Welcome to Hanoi.

Quando in febbraio mi fu proposto uno stage formativo ad Hanoi, non ci pensai due volte e con grande leggerezza accettai immediatamente. Era un giorno grigio e umido qualunque nel piccolo reame del Belgio, la prospettiva di vedere il sole tutti i giorni e di visitare il tanto agognato Vietnam liberarono la mia mente da ogni esitazione al momento della firma. Una mole di carte da compilare accuratamente annegò le preoccupazioni spontanee che, malgrado tutto, riaffiorarono nei giorni seguenti. “Avrò fatto bene ad accettare di andare a lavorare in una città che non ho visto mai nemmeno in cartolina?”. Non me ne rendevo ancora conto ma quell’incoscienza o, se vogliamo essere più clementi, quella leggerezza di spirito, mi avrebbe reso un gran servizio.

L’arrivo

Dopo un viaggio di 18 ore, uno scalo a Doha, uno scalo tecnico a Bangkok e la scoperta del kolossal bollywoodiano a tinte epiche “Baahubali : the beginning”, di cui fra l’altro vi consiglio la visione, la mia salma è giunta all’aeroporto di Noi Bai alquanto stupefatta dall’efficienza e dalla disponibilità del personale: in poco meno di 15 minuti avevo già passato la dogana, recuperato il bagaglio, sottoscritto un abbonamento con numero vietnamita, prelevato milioni di Dong e caricato i bagagli sul taxi collettivo. Temevo quasi di essermi ritrovato in una versione sud-est asiatica della Repubblica Federale di Germania, quando il taxi è giunto nella città vecchia, la celeberrima Hoan Kiem, dove tutti i passeggeri albergavano. Questo dedalo di strade e sdruccioli, anche noto come il quartiere delle 36 corporazioni, è paragonabile ad un convulso formicaio dove i passanti rimbalzano costantemente fra tavole calde e banchi del mercato, avendo cura di non farsi risucchiare dall’onnipresente fiumana caotica di ciclomotori. Inutile aggiungere che su quei ciclomotori si vede circolare di tutto. Un caso limite è stato senz’altro scorgere numerosi uomini e polli restare in equilibrio sullo stesso scooter in modo da inficiare i postulati della fisica applicata. Abbagliato dalle immagini del “ventre” di Hanoi e stordito dai suoi profumi speziati, ho vagato con l’aria da beota per qualche ora prima che alcune birre e il jetlag venissero a rimboccarmi le coperte nella camera d’albergo. Piccola, appartata, ben nascosta alla vista di quel borgo che dorme solo in apparenza.

Hanoi

Un “incrocio” ad Hanoi

La nuova America

Il giorno seguente, in seguito all’amara scoperta dell’arcano -la finestra del mio piccolo approdo tranquillo era in realtà un muro-, mi sono spasmodicamente messo alla ricerca di una sistemazione stabile e di un mezzo di locomozione. E alcune ore dopo tutto era pronto, in attesa che mettessi, ancora una volta, la mia firma su un banale pezzo di carta. La stanza d’appartamento, con contratto flessibile, non aspettava altro che sfacessi le valige e il motorino, sopravvissuto a più primavere di mio padre, sembrava impaziente di mordere l’asfalto. “Il Vietnam è la nuova America”, mi sono detto ridendo. Certamente, ma lanciarsi in quella corsa di bighe romane che è il traffico hanoita richiede comunque una certa dose di coraggio, o meglio, di “leggerezza”.

Il traffico hanoita

Bisogna sapere che come il caos ha una sua armonia, anche l’ingorgo vietnamita pare averne una. Nonostante il disordine apparente, la circolazione è come un valzer ritmato da una frequenza di mille colpi di clacson al secondo. Ci ho messo del tempo a capire quale sia il significato di un tale uso smodato del segnalatore acustico, senza tuttavia coglierne l’interezza. A mio avviso gli utilizzi principali si declinano come segue :

 

1) Prevenzione: il clacson diventa caldo come il pulsante di un quiz e il primo che lo suona al momento del sorpasso, della svolta oppure del transito sul marciapiede, vince e ha il diritto di passare mentre l’altro aspetta il suo turno.
2) Autoaffermazione cartesiana: talvolta il colpo di clacson sembra immotivato ma non è in realtà così. Secondo la vulgata “motociclistica”, agire secondo la massima “clacson ergo sum” permette di dissipare il dubbio scettico per eccellenza.

 

Questa interpretazione molto soggettiva ha dato ulteriore adito alla leggerezza che contraddistingue il mio approccio alla realtà locale. Senza indugi mi sono lanciato nel traffico col fervore di Padre Pio per poi ricordarmi alcuni secondi dopo che in realtà era solo la mia prima volta…e come spesso accade quando si tratta della prima volta, è meglio lasciar fare tutto a chi ha più esperienza. E così è stato, ho lasciato fare tutto agli altri. Avrei voluto chiudere gli occhi di fronte a quello stupro di massa del codice stradale, voltarmi dall’altro lato, redarguire chi ti obbliga costantemente alla frenata d’emergenza, ma quale senso avrebbe mai avuto? Molto meglio cercare la logica nel marasma urbano e sopravvivere all’esperienza che, in fin dei conti, è anche eccitante.

 

L’alba di un nuovo ”sogno”

Giunto incolume a casa, mi sono reso conto che qualcosa già non andava in quel ciclomotore antidiluviano. La vernice bianca e rossa teneva alla perfezione ma lui aveva solcato troppi mari di bitume per continuare con quella vita di miserie, ha resistito quanto ha potuto, mi ha aspettato per anni perché vivessimo questa “prima volta” insieme. Povero Argo moderno. Non c’era più niente da fare per salvarlo e allora furioso come l’Orlando ho chiamato il rivenditore di ciclomotori per cantargliene quattro prima che mi dicesse in un inglese stentato che stava venendo a “vederlo”: qualche ora dopo lo trovo sfiancato e sudato davanti alla mia porta per mostrarmi un motorino più recente, pimpante e soprattutto giallo canarino. Terminata la sua arringa tutta gesti e sorrisi, il buon uomo ha imbracciato le spoglie metalliche del mio nuovo, vecchio amico e lo ha ricondotto a spinta fino al suo garage per i dovuti ossequi. In quel preciso momento l’ho capito: stavo assistendo all’alba del nuovo sogno vietnamita.

 

Hanoi

Il mio scooter