loro alcune forme di conflitto e  agiscono con l’intento di ottenere l’appoggio di una persona appartenente a una differente generazione.
È inoltre importante ricordare che questa forma di coalizione deve esser mantenuta segreta, per cui non viene mai comunicata in forma esplicita, ma costantemente rinnegata o agita in modo nascosto. L’unico modo per rendersi conto dell’esistenza di essa è attraverso il comportamento osservato all’interno delle dinamiche familiari.
Questo fenomeno è in genere riscontrabile quando “un genitore decide di coalizzarsi con il figlio per svalutare l’autorità dell’altro genitore” (ibid.). Il figlio in questa situazione si ritrova però di fronte a un “conflitto di lealtà”, dovendo prendere le parti di uno dei due genitori e sminuire al contempo il valore dell’altro.

 

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Quando il figlio non ha però intenzione di assumere nessuna posizione e non desidera esser inserito all’interno di questa dinamica può decidere di assumere comportamenti strani o ‘folli’.
Cancrini e Mazzoni (1991) in una loro opera sostengono che nei casi di tossicodipendenza di tipo B, definibile come la patologia che affligge individui che riflettono alcuni problemi di individuazione del sé tipici del periodo adolescenziale e sono caratterizzati da ansia elevata, sbalzi d’umore, incertezza, tendenza alla noia e alla insoddisfazione, drammatizzazione dei problemi, possano collocarsi in situazioni di triangolo perverso.
Infatti questi adolescenti sono spesso caratterizzati da un coinvolgimento eccessivo all’interno dei conflitti riguardanti la famiglia e uno dei genitori, in genere quello di sesso opposto, è eccessivamente coinvolto nel controllo della vita e della malattia del figlio. Tale genitore tenderebbe a negare i comportamenti problematici presentati dal figlio, ignorando i danni derivanti dalle scelte dannose commesse dal figlio, tra cui l’assunzione di sostanze stupefacenti, piuttosto che incentivarlo verso una cura. L’altro genitore invece verrebbe mantenuto in una posizione secondaria e non otterrebbe la possibilità di intervenire presentando un differente punto di vista.

 

Secondo la prospettiva sistemico-relazionale, la tossicodipendenza presenterebbe delle forti analogie con l’anoressia nervosa per quanto riguarda le dinamiche riscontrate a livello familiare e l’insorgenza prevalentemente in età adolescenziale ma, a differenza dell’anoressia nervosa che colpisce perlopiù gli individui di sesso femminile, la tossicodipendenza affliggerebbe in modo maggiore individui di sesso maschile.
Questa patologia originerebbe inoltre da alcuni conflitti presenti all’interno della famiglia da più generazioni, poiché i genitori stessi del futuro tossicodipendente avrebbero ricevuto una carenza di affetto e cure nelle proprie famiglie di origine.
In una prima fase di vita il bambino che avrà in adolescenza ricadute nel mondo della droga instaurerebbe una relazione particolarmente forte con la propria madre, che lo allontanerebbe però dalla figura paterna.
Questa dinamica si rivelerebbe particolarmente dannosa nel corso dell’adolescenza, nel momento in cui il ragazzo è indotto a mettere in atto le prime iniziative in autonomia.
 
Il giovane tenderebbe infatti a sperimentare inizialmente l’utilizzo della droga, senza riuscire ad ottenere un controllo su di essa e giungendo all’insorgere della dipendenza, con l’obiettivo inconsapevole di mantenere in equilibrio un sistema familiare tremendamente fragile ed in bilico. Attraverso l’utilizzo della droga il figlio riuscirebbe infatti a concentrare su di sé tutta l’attenzione dei genitori che in questo modo non avrebbero più modo di affrontare altre problematiche. Inoltre la tossicodipendenza impedirebbe all’intero sistema familiare di evolversi, richiedendo al figlio di assumersi responsabilità sempre più grandi fino al momento di dover lasciare casa per proseguire una vita in autonomia.
Tramite l’assunzione di sostanze psicotrope il giovane costringerebbe i genitori a trattarlo come un bambino piccolo, richiedendo assistenza e cure continue.
Questa situazione problematica si rivelerebbe paradossalmente vantaggiosa anche per i genitori che, costretti a dover prendersi cura costantemente del figlio, si ritroverebbero a metter in secondo piano le problematiche di coppia concentrandosi in toto su quelle presentate dal figlio.
Al contempo il figlio, attraverso l’utilizzo della droga, troverebbe una scusante per non doversi separare dalla propria famiglia di origine, non sentendosi ancora pronto per questo passaggio, necessitando del supporto genitoriale per poter intraprendere percorsi di cura.

 

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Andrea Pazienza

 

Secondo Standon e Todd (1982) la tossicomania permetterebbe una pseudo individuazione permettendo allo stesso tempo di far credere alla persona tossicodipendente di aver ottenuto una propria identità personale, seppur negativa, ma al contempo concedendo la possibilità di non doversi distaccare dal nucleo familiare.
Illuminanti a riguardo sono le parole dei due autori precedentemente citati che sostengono: “Il modello (…) segue una sequenza in cui, quando il tossicomane migliora, i genitori iniziano a separarsi, quando egli ritorna ad esser problematico, essi spostano l’attenzione dai propri conflitti e, uniti, la dirigono verso di lui, almeno finché ricomincia a migliorare” (Stanton, Todd, 1982, 30).