Prendiamo questa metro tutte le mattine nonostante le umiliazioni a cui deliberatamente ci sottopone. Tornano le cronache dalla metro B con lo strano caso di Dimitri e la sua ipotetica Sindrome di Stoccolma.

Esistono momenti dove, seduto, con il paesaggio che ti scorre intorno, senti il bisogno di avere un conforto. In genere mi capita di sera, soprattutto se faccio tardi; sentire di aver sacrificato del tempo per il lavoro anteponendolo alla mia famiglia mi disturba e mi rattrista. A volte mi capita anche di lunedì mattina. Basterebbe un amico, quattro chiacchiere e la malinconia andrebbe via. Tu però sei a Bari e non hai modo di aiutarmi, e allora mi adatto e mi accontento.

 

La zingara che canta la Pausini ad esempio mi dà molto sollievo. È piuttosto intonata, ci vuole solo un po’ d’impegno per capire le parole, ma questo sforzo mi allontana dai mille pensieri che ottenebrano la mia mente. C’è poi Stefano, il cantante che esegue De André: è superlativo. Chitarra in spalla e sacchetto delle monete agganciato alla paletta, voce morbida, profonda e perfetta. Probabilmente, se non fosse per la mia famiglia, dopo aver ascoltato Stefano, uscirei dal treno e sereno aspetterei in banchina il prossimo in arrivo per fare il grande salto. Perché è questo l’effetto che mi fa Stefano: mi mette in pace con il mondo, mi dà consapevolezza di quanto tutto sia comunque una merda, di quanto valgo poco e di quanto sono piccolo e inutile rispetto all’universo. Stefano è davvero fantastico, quasi meglio di De André.

 

Ma realmente, in tanti anni di metro, solo Dimitri mi ha fatto sentire davvero importante, indispensabile. Lo incontrai per caso alle sette e mezzo di sera nel tragitto Piazza Bologna-Laurentina e poi non lo rividi più. Non era da solo: con lui c’era un suo amico ma Dimitri aveva scelto me. Ne fui sorpreso e stupito. Il vagone dondolava dolcemente. Intorno a noi pochi altri passeggeri, oltre al suo amico che ci guardava dal seggiolino di fronte. Ma se chiudevo gli occhi, eravamo solo io e lui e un aspro odore di vino. Si era, in brevissimo tempo, creato un legame, tanto stretto da farmi quasi emozionare. Sentivo la sua spalla sul mio fianco, la sua testa sulla mia spalla, il suo respiro caldo e affannato e quell’odore aspro che ci circondava. Vidi le facce intorno a me, tutte sorridenti, emozionate anche loro per quell’unione involontaria di due persone dall’aspetto così diverso: io, giovane, giacca e cravatta e barba appena fatta, lui, uomo di mezza età di origini slave in tuta sporca di vernice.

 

Ogni tanto il suo amico lo disturbava sadicamente chiamandolo ad alta voce “DIMITRIII” e lui, con gli occhi chiusi, scattava seduto, allontanandosi da me: poi però – come attratto da chissà quale forza – ritrovava immediatamente il suo caldo giaciglio e lì si riaccoccolava. Stenterai a crederlo ma ogni volta che Dimitri riprendeva la sua affettuosa posizione, lui gli urlava. Come sia possibile circondarsi da certi amici non lo comprendo, ma non potei che considerare quel comportamento come una bieca manifestazione di gelosia. Dimitri fu di poche parole, forse qualche brontolio, ma lo sentii indiscutibilmente vicino. Povero Dimitri, mi domando cosa avrebbe fatto se non ci fossi stato io. Magari si sarebbe sdraiato solo soletto su quei sedili, vessato dal suo orribile amico. Cosa ci trovasse in lui non lo comprendo, ma sicuramente doveva trovarci qualcosa che io non potevo dargli, perché come se nulla fosse uscì dal vagone con lui, dopo essere stato strattonato e preso a parolacce. Sarà anche questo un caso di Sindrome di Stoccolma? Come si può arrivare ad un tale stato di dipendenza affettiva nei confronti di chi ti sottopone a violenza fisica, verbale e psicologica? Anche se, ad essere sincero, posso immaginarlo… e forse anche tu: non prendiamo (nel tuo caso prendevi) questa metro tutte le mattine nonostante tutte le umiliazioni a cui deliberatamente ci sottopone? Non riesco però a smettere di pensare a Dimitri. Povero Dimitri.

 

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