Il viaggio metafisico di una ragazza alla ricerca di se stessa.

Quando Agata si chiuse la porta alle spalle, per un attimo credette che tutto quello che era accaduto fino a quel momento fosse stato un sogno assurdo. Ma uscendo dall’ospedale si accorse che tutta l’acqua che scendeva da quel cielo arrabbiato non le bagnava neanche un capello. Allora capì.

 

Decise che la cosa migliore da fare sarebbe stata ricordare quella giornata e cercare di ordinare i fatti così com’erano accaduti, senza lasciare che la sua immaginazione o le sue implacabili emozioni potessero cambiare la verità delle cose e renderle per certi versi non più reali, ma pericolosamente verosimili. Così iniziò il suo cammino, ripercorrendo le ore appena passate e cercando di trattenere dentro di sé ciò che aveva appena vissuto.

 

Quella mattina pioveva a dirotto. Le nuvole si muovevano a ritmo incalzante come un lenzuolo mosso dal vento, cambiando forma e sfumatura. Agata doveva prendere un treno. Quel treno l’avrebbe portata nel suo paesino natale, dove avrebbe dovuto firmare delle carte per rinnovare la sua patente di guida. Un affare poco losco e molto comune, come avrebbe detto lei. Tutto ciò, però, non avvenne.

 

Quando Agata uscì di casa con l’affanno solito del post-sigaretta di prima mattina, nell’attraversare di fretta e furia la strada per raggiungere la stazione, fu investita da un’automobile rossa che aveva accelerato giusto al semaforo giallo. Bum. Un colpo secco e il suo corpo minuto fu scaraventato in aria. Fece un gran bel volo e subito a terra, nel fango del marciapiede. Si sentirono urla, clacson e poi, il silenzio. La strada fu come invasa da una sorta di aura magica che portò via i rumori e la routine.

 

Il traffico si spense, il cielo pure. Agata vide il buio e poi non sentì più nulla.

 

Passarono secondi o forse anni e le sue mani cominciarono ad essere attraversate da una sorta di formicolio, fin sopra alle braccia. Aprì gli occhi e si ritrovò in ospedale, distesa su di un lettino. Davanti a lei c’erano sua madre, sua sorella Bruna, il suo ragazzo Ernesto e Sandra, la sua migliore amica. Tutti si tenevano per mano, si abbracciavano, parlavano sottovoce. La sorella piangeva a dirotto. Gli altri erano immobili e stavano lì ad aspettare. Agata provò a dire:

 

– Ragazzi, che succede? – ma sembrava che nessuno si rendesse conto del fatto che lei avesse parlato.

 

Sua madre spense la sigaretta che stava fumando di nascosto dalle infermiere, si alzò e si accasciò sul suo lettino, senza dire nulla. Agata iniziò a sentire quella voce torbida da lontano, come se fosse una registrazione audio. Quella stessa voce che l’aveva sgridata, coccolata, consigliata, per tutta la vita.

 

– Figlia mia, sei sempre stata l’unica cosa a cui ho mai cercato di dare un senso. Tua sorella è un’irresponsabile. Mi ha fatto soffrire giorno e notte. Ma tu… Tu hai studiato, hai trovato un lavoro modesto e ora ti stavi per sistemare. Perché? Perché hai deciso di andare via? Dio solo sa che fine farò io. In un ospizio. Laggiù sognando i nipoti che mai avrò e la vecchiaia che mi aspettavo di avere.

 

La sorella si alzò e mise una mano sulla spalla della madre che la guardò con occhi gelidi. Bruna non smetteva di piangere. Il suo naso era rosso e umido. Anche stavolta Agata provò a dire qualcosa, ma nessuno parve accorgersene.

 

– Come farò? Certo, ora avrò la strada spianata, giacché in famiglia, tutti si preoccuperanno per me, che senza di te non faccio nulla… Neanche finisco un esame all’università. Agata sei sempre stata così egoista. Mi lasci sul più bello. Io questa non te la perdono.

 

Si alzò frettolosamente e ancora singhiozzando aprì la porta e scappò via.

 

Ernesto si alzò con calma avvicinando la mano al suo volto, accarezzandola dolcemente e guardandola con occhi impietositi. Agata lo osservava con amore e tenerezza. Erne, puoi ascoltarmi? Niente. Era lei che continuava a sentirne i pensieri.

 

– Ora sì che sei al posto giusto. Io amo Sandra, Agata, E tu l’hai sempre saputo. Non avrei mai potuto dirti Sì su quell’altare in giugno. Se l’avessi fatto sarei stato in prigione a vita. Ma tu la vita me l’hai salvata. Di questo ti ringrazierò per sempre.

 

Si alzò, prese per mano sua suocera e uscirono entrambi dalla stanza.

 

Rimase solo Sandra in quella camera bianca e asettica. Se ne stava lì a fissarla per un tempo che parve infinito. La guardava come si guardano dei bicchieri di cristallo in una vetrina impolverata. Con ammirazione, ma senza importanza.

 

Fu l’unica voce che Agata non riuscì a sentire.

 

Poi anche lei fece per alzarsi e se ne andò via, lasciandola completamente sola, nel vuoto.

 

Agata rimase per un attimo ad ascoltare il silenzio della verità. Poi si alzò dal letto. Si voltò e si osservò mentre il suo corpo giaceva disteso e ricoperto di bende. Si vide, tutto sommato, libera. Prese coraggio e uscì da quella stanza. Ora aveva risolto d’un colpo tutti i suoi dubbi infelici.

 

Aprì la porta e senza rimorsi cominciò finalmente il suo viaggio.