Una chiacchierata sull’avvento della realtà aumentata e virtuale e del mondo che ruota intorno a questi nuovi media.

Firenze, quartiere Le Cure. E’ un lunedì mattina e i ragazzi di MONOGRID non sono ancora arrivati nel loro studio. Di fronte alla vetrata colorata di questa ex officina aspetto Francesco, uno dei soci fondatori di questo progetto creativo digitale che recentemente si è spostato fuori dal centro della città.

Arriva e mi fa entrare. La sera precedente erano tutti impegnati per un’installazione di virtual reality per Treedom, di cui mi fa vedere qualche foto sul telefono, e giustifica così il disordine nella sala principale. Ci sediamo ad un tavolo rotondo e faccio partire il registratore.

 

“Ci siamo trasferiti qua quest’estate. Prima eravamo in centro città, ma nel giro di pochissimo siamo diventati troppi”, mi dice riferendosi alla numerosità dello staff. “Questo posto è molto bello, anche concettualmente. Si tratta di un’ex officina, quindi abbiamo cercato di non modificare eccessivamente lo spazio rispetto all’utilizzo originario. Fondamentalmente noi creiamo cose, che poi siano siti web, esperienze e non macchine l’approccio ed il metodo sono molto simili”.

 

Partiamo da MONOGRID, raccontami chi siete e che cosa fate.

Siamo uno studio creativo digitale. Produciamo esperienze e progetti per l’advertising. Abbiamo una forte componente tecnica al nostro interno, maturata attraverso un’esperienza internazionale comune. Prima infatti alcuni di noi, me compreso, lavoravano per UNIT9 (una casa di produzione di contenuti multimediali con sede a Londra), ma poi abbiamo scelto una strada autonoma. L’esperienza londinese ci ha dato un bagaglio importante che qui in Italia non avremmo mai potuto acquisire.

Le cose sono andate davvero bene: da quattro siamo diventati in tredici. Abbiamo investito molto nella realtà virtuale, adesso abbiamo iniziato ad investire anche nella realtà aumentata.

 

Oggi siamo in partnership con la casa di produzione Cattleya e con loro abbiamo realizzato progetti su Gomorra per Sky, ma non solo, anche spot in VR per il web.

Ciò che facciamo può essere diviso tra la consulenza tecnica, quindi lo sviluppo a servizio di altre case di produzione o agenzie, e progetti veri e propri di nostra produzione, dove uniamo la componente creativa e quella tecnologica. Ciò che vogliamo fare è portare in Italia il nostro fuso orario tecnologico maturato all’estero, applicato soprattutto alla pubblicità. Per fare ciò dobbiamo necessariamente investire anche nelle attività di ricerca e sviluppo, che ad oggi assorbono il 20-30% del nostro monte ore lavorativo.

Per importare una nuova cultura digitale in questo territorio cerchiamo quanto più possibile di avviare collaborazioni con artisti e creativi. L’obiettivo è creare cose belle, attraverso le competenze e le conoscenze di cui disponiamo.

Questo non è soltanto un modo di sperimentare, ma anche di mostrarci al pubblico, creando una vetrina per prodotti multimediali sconosciuti ai più.

 

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Siete tra i pionieri nell’uso dei new media per proporre nuove forme di storytelling. Quali sono i progetti che vi rappresentano e piacciono di più?

In generale, ogni progetto che porta la nostra firma lo sentiamo nostro e ci rappresenta a pieno. Il minimo comune divisore è la presenza di una componente tecnica e tecnologica applicata alla comunicazione. In alcuni progetti questa è maggiormente visibile, in altri meno.

Ad esempio, nel progetto che abbiamo realizzato per Sky su Gomorra, vi è una forte componente tecnologica: era il 2014 e stavamo lavorando con la virtual reality quando ancora nessuno in Italia lo faceva. Non solo, ma eravamo anche nel set della serie televisiva italiana più vista al mondo, in un ambiente complesso in cui girare. Il nostro progetto riuscì a fare più condivisioni del trailer della serie stessa.

 

Un altro progetto che ci rappresenta, ma in cui la componente tecnologica era meno evidente, è il fashion film che abbiamo realizzato insieme a Cattleya per Vogue. Fino ad arrivare al progetto cui abbiamo lavorato fino a poche ore fa, qui a Firenze, per Treedom.

Lavoriamo mediamente per 6-7 progetti l’anno, ognuno dei quali può durare anche un mese, e tutti ci rappresentano.

 

La realtà virtuale sta assumendo la forma di qualcosa di tangibile e che presto potrebbe realmente accompagnare la vita di tutti i giorni. Quali saranno i primi settori ed ambiti ad essere toccati da questa nuova tecnologia?

Gaming e porno. Sono due ambiti che si prestano benissimo all’innovazione. E poi nel settore del porno sono pionieri in tutto ciò che è new media. Per quanto riguarda il gaming questo vale sia per la realtà virtuale che per la realtà aumentata.

Per quanto riguarda altri settori mi viene in mente lo sviluppo del prodotto, dunque commerciale e business, e penso all’e-learning con la realtà aumentata: l’operaio in fabbrica che impara attraverso un dispositivo di realtà virtuale. Oppure l’amministratore delegato a New York vede il prototipo del prodotto, che però si trova a Tokyo, attraverso un ologramma.

 

Ciò che manca ancora è la qualità tecnica: siamo ai potenziali di story telling con la tecnica siamo ai livelli del Nokia 3310. Però le possibilità sono davvero tante. Sia per la realtà virtuale, che per la realtà aumentata, mancano ancora i contenuti, ma soprattutto manca una diffusione.

Ad esempio, Oculus Rift prima è uscito solo per sviluppatori. Oggi c’è per tutti, ma costa 1000 euro, senza contare la spesa per avere un pc in cui farlo girare. Playstation ha fatto uscire il caschetto a 400 euro, già un quinto di quanto avresti speso prima. Microsoft è uscita recentemente con il visore a 300 dollari… è adesso che sta prendendo forma il futuro. Finché in pochi hanno a disposizione lo strumento, resta un interesse per gli addetti al settore. Ma quando la cosa avrà un’ampia diffusione, lì vedremo davvero da che parte andrà il mercato.

 

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Hai parlato di e-learning: quanto tempo ci vorrà prima che realtà virtuale e aumentata possano essere applicate nel mondo dell’istruzione?

Il problema sarà come mettere in testa ad un bambino un casco per la realtà virtuale. Non devono stare troppo di fronte alla TV, figuriamoci con uno schermo ad un centimetro e mezzo dagli occhi. Anche solo il Samsung Gear è sconsigliato sotto i 13 anni. Rimane dunque il problema del mezzo. La realtà aumentata è sicuramente meno invasiva, ma permane comunque il problema del costo per le pubbliche amministrazioni per diffondere dispositivi e programmi in ogni istituto.

 

Come si produce un applicativo di VR?

Ci sono due tipi: uno interattivo, uno non interattivo.

Innanzitutto dobbiamo capire su quale dispositivo andrà poiché questi hanno delle caratteristiche di controllo diverse gli uni dagli altri. La realizzazione dei contenuti non interattivi è abbastanza semplice: abbiamo una telecamera specifica o un rig di telecamere, e in fase di post produzione montiamo tutto lo scenario. Questo viene importato nel player e viene visualizzato in modalità 360°. Abbastanza semplice, anche se i problemi di motion sickness (incongruenza tra il movimento e ciò che si vede, ndr) sono frequenti se la camera è in movimento, dobbiamo quindi stare attenti alla fase di scrittura della storia.

 

Per lo sviluppo di applicativi interattivi invece ci sono due piattaforme di sviluppo in cui si lavora con un ambiente a 360°, proprio come un gioco, dove vengono sistemati gli elementi a cui poi si conferiscono delle regole di interazione. sta nel trovare il giusto balance tra complessità dell’esperienza e qualità grafica per far si di far girare l’esperienza senza problemi nei vari device.

 

Noi abbiamo creato un gioco di virtual reality. Sei un funambolo sulla fune e con i controller devi bilanciare la tua posizione per non cadere. Qui ci siamo scontrati con le competenze specifiche del tema. Come impostare la telecamera? Se la facciamo ruotare come farebbe la testa del funambolo dopo due volte vomiti. Ci siamo accorti infatti che è importante mantenere il contatto con l’orizzonte. Un altro problema legato all’esperienza dell’utente è stato quello del posizionamento dei controller, poiché non sapevamo dove farli apparire e come.

 

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In un recente articolo riguardo le tecnologie usate in Black Mirror, il prof. Skwarek, della NYU’s Tandon School of Engineering, ha scritto: “test VR con bambini mostrano che l’esperienza immersiva viene ricordata nelle aree cerebrali dedicata ai reali momenti di vita. Programmi TV, video, film e foto vengono immagazzinate in altre aree. Si tratta di esperienze davvero potenti”. Quali sono secondo te le implicazioni in relazione a queste osservazioni? Serve extra-cautela nel gestire questi strumenti?

A questa domanda rispondono tutti appellandosi al buon senso. Quando distribuisci un film in cui compare la scena di una strage speri che nessuno degli spettatori imiti quel tipo di comportamento. Stessa cosa per i videogiochi. E’ ovvio che quando fai uscire un prodotto ci sono dei limiti da seguire, come non giocare per più di un certo numero di ore. Stessa cosa per la virtual reality.

Se la storia è molto efficace, è come un libro o una serie tv. In uno degli ultimi episodi di Black Mirror 3, l’esperienza del giocatore è talmente immersiva che dura solo cinque secondi nella vita reale. Il produttore fa l’esperienza più bella che può. Sta al buon senso delle persone uscire dal virtuale quando è il momento giusto.

 

Secondo me non bisognerebbe nemmeno porsi eccessivamente il problema. Non siamo ancora al punto in cui in tutte le case tutti hanno il casco per la virtual reality e nessuno esce più di casa.

Da produttore non mi pongo neanche troppo il problema. Forse è brutto da dire, ma è la verità. Se fai un horror non è che ogni tanto accendi la luce per farlo diventare meno pauroso. Se la gente non dorme la notte perché ripensa al contenuto bene, significa che hai fatto un buon lavoro.

 

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 Se ti è piaciuto questo articolo guarda anche la nostra video intervista: This is Virtual Reality.