My Bloody Valentine, Loveless: il fascino del capolavoro che risuona sempre attuale senza essere scalfito dal tempo.

4 Novembre 1991. L’etichetta britannica Creation Records dà alle stampe Loveless, seconda fatica in studio degli irlandesi My Bloody Valentine.  

All’epoca, probabilmente nessuno avrebbe immaginato che quel disco, quasi esclusivamente nato dalla pervicace mente del leader e chitarrista Kevin Shields, sarebbe diventato una sorta di leggenda musicale come massima espressione dello Shoegaze, genere che, creando idilliache atmosfere sognanti, caleidoscopiche e distorte, ha dominato la scena musicale britannica tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.

 

Complici del mito sono anche gli aneddoti che ruotano attorno ad un infinito e discontinuo processo creativo che ha rischiato di mandare sull’orlo della bancarotta un’intera casa discografica con conseguenti crisi nevrasteniche di produttori e ingegneri.

 

Ma facciamo un passo indietro.

 

Tra il 1990 e 1991, band come Cocteau Twins, My Bloody Valentine, The Jesus and Mary Chain, Lush, Slowdive, Ride, ridefiniscono gli orizzonti del panorama alternative rock. La loro musica si caratterizza per le esasperate distorsioni, riff mono-corda, riverberi e l’ampio uso di pedali ed effettistica per chitarre ritmiche. Le voci e i testi giacciono sotto svariati strati sonori di volumi e toni alterati. Massiccio è anche l’utilizzo del “Wall of Sound”, tecnica di produzione musicale sviluppata negli anni Sessanta da Phil Spector e resa celebre da artisti del calibro di Brian Wilson. Il background di influenze spazia dalla psichedelia dei sixties al garage rock, passando anche per band cult della scena indie americana (Sonic Youth, Dinosaur Jr). Il risultato è un melodioso miscuglio in cui gli strumenti nascondono la loro fisicità e perdono di identità diventando puro suono, rumore.

 

My Bloody Valentine Loveless 1

I My Bloody Valentine al completo

 

 

La stampa musicale ne rimane spiazzata. Nella recensione di un live dei Moose, la rivista Sounds conia, per la prima volta, il termine “shoe-gazing” (letteralmente, guarda-scarpe) per indicare lo sguardo fisso rivolto verso il basso, focalizzato sui testi, del cantante della band, Russell Yates. Successivamente NME prende in prestito l’espressione, generalizzandola sarcasticamente e attribuendola all’atteggiamento comune tra i chitarristi di guardare, letteralmente, i propri piedi. Nel 1990 Melody Maker preferisce definirla “The Scene That Celebrates Itself” (“La scena che celebra sé stessa”). Ironicamente, la rivista sottolinea l’inclinazione delle band della scena a collaborare in progetti comuni e a partecipare le une ai live delle altre.

Nonostante il successo, Il termine “shoegaze” assunse un valore dispregiativo e fu adoperato spesso dalla stampa di settore come sinonimo di un genere inefficace, borghese e di privilegiati. Non a caso, la maggior parte delle band che avrebbe dovuto definire, rifiutò il termine. E’ emblematica la spiegazione di Mark Gardener, leader dei Ride, a proposito dell’atteggiamento statico dei membri delle band:

 

“Non era nostra intenzione usare la scena come palcoscenico per il nostro ego, come le grandi band del momento come gli U2 e i Simple Minds. Ci presentavamo come delle persone normali, volevamo far credere ai nostri fan che anche loro ne sarebbero stati in grado.”

 

Oltre ai curiosi ed efficaci esperimenti musicali, lo shoegaze deve buona parte del suo successo anche al culto nato attorno alla contemplativa presenza scenica delle band, immerse in uno stato di profonda concentrazione e attenzione durante le loro performance dal vivo. La combinazione dei due aspetti conferisce alla musica un’aurea quasi mistica. Il genere diventa sinonimo di emozioni genuine, di introspezione e sogni lucidi, opponendosi, idealmente e temporalmente, al dilagante successo del grunge dei primi anni Novanta e all’emergere delle band di Seattle.

 

E’ in questo fertile terreno musicale che si radica l’esperienza sonora dei My Bloody Valentine, autorevoli maestri del genere. Nascono nel 1983 a Dublino, dall’incontro tra il chitarrista Kevin Shields e il batterista Colm O’Ciosoig, entrambi già membri di alcune band locali, per poi assumere, nel 1987, una line-up definitiva che vede il contributo della chitarrista Bilinda Butcher e di Debbie Googe al basso. Dopo una serie di sfortunate release, nel 1988 firmano un contratto discografico con la Creation Records, già nota per aver pubblicato un’altra colonna portante dello shoegaze, i The Jesus and Mary Chain, e per aver contribuito alla diffusione del genere, annoverando nella sua scuderia pezzi grossi come Slowdive, Ride e Primal Scream.

 

Il 1988 è un anno proficuo per la band irlandese: dopo gli EP You Made Me Realise e Glider, accolti positivamente da critica e pubblico, pubblicano il loro primo LP Isn’t Anything.

Riprova del suono innovativo e delle originali tecniche di produzione dei lavori precedenti, il disco diventa una sorta di opera pionieristica all’interno del panorama shoegaze, contribuendo alla sua esplosione.

 

Soft As Snow (But Warm Inside) è la prima traccia di Isn’t Anything

 

 

Ma sarà Loveless a rappresentare l’apice creativo di Shields e compagni. La sua pubblicazione, il 4 Novembre del 1991, segna un punto di svolta per lo shoegaze e, più in generale, per tutta la scena alternativa. Loveless è un disco carico di emotività, trasuda amore genuino per la melodia e la sperimentazione musicale estrema. Le controverse fasi della produzione, che si attesta tra il 1989 e il 1991, costituiscono uno dei capitoli più affascinanti e influenti della storia della musica contemporanea.

 

Il solitario lavoro del genio di Kevin Shields, fautore della quasi totalità dell’album, iniziò nel 1989, immediatamente dopo la pubblicazione del primo LP. Presso i Blackwing Studios di Londra, l’allora ventottenne leader della band iniziò a focalizzare le proprie energie sul particolare sound che avrebbe dovuto caratterizzare il nuovo disco.

 

La sua attività si concentrò su metodi non convenzionali di produzione e di utilizzo del vibrato per esasperare le distorsioni, sull’integrazione di feedback e percussioni campionate, dando anche notevole importanza all’alterazione delle tonalità delle voci e ai testi. In studio, Kevin fece terra bruciata attorno a sé: la quasi totalità degli ingegneri del suono, ingaggiati per la lavorazione del disco, fu letteralmente messa da parte. Nonostante il successivo accreditamento sulla copertina del disco, il loro contributo era ritenuto superfluo ed andava contro le ben chiare idee di Shields.

L’unico che riuscì a conquistarne la fiducia fu Alan Moulder. Assunto per il mixaggio di Soon (dapprima contenuto nell’EP Glider, il brano diventerà uno dei punti di forza della tracklist di Loveless), tra i due si instaurò una produttiva intesa.

 

Intanto passarono diversi mesi senza che vi fosse alcun progresso significativo e per la band diventò abitudine cambiare costantemente studio. La Creation Records (che inizialmente aveva stimato il completamento del disco nell’arco di pochi giorni) fu infastidita dall’atteggiamento indolente del gruppo. Dopotutto, l’inattività e l’affitto di nuovi studi e strumentazioni avevano un loro costo non trascurabile e i ritardi iniziarono a gravare sulle casse dell’etichetta inglese.

Melody Maker calcolò l’esorbitante cifra di 250000£ come spesa totale per la produzione dell’album. Nonostante i costi fossero stati realmente ingenti, la questione fu spesso oggetto di discussioni tra Alan McGee (fondatore e proprietario della Creation) e Shields, il quale ritiene, ancora oggi, che la stima fosse un’esagerazione dell’etichetta per rendere più “cool” la vicenda.

 

 

Nella primavera del 1990, Anjali Dutt sostituì Moulder (che intanto era stato assunto dai Ride). Con Dutt, i My Bloody Valentine lavorano all’EP Tremolo che, come già accaduto con Glider, conteneva To Here Knows When, altro pezzo simbolo dell’ancora embrionale secondo LP. Le registrazioni si fermarono nuovamente per andare in tour con Tremolo, creando ulteriori ritardi e disagi. In un’intervista per Select, Shields disse:

 

“Registrammo le batterie nel Settembre 1989. Le chitarre in Dicembre e le parti di basso in Aprile. Ci siamo quasi, siamo nel 1990. Poi nulla accade per quasi un anno. A quel punto non avevamo voci, testi e un titolo ma solo il numero delle canzoni. Per questo all’inizio fu chiamato Song 12. Le linee melodiche e le voci furono registrate nel 1991. Sono passati interi mesi e anni senza che mettessimo mano alle canzoni. Avevo dimenticato addirittura alcuni accordi usati.”

Diciannove studi dopo, nell’autunno del 1991 il primo mix del disco è pronto. Sfortunatamente la vecchia macchina usata per l’editing del disco, utilizzata per il montaggio dei dialoghi cinematografici nel 1970, danneggiò i risultati fino ad allora ottenuti e fu necessario rimettere insieme le parti quasi a memoria.

 

Finalmente Loveless vede la fine della sua travagliata gestazione.

 

Si può ben affermare che gli ostacoli e le fatiche che colorano la storia del disco trovano, fin da subito, la propria genesi nell’approccio alla musica di Kevin Shields, tanto geniale quanto ostinato. Kevin entrò in studio avendo ben chiaro di voler creare qualcosa di unico ed eccezionale, senza però confidare le proprie idee a nessun altro, membri della band inclusi. Loveless fu registrato totalmente in mono per far sì che le chitarre suonassero violentemente nel bel mezzo del pezzo, senza chorus e modulazioni varie. Produzione ed effetti di un innovativo uso della leva tremolo caratterizzarono lo stile chitarristico di Shields, tanto originale da essere definito “glide guitar”.

 

Emblematico è l’esempio di I Only Said.

Una prima traccia del pezzo, registrata con la chitarra collegata ad un amplificatore dotato di un pre-amp con equalizzatore grafico, fu unita ad una seconda traccia mediante un equalizzatore parametrico regolato manualmente. Il risultato è un suono tagliente, la cui alterazione graffia efficacemente l’ipnotica melodia portante.

 

My Bloody Valentine Loveless 2

Una pedalboard usata per Loveless

 

 

Only Shallow e Touched sono gli unici due brani che vedono l’intera partecipazione alla batteria di Colm Ó Cíosóig. A causa di problemi fisici e personali durante le registrazioni, Ó Cíosóig si limitò a suonare brevi pattern di percussioni che furono registrati e campionati.

 

La maniacalità di Shields si manifestó anche nell’estrema attenzione dedicata alle voci e ai testi. Le incantate atmosfere dei brani di Loveless sono arricchite di psichedelia dalla voce che diventa strumento, l’ennesimo da manipolare in studio. Le parole giacciono criptiche, a tratti incomprensibili, sotto il robusto muro di suono.

Bilinda Butcher, chitarrista e seconda voce del gruppo, fu scelta per dare il suo contributo a questo ulteriore peculiare aspetto. I ritmi delle registrazioni delle voci furono frustranti: ciascuna poteva durare anche dieci ore e la stessa Butcher confidò che il carattere estasiato e sensuale del suo apporto vocale fu dovuto anche a registrazioni eseguite nelle prime ore del mattino.

 

“Non potevo tollerare delle voci chiare e cristalline”

disse Shields e When You Sleep, primo singolo e una delle colonne portanti del disco, ne è la dimostrazione.  Dopo dodici inappaganti sedute, Shields realizzò che sarebbe stato difficile ottenere qualcosa di vicino alla sua idea di perfezione e il risultato fu quello splendido caos di voci che delizia, ancora oggi, le orecchie degli ascoltatori.

 

Loveless è un album che esplode d’amore.

Close my eyes/Feel me how/I don’t know, maybe you could not hurt me now

canta Kevin in Sometimes, picco emotivo del disco. Come in Alone, invece, con i suoi riverberi racchiude tutta l’anima dello shoegaze. A chiudere maestosamente questo capolavoro interviene Soon: l’euforico ritmo, dai connotati lontanamente dance, crea una montagna russa emozionale che fa da sfondo alle contraddittorie reazioni emotive di due persone dinanzi a quel sentimento d’amore di cui è intriso l’album.

 

Nell’immediato, Loveless non ottenne un gran successo commerciale anche se la critica accolse il disco in maniera molto entusiasta. I My Bloody Valentine, dopo esser stati simbolicamente pionieri ed espressione più alta dello shoegaze, ne determinarono, con questo disco, anche la sua fine. Molte delle band che avevano contraddistinto il genere, presero direzioni diverse durante gli anni Novanta, abbandonando quasi totalmente quel distintivo sound. Gli stessi membri della band irlandese si dedicarono a collaborazioni e progetti paralleli con sporadiche registrazioni che non portarono a nulla di concreto per quasi ventidue anni, fino alla pubblicazione del terzo album m b v nel 2013.

 

Tuttavia la bellezza musicale e tecnica di Loveless non è mai stata scalfita dallo scorrere del tempo. Con il loro lavoro, i My Bloody Valentine hanno fortemente influenzato diverse generazioni di grandi band: Robert Smith (The Cure), Wayne Coyne (The Flaming Lips) e Billy Corgan (The Smashing Pumpkins) hanno più volte citato Loveless come uno dei loro maggiori ascendenti. Ma il capolavoro della band è l’aver creato un monumento della musica, la cui influenza, ancora oggi, è capace di permeare attraverso i generi e i tempi.

 

 

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