Tornano le Cronache dalla metro B con una giornataccia nel sottosuolo che si trasforma in una vera e propria odissea della tratta Magliana/Piazza Bologna.

Giornataccia

I treni ci portano dove vogliamo, correndo sui loro binari che, grazie al cielo, mai s’incontreranno. A volte il problema può essere arrivare, altre volte il come si arriva. È un viaggio, seppur breve, ma comunque un viaggio, e spesso i cambiamenti che comporta sono così profondi da lasciare il segno. Ti scrivo così con la speranza di farti rivivere ogni sensazione che la tratta Laurentina-Piazza Bologna quest’oggi mi ha fatto vivere, e del come mi abbia reso un uomo diverso rispetto a quello che, alle otto in punto, ha lasciato l’amato rifugio casalingo.

 

L’inizio

Quando corro generalmente sono in ritardo. Oggi però correvo per essere in anticipo.

Ho parcheggiato come al solito lo scooter vicino alla metro Laurentina e slacciato e riposto il casco nel bauletto ad una velocità tale che, mentre con la mano destra lo chiudevo, la sinistra, più lenta e meno precisa, era ancora dentro. Mi deve essere sfuggita poi un’esclamazione di sfogo del tipo “accipicchia”. Mi sono messo lo zaino a tracolla ed ho iniziato a correre verso l’entrata riflettendo sulla questione della fretta, della gatta e dei figli ciechi.

 

Parcheggiando sul retro, come sai, per accedere alla stazione devo fare una curva a gomito che, se fatta con calma non costituisce alcun rischio (a patto di non considerare rischioso scontrarsi con qualcun altro, anzi direi che lo scontro è tutt’altro che rischioso: è per me liberatorio! Il tentativo di evitarlo può risultare difatti molto frustrante e antiestetico se la persona dinanzi a te è mossa dalla medesima intenzione, anche se non avrebbe nulla da invidiare alle migliori figure del nuoto sincronizzato) ma se fatta di corsa oltre allo scivolare comporta un azzardo ulteriore, quasi una scommessa: devi essere certo che la stazione sia aperta, perché, e ti consiglio di considerarlo, se per qualche ignara ragione fosse chiusa, invece del solito ingresso troverai una cancellata lunga 10 metri a sbarrarti la strada… E indovina? Come un forsennato, sorpassando tutti, anche quelli che pensavo fossero fermi dinanzi all’entrata per diletto, sono giunto alla dolorosa scoperta: pioniere di ciò il mio naso, a cui è seguito uno zigomo, la spalla ed un ginocchio. L’esclamazione che mi scappò fu un leggermente più vivace del tipo “e che accipicchia!”. Comunque, se non fosse stato per il dolore, che mi costrinse a raggomitolarmi a terra in posizione fetale, probabilmente l’alpino armato fino ai denti mi avrebbe senza dubbio sparato: perché agli occhi di quest’ultimo (e venni informato di ciò quando fui nuovamente in condizione di deambulare autonomamente) altro non ero che un barbuto con faccia spiritata che correva con zaino a tracolla senza alcun senso verso un destino sicuramente suicida.

 

E tra il cancello e il kalashnikov mi ritengo fortunato di aver incontrato il cancello.

Ripreso e “urtato”, con sguardo vacuo, cercai una spiegazione che mi fu presto data: “devi pijà il treno a Magliana, c’è stato un incidente”. Come sai bene, anche se ormai da mesi emigrato in un’altra città, la parola incidente è usata solo in un caso: suicidio. Conferma di ciò la ebbi a Magliana, dove, nell’attesa del treno, oltre a crearsi legami molto forti, i pendolari avevano la notizia completa in ogni dettaglio: motivazioni, età, altezza, peso oltre al nome e cognome dell’ormai defunto. Tralasciando tali dettagli, considero il suicidio sotto la metro doloroso e impopolare e lo depenno senza alcun dubbio da eventuali sistemi da adottare per porre fine ad una ingrata esistenza.

 

Da Magliana

Sono riuscito a stiparmi all’interno del vagone e, dolorante per i colpi subiti (mano, naso, spalla e ginocchio), l’unica cosa che desideravo era sedermi. Invece, non solo non potei sedermi, ma dovetti stare in piedi costretto ad aiutare una signora, la quale, con il suo metro e sessanta (forse meno) non aveva alcuna possibilità, nonostante i ripetuti tentativi ottimistici, di afferrare la sbarra orizzontale posta sopra le nostre teste. In un primo momento ho pensato che l’avrei potuta sollevare e farla aggrappare ma poi mi sono reso conto che non avrebbe toccato con i piedi: farle fare il viaggio a penzoloni non sarebbe stato educato, così mi sono rassegnato ed ho lasciato che si tenesse alla mia borsa.

 

A differenza del solito quindi, ho fatto il viaggio di andata in piedi, e non potendo tirare fuori il mio libro, per problemi insormontabili di logistica, ho avuto modo di fare un paio di riflessioni. La prima riguarda la fretta come foriera di sventure e di equivoci; la sfortunata ragazza seduta dinanzi a me si doveva essere vestita talmente di prescia da non essersi accorta di aver messo la maglietta sbagliata oppure al contrario: altro non ha fatto, per tutta la tratta metropolitana, che coprirsi con la mano la scollatura che lasciava intravedere impudicamente ciò che lei mai, almeno così il suo atteggiamento dava ad intendere, avrebbe voluto far vedere. Poverina, non avere nemmeno il tempo per decidere come vestirsi, e pensare che sarebbe bastato che alzasse gli occhi per capire che non interessava ad alcuno il suo problema e che tanto zelo adoperato non aveva alcuna giustificazione.

 

La seconda riflessione invece riguardava la religione come fonte di serenità e di rassicurazione: il ragazzo/signore/anziano (l’età è impossibile da definire) seduto anche lui, con un soprabito blu, sciarpa grigia e zuccotto era completamente assorbito, come suo solito (lo dovresti aver incontrato anche te qualche volta) dallo sgranare il suo rosario. Guasti, suicidi, scioperi, alluvioni, lui sale a Laurentina, si siede e sgrana il suo rosario: non c’è nulla che lo turbi, lui ha il suo rosario e riesce sempre a stare seduto nello stesso posto dello stesso vagone. Come è possibile? Dove trova tale impassibilità ad ogni calamità? Ma soprattutto come fa a stare sempre seduto? Che fosse la religione a donargli queste abilità?

 

A Piazza Bologna (epilogo)

Sceso in gran fretta dalla metro, dopo un viaggio in barattolo con altre mille sardine aggrovigliate, in ritardo nonostante l’anticipo, ho preso le scale mobili con la speranza di recuperare qualche secondo perduto nonostante la corsia di sinistra di queste fosse occupata. Non mi ricordo mai di utilizzare la tua tecnica, non mi viene di urlare, per quanto possa essere geniale: “KEEP THE RIGHT!” e quando trovo qualcuno stazionare sulla sinistra mi viene naturale chiedere “permesso”. L’inglese è molto più efficace e di questo te ne do atto. Non mi prefiggo mai obiettivi così complicati, perché come potrai ricordarti, chi si mette sulla sinistra sulla scala mobile è irremovibile, esattamente come chi utilizza la corsia di centro in autostrada: non ha alcuna motivazione ma lo sente un suo diritto e da lì può meditare sui massimi sistemi estraniandosi dal contesto, fregandosene di ogni genere di cosa animata o inanimata. Oggi però dovevo tentare, avevo esageratamente bisogno di non portare ulteriore ritardo, e il risultato sai quale è stato? La signora che mi bloccava la scala, una volta ascoltata la mia utopistica richiesta: “permesso?” mi ha risposto, e a conti fati non a torto: ” ma che voi? Se vai de fretta pija le scale normali!”. Mi stava per scappare un esclamazione del tipo: “accipicchia che testa di accipicchia che sei”, ma mi sono limitato a pensarlo.

 

Lentamente ho aspettato che la scala mobile mi portasse in superficie e la mia mente ed il mio corpo, esausti per i colpi subiti, tirarono ingenuamente un sospiro di sollievo: in verità non era ancora finita. Sorpassata la “testa di accipicchia” con un movimento di gomito, mi sono messo a correre con l’agilità di un marciatore e con l’entusiasmo di un centrometrista: davanti a me solo i tornelli e una volta passati quelli, sarei stato finalmente fuori e avrei tagliato l’agognato traguardo. Fu però un momento tristissimo, e lo strazio acuto che provai all’altezza dei quadricipiti femorali non fu nulla rispetto all’accipicchiatura che provai a veder passare la testa di accipicchia che mi precedeva sulle scale mobili la quale con faccia sdegnosa, arcigna e diabolica guardava un povero Cristo (io) piegato in due, letteralmente, dal funesto e umiliante dolore provocato, sulle gambe, dal blocco del tornello. E qui mi lasciai andare ad un morigerato sfogo assolutamente giustificato: “Cazzo, cazzo, e che cazzo! Testa di cazzo che cazzo te guardi! Sta cazzo di metro del cazzo! Cazzooooooooooo! Cazzo, cazzo e cazzo ancora! Ce pago pure er biglietto pe viaggia’ su sta metro del cazzo!”.

 

Ops…mi deve essere sfuggito il correttore automatico. Se puoi cerca di sostituire le parolacce con le varie declinazioni di “accipicchia”.

Il viaggio di ritorno, seppur in piedi, è stato magnifico. Nessun imprevisto. Adesso, mentre ti scrivo, mi godo sul divano i miei 5 siberini (su: mano, naso, spalla, ginocchio e coscia) e medito sui cambiamenti fisici ed emotivi che anche un breve viaggio può determinare. Mi domando inoltre se riusciresti a riconoscermi dopo un altro paio di viaggi simili: sono però sicuro di no, probabilmente ti sarebbe del tutto impossibile.

 

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