Lambchop Flotus è la rivoluzione del leader del gruppo, Kurt Wagner, che ha inserito l'elettronica come elemento della sua musica.

Dodici album pubblicati, un collettivo musicale composto da 17 membri che si alternano e una sonorità ben precisa: l’alternative country. Questi sono i Lambchop, band americana capitanata da Kurt Wagner,  cantante dal timbro dolce ma tenebroso e chitarrista molto abile.

Dopo le prime cassette circolate solo tra amici all’inizio degli anni ’90, pubblicate sotto il nome di Posterchild (trio originario della band), arriva il loro capolavoro, I Hope You’re Sitting Down, uno di quegli album che difficilmente viene dimenticato. Un lavoro che rimanda al miglior Neil Young dando uno scossone al country, lanciando una grandissima carriera che passerà anche dalla collaborazione con Vic Chesnutt.

A distanza di 20 anni Kurt Wagner & co rinnovano le loro sonorità con il bellissimo FLOTUS (For Love Often Turns Us Still).

 

I loro primi album rimangono molto legati allo stile country. Adesso qualcosa sembra essere cambiato e si percepisce fin da subito che la distanza con quel mondo c’è e vuole essere mantenuta: la destinazione è un’altra. Un genere diverso che, grazie alla tecnologia e ai nuovi sistemi di produzione musicale, riesce a trovare suo compimento con l’arrivo del nuovo secolo e che, con il passare degli anni, può evolversi sempre di più, trovando nuove forme e nuovi suoni da sommare a quelli già presenti e sperimentati.

 

Un’identità elaborata, caratterizzata da una sensibilità musicale molto fine, in cui il timbro vocale di Kurt diventa fondamento di questa costruzione, dando alle produzioni del gruppo ancora più risalto e rendendole assestanti da qualsiasi altro lavoro musicale. Un’architettura che nessun altro aveva avuto il coraggio di sperimentare: ci vuole molta bravura e tanta conoscenza. Ma i Lambchop ce l’hanno fatta e hanno elaborato una loro gamma musicale.

 

Dopo Mr. M, album del 2012 e considerato da Pitchfork uno dei 50 migliori album di quell’anno, il 4 novembre 2016 è uscito FLOTUS (For Love Often Turns Us Still), dodicesimo album del collettivo. E da qui non torniamo indietro. I Lambchop sono andati avanti ancora. Voci campionate, sonorità tendenti all’elettronico con un grande lavoro di post-produzione… insomma non si fermano mai. In continuo progresso, senza alcuna preoccupazione per quello che viene venduto e che va in radio al giorno d’oggi: loro fanno musica, la musica che vogliono. Wagner ha deciso di continuare a scoprire e stupire, soprattutto se stesso.

 

Lambchop Flotus 1

La copertina di Flotus

 

La prima traccia, In Care of 8675309, è la dimostrazione di come i Lambchop ignorano i canoni musicali di oggi. Dura 11 minuti. Una chitarra elettrica semiacustica, una batteria, una tastiera effettata e un basso accompagnano la voce campionata, protagonista del brano. Voce che racconta di un mondo in cui nessuno si preoccupa di niente. Parla di politica, amicizia, malattia, umanità, un ambiente ostile che, però, non viene evocato per niente dalla sonorità del brano, anzi musicalmente sembrerebbe allegro.

 

Segue Directions to the Can, dove percussioni e voci mixate introducono il brano. Si sommano poi un basso e una tastiera che incrementano la centralità della voce che diventa sempre più parte fondamentale della base ritmica del pezzo. Il tutto evoca l’immagine dei locali di tendenza nei film hollywoodiani, dove i personaggi vanno sempre per rimorchiare o dove si trovano i gangster: luci fluo, divanetti bianchi, bar con bancone illuminato, tante ombre sui visi delle persone.

Nella titletrack, Flotus, la tastiera iniziale inganna sulla natura del brano, facendolo apparire acustico. Con l’inserimento di percussioni, basso e voce (sempre campionata ed effettata), però, diventa ancora una volta alternative-rock con qualche influenza jazz. E io rimango nella stessa ambientazione di prima. La serata continua.

In JFK la tastiera Midi e la solita voce avviano un brano che, al minuto 1:22, spalanca un portone. Una tastiera e altri effetti di mixaggio continuano ad aumentare e a portare l’ascoltatore oltre la soglia, in un futuro musicalmente molto interessante, ma umanamente asettico, distaccato.

 

Traccia 5. Howe: adoro l’inizio di questo brano, la sezione ritmica lascia un’impronta molto decisa sul percorso d’evoluzione di questo pezzo. Infatti, tutte le cose che verranno non faranno altro che dilatare e sostenere il principio di questa traccia: il ritmo. Nessun bridge particolare pone degli stacchi durante l’ascolto. Rimaniamo sempre lì, sullo stesso ciclo modulato di basso e percussione. 

La sesta traccia è Old Masters: con lo stesso ideale del brano precedente, il pezzo viene animato dall’arpeggio di una chitarra elettrica che colora la linea melodica della voce sempre più personalizzata. La parte vocale pare improvvisare sulla base ritmica della traccia, formata dagli stessi elementi di Howe, aggiungendovi però una tastiera.

 

Con Relatives #2 probabilemte si scopre la traccia più affascinante dell’album. Possiamo darlo per assodato: la campionatura è l’elemento fondamentale di questo album e in questo pezzo non poteva proprio mancare. Infatti, l’inizio è designato solamente dalla voce effettata. Si aggiunge poi una percussione. Ad un certo punto, c’è una microesplosione (data dalla somma di diversi elementi), prima soffocata e poi lasciata andare: è nella sua natura essere libera, il brano non poteva farne a meno. Il tutto poi cala, diventando essenziale e rilassante, come se il mondo stesse cadendo nel buio della notte, che, però, lentamente si rianima.

 

La descrizione giusta per Harbor Country si può trovare nel testo: “too much, too much, too much”. Questo brano o lo ami o lo odi. Nessuna via di mezzo.

Nella nona traccia, Writer, la voce, insieme a un motivo di base che parrebbe un pad, è l’unico elemento melodico iniziale. Il resto è ritmica. Fino a quando non subentrano una chitarra, una tastiera e degli altri pad che man mano conferiscono una sembianza armonica al pezzo.

NIV: è il brano più popolare dell’album su Spotify, forse perché più vicino alle sonorità che siamo abituati ad ascoltare, ma se ne differenzia in modo elegante e sofisticato. Il motivetto di base entra in testa nel giro di un secondo.

 

 

Con la finale The Hustle i Lambchop devono aver pensato: “Sapete che c’è? Non abbiamo ancora fatto veramente tutto quello che volevamo”, quindi 18 minuti di brano. L’inizio strumentale molto raffinato è composto da tastiera, base ritmica e un’altra Midi. Arriva poi un fiato di difficile identificazione, che accenna la sua presenza ogni tanto, dando una spruzzata di giallo al suono. Ecco poi la voce, pura e profonda. Interrotta da qualche stacco ritmico, racconta d’amore, di estraniamento e di non riuscire a stare più dove si è: nonostante tutto ciò che abbiamo intorno, sentiamo il vuoto. E si ritorna allo strumentale e poi di nuovo alla voce, modificando la sonorità del pezzo, che in 18 minuti ha tutto il tempo di evolversi e stravolgersi.

 

Hanno sperimentato tutto? Chi può dirlo. Ogni volta, i Lambchop trovano qualcosa di nuovo da dire e da suonare. Ora si tratta solo di aspettare e vedere.

Ci si risente al tredicesimo album!

 

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