Chirurgia plastica, abbronzatura, piercing, tatuaggi: in poche parole il mio corpo che cambia.

Chirurgia plastica, abbronzatura artificiale, addominali scolpiti, tatuaggi, piercing e tinte per capelli di colori sempre più improbabili. Avete mai pensato a quanto la nostra cultura trasformi perpetuamente il nostro corpo? Quello che noi consideriamo ‘naturale’ è in realtà puramente ‘culturale’, il più delle volte totalmente inconsapevole, e il suo significato sociale non è da sottovalutare.
Già l’aveva intuito Pico della Mirandola molti secoli fa, quando in De Hominis dignitate (1486) descrisse il ruolo dell’uomo con queste parole: “Un ruolo né celeste né terreno, ne mortale né immortale, ma libero di scolpirsi da sé, di degenerare e di rigenerarsi in esseri divini.
L’uomo è quindi plasmatore e scultore di se stesso, e la cultura risulta un segno impresso, ma allo stesso tempo in continua mutazione, sul nostro corpo.

 

La cultura ci trasforma esternamente e internamente, modellando perfino i nostri gusti e la nostra percezione di ‘bello’ e di ‘brutto’. Per di più non si tratta soltanto di definirci attraverso ciò che è puramente visibile, poiché oramai perfino l’invisibile risulta estremamente rilevante. È il caso ad esempio della profumazione che, assieme alla propria immagine, opera come uno dei più grandi metri classificatori. Attraverso l’olfatto, in un modo propriamente animalesco, pratichiamo la distinzione tra ciò che siamo noi e ciò che sono ‘gli altri’. Ognuno è contraddistinto da un proprio odore, mascherato e sfalsato da profumi preconfezionati di ogni marca. La cultura occidentale dà un’estrema importanza a questo aspetto e tende spesso a discriminare coloro che hanno un odore diverso dal proprio: l’odore diventa un marcatore sociale che distingue in particolar modo i poveri dai ricchi. Ma non si tratta di una storia solo nostra. Vediamo ad esempio il popolo Dassanech dell’Etiopia, diviso fra allevatori di bovini e pescatori, dove paradossalmente cospargersi di sterco di vacca è un buon metodo per rendersi superiori, per distinguersi socialmente rispetto ai più poveri pescatori, un modo chiaro e tondo per affermare ‘io ho le mucche e tu no’. Dunque ogni pelle ha un odore che fa la differenza, anche se la prima cosa che salta all’occhio è la sua apparenza più superficiale.

 

Il mio corpo che cambia

Il Ratto delle Sabine di Giambologna (Firenze, Loggia De Lanzi)

 

La pelle, oltre che nel colore, è più modificabile di quanto si pensi e definisce in parte ciò che siamo. In passato l’abbronzatura era lo stigma dei poveri contadini, costretti a lavorare sotto il sole cocente nei campi, oggi invece è diventato un segno di lusso e di buona salute. Così si ricorre a creme abbronzanti, lettini solari e ‘andare al mare’ è diventato sinonimo di ‘prendere il sole’. Ma questo è solo uno dei trattamenti che riserviamo alla nostra pelle. Nella nostra contemporaneità vediamo pelli sempre più scoperte dai vestiti e ricoperte dai tatuaggi, oramai tutti uguali e dai significati sempre meno chiari. È quasi una profanazione nei confronti di altri popoli, vedi i Maori, dove il moko era talmente personale da risultare come una sorta di impronta digitale, tanto che essi firmavano i documenti con il proprio tatuaggio. Ora guardandoci intorno vediamo tatuaggi Maori sulla pelle di chiunque, e nemmeno ci si pone il problema di capirne il significato, anzi giustifichiamo con estrema semplicità questa ‘bellezza da vedere’, sintomo della nostra cultura. Nulla a che vedere con la ‘bellezza da toccare’ provocata dalle incisioni ornamentali praticate dal popolo nigeriano degli yoruba, come tecnica di identificazione.

 

Ma ciò non ci basta, sentiamo perfino l’esigenza di ‘entrare nei nostri corpi’, di perforarli, di passare attraverso questa pelle che indossiamo, che non risulta mai abbastanza. I piercing ne sono la conseguenza più diretta, i dilatatori quella più estrema, ma c’è chi va ben oltre a tutto ciò procedendo con l’inserimento di oggetti ancora più evidenti. La cultura degli indiani Guayaki del Paraguay, per esempio, prevede che i ragazzi ritenuti sessualmente maturi e buoni cacciatori vengano sottoposti alla perforazione del labbro in modo da poter sfoggiare l’osso ornamentale. In entrambi i casi si tratta di un modo per costruirci un’immagine sociale: per noi un piercing può rappresentare un modo per ribellarci all’infanzia, per etichettarci in qualche gruppo giovanile, per i Guayaki significa diventare uomini e degni cacciatori nel clan.
Riappare qui ancora evidente l’idea di uomo ‘scultore di se stesso’.

 

Il mio corpo che cambia

Gli indiani Guayaki del Paraguay

 

Da non sottovalutare inoltre che ciò può avvenire dall’esterno come dall’interno del nostro corpo. Possiamo scolpire la nostra struttura muscolare (cosa più vicina alla nostra perspettiva culturale) come possiamo scolpire la nostra struttura ossea. Avrete sicuramente visto, almeno in fotografia, i lunghi colli delle donne birmane, derivati dall’usanza di appendere anelli di ottone al collo a partire dalla giovane età, o sentito parlare dell’antica usanza cinese di deformare i piedi femminili tramite fasciature per motivi puramente estetici. Il tema del dolore è strettamente connesso a questo procedimento, come se fosse proprio quest’ultimo a rendere possibile il passaggio verso un ‘nuovo io’: più la violenza esercitata è intensa, più resterà nella memoria. Lo notiamo ad esempio nei vari rituali di castrazione o di escissione del clitoride praticati in gran parte dell’Africa, nelle pratiche di avulsione degli incisivi fra gli aborigeni australiani e in quelle di scarnificazione fra la popolazione Nuer dell’Etiopia. Totalmente inverso quello che accade invece, ai giorni d’oggi, con la chirurgia estetica dove avviene l’occultamento dell’intervento e quindi del dolore attraverso l’anestesia: il trattamento sul corpo non si deve né sentire né vedere e il soggetto sottoposto all’operazione si risveglierà improvvisamente rinato in un nuovo corpo. Da una parte abbiamo quindi la centralità del ruolo del dolore, dall’altra il suo totale annullamento.

 

il mio corpo che cambia (1)

Una delle cosiddette “donne dal collo lungo” birmane

 

E per concludere, perfino dopo la morte l’intervento sul nostro corpo continua, a nostra insaputa, da parte di coloro che ci sono cari. L’idea di un corpo putrefatto ci spaventa a tal punto che sentiamo il bisogno di nasconderlo (attraverso la sepoltura), di renderlo irriconoscibile (attraverso cremazione), di prevenirlo (attraverso congelamento o imbalsamazione). La morte del corpo che ci ha resi così ‘vivi’ risulta inimmaginabile, impensabile, sia per quanto riguarda noi stessi che per quanto riguarda chi ci circonda. Addirittura, l’idea della morte di una persona ci sembra quasi più accettabile che la visione della morte stessa: il corpo, nonostante tutto, nonostante la sua fine, deve restare per sempre intatto e riconoscibile.

 

Insomma, la trasformazione del nostro corpo inizia dalla nostra giovane età e si conclude dopo la morte. Il motivo è riconducibile all’incompletezza biologica dell’uomo, ovvero l’idea che l’uomo sia incompleto per natura, e che per questo sia necessario ‘fabbricare il proprio corpo’. Rispetto agli altri animali infatti, la nostra costruzione biologica è lenta, e i cambiamenti dovuti alla nostra crescita e invecchiamento si riscontrano dopo numerosi anni. Da qui nasce il bisogno di cambiare e di ricostruirsi di volta in volta, di corpo in corpo.
Per ulteriore approfondimento vi consiglio di leggere Fare umanità, I drammi dell’antropo-poiesi dell’antropologo Francesco Remotti, manifesto assoluto dell’antropoiesi.

 

Siate consapevoli della manipolazione corporea che vi auto-applicate.