Janis Joplin ed un sogno americano fatto di autodistruzione, tra Librium, eroina e alcol.

Sarà stata la neve su New York, il balcone, i corridoi trascurati, la moquette macchiata a convincere Janis Joplin a trascorrere gli anni del successo e della desolazione al Chelsea Hotel.

La sensazionale esibizione al Monterey Pop con Ball’n’Chain aveva messo sotto gli occhi di tutti il richiamo primordiale che sembrava sgorgare dalle sue corde vocali.

Era passato un po’ di tempo da quando una ragazzina texana dal cuore d’oro cantava nel coro cittadino della città.

 

Quanta strada era stata battuta dall’epifania con Leadbelly e Big Mamma Thornton all’empireo in cui era stata accettata di diritto contrariamente ai suoi compagni di viaggio, i Big Brother and the Holding Company, sostituiti da una band professionale di supporto.

Doveva essere stato il risentimento dei vecchi amici, dei colleghi, a spingerla a vagare malinconica per l’hotel o, forse, l’eccessiva attenzione da parte della stampa: era lei che volevano, il passato era stato cancellato, lasciato fuori dal riquadro di una foto, fuori scena.

 

 

“Faremo di voi degli uomini robot” è così, quando sei nel business musicale le emozioni sono messe alla porta. Cosa ha spinto un animo tanto sensibile a ciondolare nel cuore della notte in cerca di contatto umano? Le recriminazioni, le sessioni d’incisione, l’incertezza, le pressanti richieste della casa discografica e la solitudine. Se esisteva un altro artista al mondo bastonato da una vita sadica in quel labirinto del Chelsea, quello era Leonard Cohen.

“Noi siamo brutti ma abbiamo la musica” Janis ripensava a ruota libera alle parole scritte dal poeta canadese in Chelsea #2.

 

Accarezzava i muri tappezzati di carta da parati e anneriti dal fumo di sigaretta, era in cerca di qualcosa in quell’enorme ventre molle che aveva accolto l’anima artistica dell’America negli anni 60.

Stringendo nella mano una bottiglia pensava all’enorme ferita inflitta alla sua esistenza in un momento casuale, in un giorno qualunque dove lei, probabilmente, stava facendo piani per il futuro.

Tutto cambiò prima che potesse realizzare la mole di eventi dopo l’estate dell’amore. Possibile che Arthur Miller avesse ragione? In America si deve rinunciare a qualcosa per ottenerne un’altra?

Cheap Thrills era stato un successo con un contratto da un quarto di milione di dollari; sì ma a che condizioni? L’ebrezza dei servizi fotografici per Glamour, le interviste per Life, i ritratti per Richard Avedon, conoscere Jim Morrison, l’afflusso di molto denaro, la benevolenza di Ginsberg, prima o poi si sarebbe esaurita lasciandola in balìa del maelstrom dell’industria culturale.

 

Janis Joplin 2

Janis in un ritratto per Richard Avedon

 

 

Poi si chiese gustando l’odore dolce dell’erba che aleggiava nell’aria se tutto quel tracannare Southern Comfort fosse una buona idea; se le facesse bene flirtare con chiunque sognando uomini bellissimi. Era diventato tutto un imperativo morale in quei giorni; l’assillante ricerca della felicità, di una felicità imposta con le condizioni altrui e l’arte ridotta a una sgradevole faccenda di soldi: addio ai giorni della musica.

Forse si era allontanata troppo radicalmente dal seno materno del blues; originariamente la tradizione, la voce di Odetta, di Bessie Smith l’avevano supportata e accompagnata durante l’infanzia e l’adolescenza da emarginata. Non si sentiva un’esclusa, lo era. La musica le aveva fatto sopportare la sofferenza, la tensione emotiva l’aveva spinta a scrollarsi di dosso la provincia e i mostri del passato pronta a farla a pezzi. I piccoli club delle prime esibizioni avevano lasciato spazio alla realtà agghiacciante dei contratti, delle enormi aspettative, un pubblico da soddisfare, soldi da regalare. Il blues lo stava vivendo e non per interposta persona. E quando il peso di un desiderio espresso ed esaudito passava il conto da pagare c’erano il Librium, l’eroina e i tranquillanti. Eccola lì l’altra faccia del grande sogno americano.

 

Janis joplin 1

 

“Forse il pubblico apprezza di più la mia musica se pensa che mi stia distruggendo” e ancora altro liquore da ingollare prima di andare a dormire. Nessuna festa in camera quella sera, nessun tossico da scopare, nessun Bob Neuwirth con cui condividere uno spiraglio di autodistruzione.

Una di quelle notti infinite dove ogni stato d’animo è quello sbagliato.

 

Al Chelsea Hotel era arrivata la futura regina del punk Patti Smith ma la sacerdotessa del rock aveva ancora qualcosa da dire. Era diventata lo schermo di un problema molto più grande. Il sintomo di una epidemia morale e umana che avrebbe messo in ginocchio il Paese da lì a poco.

Si avvicina alla porta della sua camera d’albergo, domani New York sarà alle spalle, la città degli angeli l’aspetta tra le lacrime.

La mente corre alla tragica notte in cui era stata mollata al bar, ancora una volta, da un bellissimo uomo.

Qual era la ferita? In quale momento aveva iniziato a sanguinare?

Janis piangeva e Patti ascoltava “Succede sempre a me. Un’altra notte da sola”. Allora la poetessa del rock canta alla tormentata anima gitana che ha davanti: una canzone scritta per lei.

“Come ti sembro?” Janis fa una smorfia rievocando sulle labbra quella domanda infantile.

“Come una perla. Una perla di ragazza.” rispose Patti Smith.

 

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