Paura e disgusto a Las Vegas, il romanzo-manifesto di Hunter S. Thompson all'insegna del gonzo journalism, ci porta a Las Vegas. Ma ci fa guardare verso Ovest, per farci vedere dove l'onda degli anni Sessanta si è spezzata, per tornare indietro.

“L’editore sportivo mi aveva dato anche un anticipo di 300 dollari in contanti, la maggior parte dei quali era già stata spesa in droghe estremamente pesanti. Il baule della macchina pareva un laboratorio mobile della narcotici. Avevamo due borsate di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di LSD super-potente, una saliera piena zeppa di cocaina, e un’intera galassia di pillole multicolori, eccitanti, calmanti, esilaranti… e anche un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di etere puro e due dozzine di fiale di popper.”

Raoul Duke e il suo avvocato Dottor Gonzo sono diretti a Las Vegas, per lavoro: devono documentare la celebre corsa Mint 400, fare un reportage di quest’evento dannatamente americano, ben calcato sulla terra, concreto. Ma i due protagonisti, rappresentazioni semi-biografiche dello scrittore Hunter S. Thompson e dell’amico Oscar Zeta Acosta, hanno in mente qualcosa di diverso: sono alla ricerca del sogno americano.

 

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Una delle illustrazioni (di Ralph Steadman) che accompagnano il romanzo

 

Perché cos’altro, all’infuori del sogno americano, può fare da motore ai nostri due folli eroi? Cosa, si chiede Raoul Duke, oltre all’american dream in piena azione, può spiegare razionalmente 300 dollari piovuti dal cielo nelle sue bucatissime mani? Tre bei biglietti verdi ricevuti da una sconosciuta, dopo una telefonata di un altro sconosciuto che ordina di recarsi a Las Vegas a spendere quella cifra. Ma cos’è, realmente, questo sogno? Quali sono i valori, se di valori possiamo ancora parlare dopo il bombardamento a tappeto che Thompson fa su tutto ciò che è morale e assennato, che porta in grembo?

 

Questa ricerca si veste delle tinte più esagerate e psichedeliche, il motivo è evidentemente spiegato nelle poche righe citate sopra… anche se è difficile render conto di come le sostanze in questione vengano sviscerate, abusate, amate e odiate nel corso del romanzo. E sono proprio queste sostanze a farci fare il primo passo per capire qualcosa del pantagruelico marasma di esperienze che è il capolavoro di Hunter S. Thompson.

 

Siamo nel 1971, gli anni ’60 sono appena finiti: è stato il decennio dell’amore hippie, incondizionato e globale. Sono stati gli anni in cui si è affermata la ‘cultura psichedelica’, strettamente legata a fenomeni sociali che hanno fatto del consumo di droghe leggere e allucinogeni parte integrante di una nuova tavola di valori: la ricerca del Bene, del superamento dei conflitti su scala anche mondiale (in opposizione soprattutto al demone della Guerra in Vietnam), andava a braccetto con l’idea di una pace, di una verità, ricercate anche nella dimensione psichedelica. Nasceva l’idea che esistesse un’altra realtà, non visibile negli stati di coscienza abituali, raggiungibile grazie soprattutto alle esperienze lisergiche: gli apostoli di questa nuova Fede, ricordiamo soprattutto Timothy Leary e – anche se con uno spirito molto differente – Albert Hofmann, riconoscevano in queste sostanze un potere nobile, che un utilizzo cosciente e ponderato poteva sfruttare per la ricerca del Bene.

 

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Ma gli anni ’60 sono finiti: la sostanza psichedelica, o anche solo stupefacente, è utilizzata da Duke e Gonzo in maniera diametralmente opposta. Dimenticata ogni ricerca superiore, l’assunzione è finalizzata al totale estraniamento dalla realtà, al raggiungimento di uno stato confuso e caotico, e possiamo definirla – anche stando lontani da inopportuni moralismi – irresponsabile. È irresponsabile non solo perché fine a sé stessa, ma soprattutto perché – volutamente – non tiene conto delle prerogative che la cultura psichedelica aveva teorizzato, necessari presupposti che dovevano garantire allo psiconauta gli spazi di manovra per un’esperienza il più possibile al riparo da bad trip e affini. Quando Raoul Duke e Dottor Gonzo prendono etere e mescalina al Circus-Circus, un hotel casinò che il protagonista descrive come ‘quel che sarebbe il jet-set del sabato sera se i nazisti avessero vinto la guerra‘, non penso che stiano tenendo in grande considerazione i famigerati set e setting, termini usati inizialmente da Leary per valutare la situazione interiore dell’assuntore e quella che lo circonda: non gliene frega un accidente di considerare se il setting è appropriato, se le vibrazioni (espressione tanto cara alla cultura precedente) sono buone.

 

Questo perché non abbiamo a che fare con due figli dei fiori, al contrario sono due naufraghi di quel vascello del decennio precedente che è ormai affondato.

 

“Finita l’energia che pulsava negli anni Sessanta. Le sostanze stimolanti sono cadute in disgrazia. È stata questa la falla fatale nel viaggio di Tim Leary. Ha bombardato l’America con la sua ‘espansione di coscienza’ senza minimamente preoccuparsi della realtà sinistra e rapace che attendeva quelli che lo avrebbero preso troppo sul serio. Dopo West Point e il sacerdozio, l’LSD deve essergli sembrato perfettamente logico… e non è di gran consolazione sapere che è finito così male, perché nella sua caduta si è tirato dietro davvero troppa gente.
Non che non se lo fossero cercato pure loro: non c’è dubbio che tutti hanno avuto ciò che si meritavano. Tutti quei lisergisti patetici e appassionati che pensavano di potersi comprare pace e comprensione a 3 dollari la botta. Ma la loro sconfitta e il loro fallimento è l’illusione circa un intero stile di vita che lui stesso aveva contribuito a creare… una generazione di sciancati permanenti, di cercatori falliti, che non è mai riuscita a capire l’originaria menzogna che la cultura lisergica ha ereditato dai vecchi mistici: la disperata supposizione che qualcuno – o perlomeno qualche forza – custodisse la Luce alla fine del tunnel.”

 

Il punto di vista lucido e cinico di Thompson è un prezioso specchio della situazione di inizio decennio: certo, è un punto di vista dei più personali e parziali, ma proprio perché frutto del pensiero di uno di quegli ex-illusi merita tutta l’attenzione che gli è stata data. È il completo abbandono della visione panica che aveva riempito i cuori degli hippie e – più in generale – di tutti coloro che credevano (speravano) che da qualche parte, qualcuno custodisse la Luce. Ma cos’era successo, cosa può spiegare il declino di quella controcultura anni Sessanta che professava libertà e amore?

 

Da un lato, una delle energie che aveva animato in grandissima parte le proteste degli anni precedenti era scemata: la guerra in Vietnam, che aveva visto nel 1968 il picco della partecipazione di truppe (500.000 soldati a terra), aveva preso con Nixon una direzione diversa, più orientata ai bombardamenti aerei. Le truppe nel 1971 erano state ridotte a 150.000, e il movimento di opposizione alla guerra in Vietnam era decisamente meno presente rispetto alla metà degli anni Sessanta… e con esso, anche la controcultura che aveva sempre viaggiato a braccetto con gli ideali pacifisti. L’elezione stessa del repubblicano Nixon, aveva decretato la svolta conservatrice che caratterizzò il passaggio agli anni Settanta.

 

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L’abbandono dei più ottimisti e liberali ideali comunitari aveva avuto un riscontro anche nel mondo della musica: nel 1970, come un fulmine a ciel sereno arriva la notizia dello scioglimento dei Beatles, alfieri della cultura del cambiamento, nonché di quella psichedelica. I Jefferson Airplane si sarebbero divisi di lì a breve, e già nel 1970 iniziava il loro declino. Ad aggiungere una sgradevole e funesta sensazione che davvero stesse succedendo qualcosa al positivismo della controcultura anni Sessanta, arrivò anche la drammatica fine di Jimi Hendrix nel ’70, e quella di Jim Morrison l’anno successivo. Sembrò che tutto quello che da Woodstock era stato innalzato a pilastro di un nuovo coloratissimo corso, si stesse sfaldando portando ad un anonimo grigiore.

“La radio continuava a gracchiare Power to the People – Right on!, l’inno politico di John Lennon, dieci anni in ritardo. <<Quel povero scemo avrebbe dovuto rimanere al suo posto,>> disse il mio avvocato. <<Teppistelli come lui rompono solo i coglioni, quando cercano di fare i seri.>>”

 

Proprio nella canzone ‘God’ del John Lennon post-Beatles, scritta nel 1970, troviamo tutti gli elementi che ci raccontano dello smarrito allontanamento rispetto alla fiduciosa dimensione comunitaria degli anni Sessanta:

 

 

“I don’t believe in Jesus
I don’t believe in Kennedy
I don’t believe in Buddha
I don’t believe in Mantra
I don’t believe in Gita
I don’t believe in Yoga
I don’t believe in Kings
I don’t believe in Elvis
I don’t believe in Zimmerman
I don’t believe in Beatles
I just believe in me…and that reality

The dream is over
what can I say?
the dream is over
yesterday
I was the dreamweaver
but now I’m reborn
I was the Walrus
But now I’m John
and so dear friends
you’ll just have to carry on
the dream is over”

         God – John Lennon, 1970

 

Lennon ‘sfiducia’ tutti i miti del più recente passato, non tanto perché colpevoli di qualcosa, quanto perché – semplicemente – il sogno è finito, non è più tempo per queste grandi entità superiori… che siano divinità, promettenti capi di Stato, o addirittura i Beatles. È un ritorno alla sfera individuale, le ‘divinità’ che Lennon, e con lui il movimento che si stava assopendo, sfiducia, hanno giocato la loro partita. Non è più il tempo di affidarsi, come avevano fatto i Beatles, a santoni indiani come Maharishi: la fiducia che qualcuno possa custodire la chiave della verità si è spenta.

 

Il sogno americano che trovano Raoul Duke e dottor Gonzo, è quindi il corpo agonizzante di tutto ciò che era stato, e il narratore si riferisce ad esso come un tributo alle infinite possibilità che gli Stati Uniti hanno da offrire. E Las Vegas è il palcoscenico che mette in scena gli sgangherati e grotteschi frutti di questo nuovo corso – in totale contrapposizione con San Francisco, che era stata la capitale della beat generation prima, e del progressismo e dei diritti civili dei Sessanta poi. Gli episodi raccontati nel romanzo, hanno l’aria di un provocatorio schiaffo a tutto ciò che poteva ancora essere considerato sacro ed inviolabile, o anche più semplicemente civile e comprensibile. Ma sotto un’altra luce, sembrano anche il colpo di coda di una controcultura che, nostalgicamente, si getta tra le fauci di una città che non potrebbe essere più lontana dalle morenti istanze degli anni Sessanta. Duke e Gonzo sovvertono tutte le regole di Las Vegas, saccheggiando, distruggendo suite d’albergo, spaventando i locali: e quello che emerge è soprattutto uno sprezzante distacco, un diniego che – pur con forme partecipative – ha un’azione annichilente sulle superficiali forme sociali della capitale del divertimento capitalista… e tutto ciò profuma tanto di Sessantotto.

“Strani ricordi in quella nervosa nottata a Las Vegas. Cinque anni dopo? Sei? Sembra passata una vita, o almeno un’epoca – quel tipo di culmine che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli Sessanta erano un bel tempo e un bel posto da vivere. Forse ha significato qualcosa. O forse no, alla lunga… ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la consapevolezza d’essere stato là, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo. […] C’era follia in ogni direzione, a ogni ora. Se non attraverso la Baia, allora su al Golden Gate o giù sulla 101 per Los Altos o La Honda… Potevi sprizzare scintille dovunque. C’era una fantastica universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse giusta, che si stesse vincendo…
E quella, credo, era la nostra ragion d’essere – quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male. Vittoria non in senso violento o militare: non ne avevamo bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Non c’era lotta – tra la nostra parte e la loro. Avevamo tutto l’abbrivio noi; stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa…
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea – quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro.”

 

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