La nostra quarta menzione d'onore viene dalla penna della diciannovenne Nicoletta De Lellis, con il bellissimo La Trappola è in te.

Resisti Lele, resisti”. Avviluppato su se stesso come un serpente alla sua preda Lele stringeva i denti, gli occhi chiusi e le labbra piegate in una smorfia di dolore. Sentiva la morsa crudele di quelle mani lunghe e affusolate sul suo collo, il viso ormai paonazzo, nel cuore la sensazione di non farcela. Ancora una volta. Un nodo gli strinse la gola, probabilmente era il groviglio dei suoi pensieri che lo attanagliavano, che bloccavano i suoi impulsi razionali per abbandonarsi alla presa forte e decisa di Lei, che incurante del suo dolore continuava a stringerlo con vigore.

 

Lei…Lele cercò di sforzarsi di ricordare quand’è che l’aveva incontrata per la prima volta. Era ancora un adolescente, un ragazzo ermetico, riflessivo, amante della solitudine e dei propri spazi. Quando Nadia lo invitò alla sua festa, per un attimo Lele poté toccare il cielo, pervaso da un brivido freddo ma piacevole, totalizzante. Poi subentrò la sua parte razionale, logica, il Lele di sempre: i posti affollati e la musica che rimbomba nello sterno non rientravano tra i suoi passatempi preferiti, al contrario cozzavano fastidiosamente con la sua indole. Ma, preda della sua cotta adolescenziale, Lele decise che per Nadia valeva la pena di sopportare frequenti gomitate e un grande imbarazzo nel sentirsi fuori luogo. Camicia azzurrina, papillon blu scuro e pantalone color daino, Lele si presentò alla festa con tre minuti di anticipo, impacciato quanto un bambino nel giorno della sua prima recita scolastica. Fu lì che la incontrò: in mezzo a quella folla di ragazzetti scatenati, nel caos delle luci multicolori che abbagliavano e confondevano la vista, Lele si accorse per la prima volta di Lei.

 

Viso pallido, perlaceo, privo di imperfezioni; capelli lisci, doppi, di un nero carico, intenso. Le sue grandi pupille lo fissavano con insistenza, un’insistenza piacevole ma al tempo stesso spaesante e Lele rimase ipnotizzato da quello sguardo che pareva tutt’altro che rassicurante ma che come un magnete non smetteva di attrarlo. Tutt’a un tratto fu come ritrovarsi improvvisamente solo: le mille voci attorno a lui si fecero confuse, mentre sempre più nitida era l’immagine di Lei. Era stato un incontro folgorante, surreale, e da quel giorno Lele si sentiva come perennemente invaso dalla presenza di Lei, incapace oramai di provare quel senso di appagante solitudine che aveva da sempre caratterizzato le sue giornate; come un’ombra lo seguiva, lungo la strada che ogni mattina percorreva per andare a scuola, nella sua tiepida e buia stanza da letto, persino quando si sedeva a tavola, la maggior parte delle volte da solo (i genitori erano sempre impegnati col lavoro). Anzi era proprio in quei momenti che a Lele sembrava di scorgere la sua eterea figura che lo fissava e quel senso di disagio e di imbarazzo si insinuava nel suo stomaco, che dunque carico di tante sensazioni non aveva più spazio per il cibo.

 

Il tempo non affievolì il ricordo: Lele intravedeva spesso quel corpo longilineo, a volte controluce, a volte nitido, di fronte a sé, a volte in lontananza, a volte seduto proprio di fianco a lui, tra i banchi di scuola e tra le mura domestiche. Qual era il suo nome, qual era la sua identità? Lele aveva cercato più volte di parlarle, di chiederle spiegazioni, anche semplicemente di conoscere la sua voce. Ma ogni volta la ragazza spariva, come un sogno, un’apparizione fulminea e Lele si interrogava, si sforzava di capire da dove provenisse, cosa volesse, perché lo cercasse. Cercava di capire ma non ci riusciva e intanto il senso di inquietudine provocato da Lei si faceva sentire sempre più spesso e, senza rendersene conto, Lele cominciò a chiudersi entro il proprio guscio di paure. La mattina si svegliava con la sensazione di un forte peso che gli comprimeva il petto, come se la gravità fosse d’un tratto aumentata a dismisura, e questo macigno si abbatteva violentemente sul suo umore, che diventata sempre più grigio, più cupo.

 

trappola 1

 

I primi tempi Lele era consapevole che non si trattava effettivamente di un reale malore, bensì di una suggestione, ma ogni giorno questo peso gli appariva sempre più concreto, si materializzava diventando una vera e propria zavorra da portare con sé. Talvolta dal petto saliva alla gola e gli pareva di non avere abbastanza spazio per respirare, in altri momenti, invece, scendeva fino alla pancia che iniziava a mormorare con roca voce il bisogno di liberarsene. E Lei se ne stava lì a guardarlo: non una parola di conforto, non un gesto d’affetto, era lì in lontananza ad assistere con indifferenza a questo tormento. Forse era stata proprio lei a scagliargli addosso quel macigno perché Lele aveva notato che la sua presenza corrispondeva a quella dei suoi fantomatici sintomi.  Eccessiva sudorazione, palpitazioni, brividi: Lele cominciava a mostrare un rifiuto sprezzante per il mondo esterno, ma soprattutto a non sentirsi più in grado di affrontare la sua vita, persino le azioni più banali gli apparivano una maratona di resistenza, poiché doveva resistere ogni volta a quel profondo senso di inadeguatezza, di smarrimento, all’impressione di non essere più padrone del proprio corpo e delle sue emozioni. E non si azzardava a chiedere aiuto, almeno il suo orgoglio voleva preservarlo, lasciarlo intatto fino a quando avrebbe potuto.

 

I suoi sguardi ormai vuoti, però, la perdita di quell’energia vitale che seppur celata dall’indole introversa c’era sempre stata, cominciavano ad essere evidenti agli altri; Lele sembrava come costantemente inquieto, tormentato da un qualcosa che non riusciva ad essere percepito da chi gli stava intorno. Alcuni pensarono che fosse lo stress, altri ancora che si trattasse della conseguenza di un amore andato storto, ma il fratello, Dario, non riuscì ad essere indifferente. Si vedevano poco, i due, Dario lavorava in un’azienda di cosmetici e i suoi turni erano assai serrati; la pausa pranzo troppo breve non gli permetteva di tornare a casa e quando la sera rientrava, si cambiava in fretta e furia per raggiungere Mirella, la fidanzata, che abitava dall’altra parte della città e che vedeva meno di quanto vedesse suo fratello. Con Lele infatti stava poco, scambiava quattro chiacchiere al mattino di fronte alla tazza di latte macchiato e quando usciva di casa lo salutava sempre con uno scappellotto affettuoso sulla testa. I due, tuttavia, avevano un’intesa speciale, proprio per questo Dario si accorse dopo non molto dei nuovi e insoliti atteggiamenti di Lele. Il primo sabato libero, perciò, rimandò l’appuntamento con Mirella e portò Lele al lago. Lele, però, non era felice. Salì in macchina, non erano soli.

 

Sul sedile posteriore era seduta Lei, le gambe unite, lo sguardo rivolto verso il finestrino, l’aspetto di chi è impaziente di parlare, di agire. Lele si girò davanti di scatto, la pancia che cominciava a mormorare, il respiro che si faceva affannoso. Il lago era da sempre stato legato ai bei ricordi: Lele e Dario ci andavano da bambini, a raccogliere ramoscelli secchi per giocare agli indiani d’America, gridando parole inventate, spingendosi nell’acqua, per poi tornare a casa totalmente inzuppati. Ci andavano di domenica, ogni due settimane, un giorno speciale perché arrivavano gli zii ed era sempre festa. I lunghi pranzi con tutti i parenti erano la parte più noiosa e Lele, Dario e Camilla cercavano ogni volta di svignarsela per fuggire al lago. Camilla era la loro cuginetta, due anni più piccola di Dario, una bambina tutto pepe. Insieme, la domenica, si arrampicavano sugli alberi, facendo a gara a chi riuscisse per primo a trovare una posizione comoda, stabile; poi si guardavano in volto, i visi spensierati, sgombri da qualsiasi velo di negatività. Si guardavano in volto, tutti e tre, certi che quei loro sguardi sarebbero rimasti sinceri, autentici. Lele e Dario giunsero al lago dopo dieci minuti di tragitto, silenziosi entrambi, pensierosi entrambi.

 

Quando Lele uscì dalla macchina lo assalì un forte senso di nausea; Dario gli prese la mano, gli accarezzò la fronte sudata, lo fece sedere sul prato. E Lei lo guardava, avvicinandosi lentamente, con passo felpato, il viso quasi rassicurante, ma aveva un’aria minacciosa, cattiva. Qualche lacrima cominciò a rigare il viso del ragazzo: era spaventato, impossibilitato ad agire, a reagire contro quella creatura che da mesi lo tormentava, che non gli dava pace. Si avvicinò ancora di più. Dario strinse forte il fratello e non gli fece domande, si limitò a fargli sentire la propria vicinanza. Lele continuava a star male, il nodo alla gola sempre più stretto, il respiro sempre più affannoso, la figura di Lei sempre più vicina. Dopo qualche minuto lo raggiunse, lo fissò dritto negli occhi e con una mano gli prese il collo; Dario non poteva vederla e continuava a tenere la mano di Lele, tremante. La stretta di Lei era vigorosa e per la paura Lele chiuse gli occhi; per qualche secondo gli sembrò di essere nel vuoto, un vuoto bianco e nebbioso. Poi vide Camilla che gli correva incontro, le mani tese a mo’ di abbraccio. Camilla, la sua cuginetta. Perché se n’era andata via? Perché quel vento di novembre aveva portato con sé la sua anima? Lele piangeva e senza rendersene conto l’immagine di Camilla e quella di Lei cominciarono a fondersi. Tutt’a un tratto gli fu chiaro il nome di Lei, di quell’Ansia che gli aveva oscurato, ottenebrato la mente, il cuore. Aprì gli occhi e si ritrovò stretto fra le braccia di Dario. Lo guardò per qualche secondo, poi si girò verso il leccio illuminato dal sole, i rami fitti; anche Dario si era girato verso quella direzione, entrambi cercavano di scorgere quella figura piccola, impacciata, che si nascondeva nel verde della chioma. I loro sguardi si incrociarono di nuovo; una folata di vento accarezzò i loro volti sorridenti.

 

Parole di

Nicoletta De Lellis

 

 

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Se il nostro concorso letterario ti appassiona leggi anche la terza menzione d’onore, Passi di Olga Gnecchi.