Rivoluzione Zero.

Zerocalcare è a Barcellona. Mi armo di penna, di agenda, ed esco di casa. Il talentuoso fumettista di Rebibbia, al secolo Michele Rech, presenta il nuovo libro Kobane Calling in lingua italiana, e la traduzione spagnola di La profezia dell’ armadillo (uscito in Italia nel 2011).

Ore 18:20.

Sono in anticipo. Entro nella piccola ma ben fornita libreria Le Nuvole, un delizioso angolo di cultura italiana nel cuore del quartiere di Gracia. Riesco a prendere l’ultima sedia mentre il locale si fa sempre più pieno di gente.

Arriva, presenta, racconta, risponde alle domande del pubblico. A fine incontro si forma la fila e partono i disegnetti.

Serpeggio tra la calca di libri pronti ad essere scarabocchiati da Zero e arrivo al suo tavolo. Gli chiedo se ha una mezz’ora da dedicarmi per un’intervista. Mi dice che il tempo è poco e le cose da fare molte, ma che forse ci riusciamo. Eccomi, l’accollo.

Trova il tempo e fissiamo per vederci.

Arrivo in ritardo. Troviamo un bar, un panino, patatine, gli racconto che avevo un tic con le sopracciglia… perchè poi (??).  Parliamo di Barcellona, che ci si vive bene. Dell’aglio nero e dei calçots. Finito il panino. Ancora qualche patatina.

Come si dice spremuta?

Zumo de Naranja.

Con la zeppola? Gna Faccio.

Eh un po’… chiedilo tu al cameriere.

E poi cominciamo.

 

il Cartello: Perché proprio Kobane?

Zerocalcare: Sono molto legato ai curdi perchè nel ’98, quando mi ero appena avvicinato al mondo dei centri sociali, a Roma è arrivato il presidente del PKK, Öcalan, a chiedere asilo politico in Italia. Tutta la diaspora curda europea si è riversata su Roma per sostenere la richiesta di asilo. C’erano centinaia di curdi che dormivano in strada e nelle piazze. I centri sociali romani sono stati gli unici che hanno fatto accoglienza per queste persone. Gli hanno dato una mano, portato coperte, cibo… Era una situazione molto forte e mi è rimasta tanto addosso anche perchè all’epoca avevo 14 anni. È stato un periodo intenso e che potrei definire uno spartiacque nella mia vita. Negli anni la vita mi ha portato ad altro e ad allontanarmi dalla comunità curda.

 

[Famo a capisse:

PKK – Partîya Karkerén Kurdîstan è il Partito dei lavoratori del Kurdistan. Fin dalla sua nascita nel 1978 chiede la proclamazione dello stato del Kurdistan, in quanto la sua natura è di una nazione (e non Stato) divisa tra Turchia, Iran, Iraq e Siria. I diritti del popolo curdo, sono sempre stati repressi fino a diventare un’identità considerata illegale. Il Partito, fondato dal politologo e attivista Abdullah Öcalan, nel 1984 sceglie, insieme al suo leader, la via della lotta armata costituendo al suo interno unità combattenti. Nel panorama politico internazionale è sempre stato molto discusso per  il suo essere un partito paramilitare. Da una parte visto come organizzazione terroristica, dall’altra come movimento di resistenza civile.

 

Ora, se la verità sta nel mezzo c’è da dire che… Sì, hanno sparato. Sì, hanno ucciso e continuano a farlo, e non si può attribuire facilmente un valore di buono/cattivo o giusto/sbagliato alla lotta armata. I morti ci sono sempre, su tutti i fronti. Certo è, che sono quarant’anni che i curdi combattono per i loro diritti, che sono stati la prima difesa contro l’ISIS, ed i primi ad accogliere i profughi.

 

Abdullah Öcalan arrivó in Italia nel novembre del ’98, chiedendo asilo politico e provocando un chiaccherato dibattito sull’opportunità (politica e giuridica) di accettare la richiesta.

Un tribunale italiano ha riconosciuto il diritto all’asilo dopo che Öcalan è stato catturato in Kenia, estradato in Turchia e condannato all’ergastolo. Tutt’ora si trova nell’isola-prigione di İmralı. Quando si dice il tempismo…

 

Nonostante il suo leader si trovi in carcere, attualmente il PKK sta tentando di realizzare la propria ideologia comunista libertaria sotto forma di un “confederalismo democratico” basato sulla democrazia diretta e su un’economia solidale ed ecologica.

A Rojava, Kobane e tutto il Kurdistan in opposizione all’ISIS non si parla quindi solo di guerra, ma di rivoluzione.]

 

Quando vi siete riavvicinati?

Un paio di anni fa c’è stato l’assedio di Kobane e sono circolate notizie sul Kurdistan, Rojava, su queste donne combattenti che resistevano. A noi questa cosa ci ha fatto scattare. Stava succedendo qualcosa in quel territorio e i giornali non approfondivano mai il perché di cosa stava succedendo. Volevamo capire come si era arrivati a quella situazione. Abbiamo deciso di riprendere i contatti con la comunità curda, ci siamo messi intorno ad un tavolo con loro e abbiamo scoperto quello che stava succedendo in quella parte di mondo. Quella rivoluzione che c’era stata in Rojava con il protagonismo femminile e…

 

[*Singhiozzo*

Oh no il singhiozzo

Di colore è la carne ?

Eeh? rossa

Passato.

Poi mi spieghi perchè questa cosa dovrebbe funzionare…]

 

… Comunque. Abbiamo deciso di partire un po’ per aiutare il popolo curdo, capire se c’era necessità di medicinali o di qualunque forma di sostegno ai campi profughi. Un po’ perchè volevamo imparare qualcosa, e pensavamo che quella rivoluzione fosse molto fica.

 

zerocalcare Kobane Calling

 

Non vorrei pensare male ma, per togliermi ogni dubbio, dato che il primo reportage è uscito con il numero di gennaio 2015 di Internazionale, non è che il diario di viaggio di Kobane nasce da una richiesta che ti ha fatto la testata, più che da una volontà di partecipazione?

No, la verità è che andare lì mi agitava molto. Partivamo con dei curdi che ci stavano dando un po’ di coordinate su come viaggiare e che riferimenti avere lì. Quindi ho pensato che se avevamo un pezzo di carta che testimoniava che, in qualche modo, eravamo giornalisti o cose simili, avrebbe significato avere un minimo di tutela in più nel caso avessimo avuto problemi con i turchi.* Ho bussato io ad Internazionale chiedendogli se ci dava questo pezzo di carta . In cambio mi è stato chiesto di fare un reportage a fumetti del viaggio. Doveva essere una cosa molto breve, dieci pagine al massimo, poi in realtà sono successe talmente tante cose da raccontare che è diventata una cosa molto più lunga di quella che doveva essere in origine.

 

[*Per chi si stesse chiedendo ‘perchè problemi con i turchi’ citerò una frase del libro: “Lo vedi che non capisci un cazzo stupido suino deformato? In Turchia ti si inculano, se trovano che sostieni i Curdi! ‘Sta roba per loro è tipo propaganda terroristica!”]

 

Avevi già fatto un viaggio del genere?

Sono stato a Gaza in passato prima dell’operazione Piombo fuso nel 2006… ero stato a Gaza e…

 

[Oh, io non è che so’ proprio un cretino! La gente dice ‘Ah dopo Kobane gli è cambiato il mondo!’

Ma no, lungi da me intendere questo!]

 

Però devi mettere in conto che, chi conosce solo il tuo personaggio e  poco la tua biografia, potrebbe pensare che non sei mai uscito da Rebibbia. O almeno viene il dubbio…

Diciamo che è la prima volta che sono stato più vicino alla guerra vera, combattuta. C’erano degli elementi che mi trovavo a vivere per la prima volta. Anche solo il fatto che, mentre in Israele l’essere un occidentale ti aiuta, con l’ISIS no. Anzi semmai è un aggravante. Quello che siamo andati a fare a Kobane non era andare a vedere la guerra, o insistere sull’aspetto bellico, ma vedere l’aspetto positivo di quella rivoluzione, le cose belle che stavano facendo. L’approccio con il quale sono partito è stato ‘Oh da paura magari è la prima volta che vedo una rivoluzione che funzioni’.

 

[*Operazione Piombo Fuso: 2008/2009 Campagna militare da parte di Israele contro la striscia di Gaza, i bombardamenti e gli attacchi durati quasi un mese hanno denominato l’evento Il massacro di Gaza.]

 

Hai raccontato qualcosa di Gaza?

Ero molto giovane e non avevo nemmeno gli stessi spazi. Ho raccontato delle cose con molto meno pubblico. Cosa diversa con il reportage uscito con Internazionale, che decide di ristamparlo e allegarlo gratuitamente al numero di febbraio 2015.  Il numero di gennaio contenente il racconto di Kobane ‘nel giro di poche ore è andato esaurito in tutta Italia’ e la richiesta continuava.

 

Insomma, una risonanza decisamente differente dato che la rivista conta più di 120.000 lettori. Non avevi nessun tipo di aspettativa in merito all’eco e alla diffusione che avrebbe avuto il racconto su Kobane?

Al momento della partenza no, era l’ultimo dei miei problemi. Era una cosa che avevo fatto per avere in cambio un pezzo di carta che mi tutelasse. Sono partito perchè pensavo che era il posto dove bisognava stare in quel momento. Tutti noi siamo tornati con la volontà di raccontare. Potendolo fare con strumenti diversi chiaramente. Mi sono reso conto che gli spazi che avevano gli altri compagni di viaggio, erano infinitamente minori di quelli che avevo io. Loro avrebbero dovuto autoprodurre qualcosa o pubblicarla su un circuito ristretto. Io avevo la possibilità, di finire su una rivista grossa e mi dava un’opportunità in più, dandola anche al messaggio stesso.

 

zerocalcare Sboom

 

Quando si ha la necessità di raccontare, c’è la speranza che al pubblico arrivi, che nasca un interesse. Come pensavi che sarebbe stato accolto dal tuo pubblico?

Pensavo che sarebbe stato preso molto male in realtà. Il mio pubblico non è necessariamente quello che conosce o che è interessato alle questioni mediorientali. Fino ad ora avevo fatto tutte cose piuttosto leggere. La mia paura era di essere considerato come quei comici, attori e personaggi che vengono conosciuti in un certo modo dal pubblico, come persone ragionevoli ma politicamente laiche. E dall’oggi al domani diventano passionari che scoprono a 45 anni l’impegno politico. È una cosa che mi mette molta tristezza, la trovo grottesca. La vita mia non è questo, la verità è che vengo da un ambiente iper politico. Semmai mi sono venduto come un grande bluff. Facendo finta di essere uno disimpeganto quando in realtà non era così. Credo che la mia paura fosse quella di essere percepito dalla gente come quell’altro tipo di persone.

 

Partendo dal presupposto che l’impegno politico e sociale ci sia sempre stato per te, la storia però doveva essere raccontata attraverso un personaggio che ha la caratteristica di essere piuttosto disimpegnato. Con Kobane cambia l’argomento, uscendo da una scena casalinga, ma non cambia il modo di raccontarle. Hai pensato che questo potesse sminuire ciò che stavi mettendo nero su bianco?

Un sacco. Tantissimo. Ho avuto paura di farlo durante il reportage per Internazionale e ancora di più di farlo durante il libro.  Se da una parte il reportage era super paraculo…

 

[… perché lo chiamo reportage, non lo chiamo mai così, mi hai attacato questa cosa.

(Ma il reportage… nel reportage… reportage...) Era vero.

Preferisci graphic journalism?

Diciamo, storione…]

 

… era super retorico, emotivo, non approfondiva niente. La buttava più su un aspetto di cuore della cosa e giocava tanto con le emozioni. Nel libro sapevo che dovevo entrare nel merito di quello che scrivevo, entrare in questioni più contraddittorie. Farlo con il mio linguaggio portava con sé il rischio di sminuire la portata di quello che stavo raccontando. In realtà poi i primi a leggere il libro sono stati proprio i membri della comunità curda, e a loro è andato bene. Era il pubblico più sensibile e non si sono sentiti offesi anzi… oppure non lo hanno capito, chissà.

 

C’era quindi una selezione in quello che scrivevi?

Sì, ho avuto dubbi su milioni di cose. Comunque io non sono un giornalista e questa è una guerra. E questa si fa anche con la comunicazione. Chiaramente qualcosa non si può dire e basta, notizie di ordine militare o di sicurezza. Altre volte invece spunti o immagini che magari potevano essere molto divertenti, ma rischiavano di essere offensive o discutibili, me li sono ingoiati e tenuti.

 

In occidente i nomi di quei luoghi, e una spolverata di informazioni sui fatti che descrivi, li abbiamo. Ma rimane comunque una realtà e una cultura, vuoi anche per una cattiva auto-informazione, che consideriamo molto spesso estremamente lontana e diversa. Durante il tuo viaggio hai trovato, o sentito, una caratteristica universalmente riconoscibile?

L’apertura e l’accoglienza. Che abbiamo avuto sia da parte della comandante Nazrin, che ha deciso di sospendere tutte le sue attività giornaliere per portarci in giro. Sia dal PKK, che ci ha fatto accedere ad una zona estremamente controllata. Ci è stata data la possibilitá perchè ci riconoscevamo come una parte di quello che sono e che vivono.Ci hanno detto ‘questa è casa vostra’. E questo è familiare. Hanno davvero qualcosa di così grosso, e così alto, che se ti riconosce e ti accoglie, ti lusinga tantissimo.

 

[*Nazrin Abdalla è il capo delle unità di protezione popolare delle donne della regione autonoma del Rojava, le YPJ (Yekîneyên Parastina Jin). Il YPJ si è unito alla milizia YPG Unità di protezione popolare, come brigata femminile.]

 

Qualcosa che invece, all’opposto, hai trovato molto lontano da noi?

Ci sono delle cose che sono molto difficili da capire. L’irreversibilità delle loro scelte è una cosa lontanissima per noi. Scegliere la lotta non è per forza una scelta militare. C’è chi combatte e chi va a fare un lavoro di tipo diplomatico o di tipo culturale. Ma è sicuramente una scelta di rinuncia. Rinuncia ad una famiglia o al desiderio sessuale. La stessa astinenza, la rimozione del desiderio, è una cosa molto difficile da spiegare. Nel contesto in cui sono nati non esiste un rapporto, di qualunque tipo, tra uomo e donna che sia slegato da dinamiche di dominio o di mercato. Per loro è importante ripensare anche a quegli aspetti più intimi, privati di ciascuno di noi, come può essere la  sfera sessuale. Cercano di ricostruire i rapporti in una maniera più equilibrata tra i generi. Tra noi parlavamo del fatto che il nostro concetto di emancipazione sessuale in occidente si è formato al contrario, sul fatto di fare sesso con meno legacci e meno costrizioni. Loro invece sostanzialmente lo ribaltano questo paradigma. E sono cose che ti fanno riflettere.

 

Calling, è quindi una chiamata a ripensare il nostro pensiero, o una chiamata all’azione?

La ‘guerra al terrorismo’ non la stanno facendo i nostri politici che si riempiono la bocca, ma la stanno facendo i combattenti, lì, in quel momento. E lo fanno contro l’ISIS ma anche contro un modello sociale che è quello in cui noi viviamo e che magari ci fa stare male nel nostro quotidiano. Senza bisogno di bombe o di attentati. Stanno facendo una cosa che è proprio una battaglia per l’umanità, per vivere meglio tutti. La chiamata è quindi a quel tipo di battaglia.

 

Vorresti quindi una risposta all’azione, anche solo intellettuale?

Non voglio insegnare a vivere a nessuno, ma sicuramente sono contento se questa cosa funziona e se a qualcuno stimola qualcosa.  Vorrei almeno trasmettere il fatto che tutti noi, una volta tornati, chi più, chi meno, e in modi diversi, abbiamo avuto voglia di provare a mettere in discussione il nostro modo di vivere e il nostro quotidiano.

 

Cosa non facile per noi occidentali, che molto spesso rimaniamo fermi nel nostro benessere, disinformati, apatici se vogliamo. Secondo te perché ci riesce così difficile?

Forse perché non abbiamo mai avuto un modello convincente. Un modello che ci persuadesse sul fatto che si possono davvero fare le cose in un altro modo. Sono cresciuto nei centri sociali e sono sempre stato dell’idea che il mondo andasse migliorato. Ma ho sempre pensato lucidamente che tutto sommato potevamo migliorare alcuni pezzetti di mondo. Tutt’ora se devo scegliere un posto in cui vivere, è Rebibbia. Nel primo mondo, con la banda larga, con tutti i confort nostri. Il fatto è che lì, per la prima volta, ho visto qualcosa che può essere un’altrernativa valida per una convivenza diversa e che funzioni. Ho visto qualcosa che effettivamente mi attrae. Un orizzonte che vorrei fosse il mio. Vorrei però portare questa cosa a casa mia, non voglio andare a vivere là. Vorrei che imparassimo da loro.

 

Hai progetti editoriali futuri in cantiere?

No, al momento ho il vuoto cosmico davanti a me.

 

zerocalcare Kobane

 

Per quanto riguarda i progetti esistenti, dopo la traduzione in francese sei arrivato anche in Spagna con ‘La profecìa del armadillo’. Alla presentazione del libro l’editore Jaume Bonfill di Reservoir Books era molto entusiasta. Ora, devo essere sincera, non conosco le vendite in Francia ma, hai idea di come potrà andare in terra iberica?

Ma senti, in Francia è andato una merda…

 

[Hola

Ah si, hola..Puedo..ehm..(s)Zu-mo-de-naranja

L’ho registrato

Maledetta]

 

… È andato male e pensavo che anche qui sarebbe andato come in Francia. Però ho fatto un sacco di interviste con giornalisti che lo hanno letto e, mentre ai giornalisti francesi non era fregato molto, i giornalisti spagnoli hanno avuto una buona reazione. C’è una grossa identificazione nelle storie, nei riferimenti culturali e questo mi fa pensare che potrebbe funzionare meglio che in Francia.

 

Sei positivo quindi?

Sì, dai.

Sorride. Spengo il registratore. Finito.

 

Grazie Zero.

A te.