Antonymes fa il suo grande ritorno con quella che probabilmente è la sua opera migliore. Un'opera intima ed introspettiva.

Antonymes (Ian M Hazeldine) ritorna e lo fa con un album monumentale. A tre anni da There Can Be No True Beauty Without Decay con il quale il compositore si interrogava sul tema della bellezza, qualche giorno fa è uscito il suo quarto album (For Now We See) Through A Glass Dimly.

 

Un titolo con chiaro riferimento al famoso tratto della Prima Lettera di San Paolo ai Corinti, capitolo 13, versetto 12  (“Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia”) che ha anche ispirato il capolavoro cinematografico di Bergman Come in uno specchio. L’artwork è l’altro pezzo del puzzle che ci va ad indicare  il senso dell’opera: un pianoforte che ha anche il compito di rappresentare la musica, una sedia vuota, una luce debole o un’ombra. L’artista britannico sembra interrogarsi  sulla situazione esistenziale, sul disagio che porta la vita nel suo significato intrinseco, sull’impossibilità di comunicarlo: l’arte diventa l’unico modo di estraniarsi per cercare di comprendere certe dinamiche.

 

La costruzione musicale è quasi perfetta e rispetto al passato sembra lasciare uno spazio minore all’approccio minimalista a favore di una tessitura basata sulla crescita e sulle piccole sfumature che oscillano in spazi molto stretti. Essenziali i contributi di James Banbury (The Auteurs) Christoph Berg (Field Rotation) Stefano Guzzetti (che ha curato anche il mix con Paul Humphreys), Joanna Swan (Ilya) e lo scrittore Paul Morley. Masterizzazione a cura del “maestro” Rafael Anton Irisarri.

 

 

Il collegamento con il passato si può sentire in brani come Delicate Power, Elegi(iv) e A Sadder Light Than Waning Moon con le note di pianoforte che si inseriscono nel tremolio della linea ambientale come manifestazione del cammino incerto verso la conoscenza. L’apertura con The Lure of The Land  e la title-track ci riportano su una tensione ambientale che rappresenta quello sviluppo semi-sinfonico a cui facevamo riferimento prima, fra controllo e cura della relativa “esplosione”. Elegy (ii) apporta anche l’aspetto vocale che aumenta in modo deciso la parte emozionale che è incrementata nello spoken-word dal tappeto minimale di Little Emblems of Eternity.  Sixteen ZeroSix Fifteen e le sovrapposizioni di piano e archi di Towards Tragedy and Dissolution  uniscono al meglio le due anime sin qui descritte.

 

 

Le dieci composizioni dimostrano come Antonymes sia un musicista che non solo supera il concetto monodimensionale della musica ma supera anche quello polidimensionale dell’arte stessa: la sua musica diventa una forma di analisi contemporanea collettiva e allo stesso tempo intima. Non vengono offerte soluzioni o percorsi ma viene semplicemente consegnato lo strumento musicale come mezzo di osservazione con un forte impatto emotivo. La dimostrazione della grandezza dell’artista che probabilmente ha realizzato la sua opera migliore a livello di comunicazione ed espressività.