Vic Chesnutt, la sostenibile leggerezza di essere se stessi.

“He was able to bring levity to very dark emotions and feelings, and he had a humor that was really quite unusual, I said recently that I thought he was one of our greatest songwriters, and one of our greatest voices”.

(Micheal Stipe, 26 Dicembre 2009)

 

Le parole di Michael Stipe descrivono in maniera impeccabile ciò che ha rappresentato Vic Chesnutt. Uno dei più grandi cantautori degli anni ’90, che è riuscito a lasciare la sua impronta anche nel decennio successivo fino al giorno della sua morte, avvenuta all’età di 45 anni, il 25 dicembre del 2009. Una carriera che non può essere compresa e descritta senza un collegamento diretto alla sua vita e al suo rapporto con la morte. Una consapevolezza della fine e della durezza dell’essere che si trasforma in pura arte diventando il contenitore della sua esistenza e viceversa.

 

Nato a Jacksonville, Vic è stato adottato ed è cresciuto a Zebulon (Georgia). Suo nonno scriveva canzoni e sin da piccolo è affascinato da quel mondo ma senza veri slanci. I primi suoi strumenti musicali, con cui entrò in contatto col mondo della musica, furono la tromba e l’ukulele. Aveva circa 15 anni e Louis Armstrong, Herb Alpert e Doc Severenson furono i suoi primi miti musicali. L’anno successivo arriva la chitarra e venne affascinato dal mondo di Leonard Cohen, Bob Dylan, Velvet Underground, Beatles (cita Hey Bulldog e Cry Baby Cry come maggiori influenze per quanto riguarda i testi) e dai King Crimson con il loro primo album In The Court of Crimson King. Stili e influenze differenti legati da una scrittura originale che diventerà anche il suo punto di forza.

 

Vic Chesnutt1

 

Nel 1983 c’è il punto di svolta della sua vita. Un incidente in auto, mentre guidava con alcool in corpo, lo condanna alla sedia a rotelle per il resto della vita. Sarà questo evento e una serie di incontri particolari che faranno uscire quel qualcosa da dire che fino a quel momento era rimasto nascosto. Un unico accadimento che racchiude molto di quello che sarà il racconto del cantautore statunitense: la vita e la morte, l’alcool, l’arte come terapia.

 

 “I very much do. My songs are very much a kind of psychoanalysis. I am very introspective in my songs, and I am working through, always”.

  (Vic Chesnutt, intervista A.V. Club, Ottobre 2009)

 

Dopo il recupero dall’incidente, si trasferisce ad Athens ed inizia a suonare con i La Di Das, gruppo che si scioglierà a breve. Inizia ad esibirsi al 40 Watt Club, locale storico di Athens, che diventa casa delle sue esibizioni per circa due anni. Nel 1988, tra gli spettatori, è presente un certo Michael Stipe (REM) che viene folgorato dalle sue interpretazioni. Da qui nasce la collaborazione e la produzione dei primi due album Little (1990) e West of Rome (1992), entrambi usciti per la piccola etichetta Texas Hotel e l’inizio di una serie di album che danno il via ad una carriera straordinaria, non priva di alti e bassi, ma con un consistente bagaglio poetico. Con Little, Vic Chesnutt mette a nudo se stesso e spinge la leva fuori dai limiti, spesso solo idealizzati, che separano poesia e musica. Non ha paura di esprimere se stesso, di sembrare ridicolo. Ed è questa la sua forza.

 

“Well, ridiculous is a thing that I don’t say no to either. I think this is one of the things that makes my songwriting important to some people. I’m not afraid to be goofy in a way. I’m not afraid to be ridiculous in a way. I say things that are preposterous sometimes. I make people say, “What the?! Why?! Why would he do that?” I’m kind of fearless that way”.

  (Vic Chesnutt, Intervista Flagpole, Ottobre 1999)

 

 

Bakersfield è un brano che meglio rappresenta la sua prima produzione: un canto trascinato e vibrato, un’intensità che si posa sulla chitarra quasi remissiva. Un umore non lucente ma mai decadente, una lucidità oscura che impressiona. E lo si intuisce nell’autobiografica e commovente Gepetto e dal racconto surreale di Mr Reilly che raccoglie la sua vena ironica nel racontare qualcosa di drammatico, con una scrittura puntigliosa e disarmante.

 

Il secondo lavoro West of Rome non cambia registro ma si avvale di una produzione più ricca, con arrangiamenti che danno una spinta maggiore al lavoro di Chesnutt. Where were you porta alla luce la pulizia, la consistenza e la fluidità dei suoni e il pianoforte di Florida e il suo solenne canto sono un’altra palese dimostrazione del suo talento: un inno dolce/amaro che fa emergere nuovamente il suo dialogo con la morte, struggente quanto poetico.

And I respect a man who goes to where he wants to be/Even if he wants to be dead/Florida,Florida, it’s a tropical paradise/Florida, Florida, there’s no more perfect place to retire from life.

 

Panic Pure è un altro brano da segnalare proprio per il nuovo contrasto, il dualismo che emerge: una duplice essenza che si muove su un filo sottilissimo, proprio come la vita di Vic che sta prendendo slancio ma resta circondata dai demoni che popolano la sua esistenza e che cerca di esorcizzare con la musica.

 

Gli umori cangianti, gli stimoli esterni (alcool compreso), il rapporto di odio/amore con la vita, l’esigenza di scrivere sono costanti che gravitano continuamente nella sua esistenza. Drunk (1993) è il compimento della crescita artistica con una produzione meno blasonata ma arrangiamenti più consistenti e robusti che fanno da corazza all’intimità dei testi. L’apertura con The Sleeping Man è un contatto con la ruvidità che scivola sulle parole con una maestria sorprendente. E quando il suono si attenua, ci pensa la voce di Chesnutt a fare questo lavoro come dimostra When I Ran Off and Lef Her. Una trasparenza disarmante e una inquietudine costante che si insinuano in ogni singolo brano e racchiudono la bellezza della sua musica.

 

La crescita non si ferma: ulteriori apprezzamenti, i tour con Husker Du e Giant Sand e l’idea del nuovo album Is the Actor Happy? (1995), probabilmente il lavoro che da maggiormente spazio alla completa consapevolezza di ciò che è e ciò che fa. In questo disco c’è la presenza di Alex McManus (Lambchop) e della mano del produttore e musicista John Keane. Lucidità, apertura e riflessione che portano la sua scrittura ad elevarsi anche nell’estetica. In questo disco emergono due brani senza tempo come Free of Hope (Free of hope, free of the past ,thank you God of nothing I’m free at last, I’m free at last) e Gulty by Association, meno spigolosa della precedente e dalle atmosfere quasi oniriche (con il contributo vocale di Michael Stipe).

 

 

 

Dopo la parentesi Brute (e l’album Nine High A Pallet), la popolarità sfiora il cantautore statunitense grazie ad un omaggio intitolato Sweet Relief II: Gravity of the Situation. Nomi come Garbage, Smashing Pumpkins, Madonna reinterpretarono alcuni brani di Vic. Nello stesso anno, il 1996, arriva il primo disco con un’etichetta non piccola. About to Choke esce per la Capitol e risulta probabilmente, in linea di continuità con il suo percorso, il disco più accessibile ma con un forte legame con l’intimismo delle origini. Un binomio che permette al cantautore di restare saldo alla sua personalità, seppure con un contenitore e modalità differenti. La semplice delicatezza di Terragon o il graffio misurato di Ladle rappresentano la bozza di questo concetto. L’album rappresenta anche l’evoluzione dei testi di Vic che diventano non solo la testimonianza del suo vissuto, ma anche un modo per descrivere ciò che lo circonda. Un cantautorato meno egocentrico che non perde di efficacia e dimostra anche una certa apertura al mondo e alla scoperta. Attitudine che è immersa nel sesto album The Salesman And Bernadette (1998), dove si rafforza la partnership con i Lambchop che coglieranno in pieno tutte le sfumature di quello che Chesnutt è diventato: a dimostrarlo l’intensità espressiva di Woodrow Wilson, l’essenzialità rumoristica di Square Room, la spensieratezza di Until the Led. Clarinetto, tromba ed eufonio ricamano perfettamente la trama di tutto il disco.

 

 “Reading and studying my environment, things like that. It’s always an investigative process to start to get the songs to shake down in my case. When my songs shake down, it’s when I’ve made the discovery. I’ve been investigating for a week or two, trying to find out exactly what it is that makes whatever I’m trying to get at pop. What it is when I see the old lady, when I see her walking by, what she tells me. What pops about it, you know? So that’s why it’s like research and development”.

 (Vic Chesnutt, Ottobre 1999)

 

L’ultimo album non gode del seguito sperato e il successivo Merriment (con Kelly e Nikki Keneipp) vede Chesnut come autore. Non un episodio felice che fa emergere un Chesnutt scarico e poco ispirato. Una collaborazione poco fortunata. Left To His Own Devices (2001) viaggia sulla stessa linea: una sorta di raccolta di rarità che segna un deciso passo indietro per quanto riguarda anche la qualità della produzione. Così come arretra la carriera, di pari passo si ripresentano tutti i fantasmi. Arte e vita sono sempre legati. Un declino che sarà decisivo per dare un’ulteriore spinta a Vic per risalire la china. Silver Lake (2003) e Ghetto Bells (2005) riportano le collaborazioni che riescono a valorizzarlo (Van Dyke Parks e Bill Frisell su tutti); seppur restano due capitoli umili della sua discografia, segnano una decisa ripresa che sarà solo la base della convincente parte finale della sua carriera e che ritroviamo sopratutto in due album come North Start Deserter (2007) e At The Cut (2009). Il primo vede la collaborazione essenziale dei Thee Silver Mt Zion Memorial Orchestra, Bruce Cawdron e Guy Picciotto. Un insieme di musicisti che porta versatilità al suono e che giova alla scrittura di Chesnutt, decentrando il suo stile senza snaturarlo. Le implosioni nervose di Everything I Say e l’essenzialità di Over (un altro ritratto del rapporto con la morte: Everything blows away someday/Everything turns to dust/Big ol’ mountains do/As well as everyone of us/And i love the dust) sono le due testimonianze opposte di quanto detto.

 

 

At the Cut rappresenta la prosecuzione naturale del lavoro precedente (praticamente stessi attori dell’album del 2007) e anche il manifesto più evidente della sua maturazione e la caparbietà nell’esprimersi senza veli, in quell’assenza di paura di rivelare il suo essere. Un album che fiutava l’avvicinamento della fine per via della malattia (il 25 dicembre del 2009 morirà per un overdose di rilassanti). I’ve flirted with you all my life è il dialogo più diretto con la morte, non ci sono filtri: c’è la crudezza della consapevolezza piena, del rivedere il passato (I flirted with you all my life Even kissed you once or twice) per affrontare un imminente inevitabile futuro. In questo pezzo c’è tutto il senso della vita e l’arte di Vic Chesnutt, la sua forza interiore che ha dato consistenza alla sua musica e soprattutto credibilità alle sue parole, prove senza tempo del suo vissuto e della sua lotta per la vita. La crescita continua, la scelta di più registri, la narrativa poetica, l’ironia miscelata con un realismo disarmante: fattori che hanno forgiato un finto alieno malinconico che ha saputo tirare il meglio dall’umanità che lo ha circondato (e spesso trafitto), mettendo in risalto la forza della sua fragilità.

 

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