Le emissioni provenienti dalle città sono una delle principali cause del cambiamento climatico.

Comunemente, è richiesto un notevole sforzo mentale per percepire una città come un’ecosistema che, a sua volta, si trova integrato in un ecosistema terra più ampio. È ciò che infatti, nel 1995, una ricerca ha proprio dimostrato, ovvero come siamo generalmente portati a percepire una sorta di “muro immaginario” tra il mondo antropico della città e la natura come un elemento esterno e selvaggio. Un immaginario collettivo che viene facilmente confermato anche dalle proiezioni sulla popolazione urbana prodotti dalle Nazioni Unite, i quali sottolineano un’esponenziale urbanizzazione della società umana. Intorno al 2050 è previsto che circa il 70% della popolazione terrestre vivrà nelle città. Oltremodo, gli stessi consumi globali delle aree urbane, sia di materie prime che di energia, risultano sproporzionatamente enormi. Inoltre, la gestione di quest’ultime risulta spesso gravemente inefficiente e le conseguenti emissioni sono tra le principali cause del cambiamento climatico.

 

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Un’immagine di Shanghai avvolta dallo smog

 

Mantenendo questa prospettiva, appare ancora più complesso intendere le città come un’entità integrata nella natura ed ancora meno come il luogo dove creare una soluzione plausibile e soprattutto sostenibile per il futuro. Eppure, negli ultimi 20 anni (partendo praticamente dal protocollo di Kyoto) le città, specialmente sotto forma di network stanno guadagnandosi un ruolo vitale nella lotta contro il cambiamento climatico.

 

Ridotto ai minimi termini, il ragionamento che sta alla base di questa inversione di rotta, parte proprio dal fatto che le città “sono il problema”, quindi per risolvere un problema, ha senso agire dove il problema sorge. Si va quindi a delineare una sorta di “dualismo” della città. Da una parte è una voragine di risorse e la causa di montagne di rifiuti ed emissioni inquinanti. Da un’altra prospettiva, la città è sempre più un attore della governance ambientale globale, andando praticamente ad offire quell’effettività ed efficienza contro il cambiamento climatico che le organizzazioni internazionali non son riuscite ancora a sviluppare. Allo stesso tempo, va notato che sono generalmente le città a possedere le risorse necessarie, sia finanziarie che di capitale umano, e che il 70% dell’economia globale risiede specificamente nelle aree urbane.

 

Ad ogni modo, quel che molti ricercatori e studiosi confermano, è che quel che verrà deciso ed accadrà a livello dei governi locali e città metropolitane nei prossimi decenni, andrà drasticamente a determinare il futuro della società umana sul pianeta terra.

 

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Le città metropolitane avranno un ruolo sempre più determinante per il nostro futuro

 

Quali sono dunque le principali misure che le città stanno adottando per contrastare il cambiamento climatico?
Principalmente due: mitigazione ed adattamento. Per misure mitigative si intendono tutte le azioni adottate dai governi locali necessarie a ridurre le emissioni di inquinanti e quindi “mitigare” l’eventualità del cambiamento climatico. Un esempio può essere quello del comune che impone a livello urbanistico che tutti i nuovi edifici debbano rispettare le più alte misure di efficienza energetica.

Per misure adattive, si intendono invece tutte quelle azioni volte a gestire gli effetti negativi ed indesiderati, già in atto o previsti, causati dal cambiamento climatico. In questo caso, la costruzione di sistemi di dighe e barriere protettive contro l’innalzamento dei mari ne è l’esempio concreto. Generalmente, si potrebbe affermare che le misure verso cui sarebbe necessario puntare maggiormente sono di natura mitigativa. Specialmente perché quest’ultime ben rappresentano un investimento a lungo termine contro il cambiamento climatico. In quanto le misure adattive, anche se necessarie, sono specificamente una risposta diretta solo a gestire gli effetti negativi.

 

Purtroppo però, la maggioranza degli investimenti risulta essere diretta verso costose misure adattive anziché progetti mitigativi e relativamente poche città globali sembrano voler puntare verso una progettualità che punta ad una graduale mitigazione.

Per fornire degli esempi concreti di come le città stiano “localmente” rispondendo ai mutamenti climatici, qui riporto il caso di due città particolarmente interessanti per quanto riguarda questa problematica globale: Venezia ed Amsterdam. Queste due città, per quanto drasticamente differenti sotto molti punti di vista, condividono lo stesso problema, ovvero rischiano di finire sott’acqua. Tutt’e due le città, storicamente, sono state forzate a creare degli ingenti sistemi di difesa dall’acqua, cioè ad adattarsi. Amsterdam e più in generale l’Olanda, da sempre sopravvive, anche di molti metri, al di sotto del livello del mare, grazie ad un sistema di dighe (Dijk) estremamente dispendioso. Ciò che potreste notare nel caso visitaste la capitale Olandese, è una sorta di continuo cantiere aperto lungo gli argini artificiali, tra compagnie che dragano i canali e progetti di terraforming per strappare ulteriore spazio al mare.

 

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Un quartiere galleggiante ad Amsterdam

 

Insomma, gli olandesi sono dei maestri dell’adattamento, ma fino a che punto ciò risulterà sostenibile? Quanto ancora gli olandesi ed i cittadini di Amsterdam saranno disposti a spendere per mantenersi coi piedi all’asciutto? Sono domande lecite costatando l’inesorabile innalzamento dei mari. Lo stesso vale per Venezia, stando alle statistiche comunali, negli ultimi 80 anni le maree hanno continuato inesorabilmente ad alzarsi di livello e la città poco alla volta a sprofondare. È in questa situazione incerta per la città che appare il progetto MOSE, un sistema di dighe che dovrebbe isolare la città storica dal mare.

 

Per ora rimane un progetto fermo, costato svariati miliardi tra finanziamenti pubblici e non, finiti principalmente ad ingrossare la corruzione locale. Corruzione a parte, ciò che ulteriormente va notato a riguardo di Venezia, è che contrariamente ad Amsterdam, non esiste ancora un concreto piano di sviluppo sostenibile per la città. Quest’ultimo, è un fatto interessante da notare, in quanto tutt’e due le città sono membri partecipanti del C40 (Network di città contro il cambiamento climatico) ma soltanto Amsterdam presenta un vero e proprio progetto sostenibile e dotato di precise scadenze. Eppure il cambiamento climatico e dunque l’innalzamento del livello del mare è un argomento che tocca profondamente entrambe le città, dovrebbe trattarsi dell’ordine del giorno, una questione di vita o di morte.

 

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Il progetto MOSE a Venezia

 

Per quali ragioni, quindi, Venezia non risulta tra le città portavoce contro il cambiamento climatico ed Amsterdam invece si? Ci sono chiare motivazioni. Stando ad un guida per le città prodotta all’interno delle Nazioni Unite e collegata agli obbiettivi da raggiungere per il 2030, ci sono particolari condizioni che abilitano le città ad adoperarsi positivamente verso la sostenibilità. In breve, un buon livello di decentralizzazione e quindi di autonomia. Una buona integrazione tra i livelli di governance, ovvero maggior interconnessione tra gli organi decisionali, (dal piccolo al grande). Una gestione positiva delle finanze locali e capacità di produrre utili. Lo sviluppo di competenze locali, sia tecniche che gestionali. Per terminare con un quadro politico favorevole allo sviluppo di misure volte alla sostenibilità ambientale.

 

E’ attualmente in corso una ricerca volta a determinare la presenza di queste condizioni abilitanti nelle due città in esame ed Amsterdam, al contrario di Venezia, è risultata favorita specificamente da alcune delle condizioni prima elencate. Infatti, risulta che ciò che effettivamente ha concesso a questa città di essere un esempio a livello globale in termini di sostenibilità, sia ricercabile specialmente in due delle condizioni prese in esame. Precisamente nella sua abilità di integrare tutte le realtà locali verso un progetto comune di sostenibilità. E’ in questo caso da notare come Amsterdam abbia saputo coinvolgere il folto settore dell’IT cittadino nella progettualità sostenibile a lungo termine della città (specialmente nell’area energetica). Inoltre, in termini di finanze, la capitale olandese ha saputo strutturare un progetto di sostenibilità cittadina per il 2030 che dovrebbe riuscire praticamente ad autofinanziarsi e creare persino ulteriore ricchezza. Al contrario, Venezia, è un città caratterizzata da un enorme debito pubblico e l’esempio del progetto MOSE, dove un ingente quantità di fondi pubblici sono finiti in corruzione, ne è l’esempio negativo.

 

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Venezia è in cattive acque per quanto riguarda la sostenibilità ambientale

 

Tuttavia, anche questa ricerca ha dei limiti. Infatti non prende in considerazione il ruolo della società civile, cioè il fatto che il livello di impegno verso tematiche ambientali dei cittadini di una città può risultare determinante. Oltremodo c’è pur sempre da sottolineare la grande differenza in termini di risorse tra le due città, dove il PIL di Amsterdam arriva a 350 milioni, per Venezia si raggiungono i 56 milioni. Per di più, anche il capitale umano presente è chiaramente differente: Amsterdam è una città globale e caratterizzata da una popolazione con un alto livello di istruzione, Venezia è purtroppo su un’altra scala. Lo stesso vale per il settore economico, le due città sono nettamente differenti, dove una sopravvive principalmente di turismo, l’altra ospita anche svariate sedi di importanti compagnie internazionali ed un crescente settore finanziario. E’ decisivo tener conto di quest’ultime differenze riportate, specialmente se il tema in questione sono i centri urbani. Perché, se in questo caso le due città erano, nonostante tutto, Europee e parte del cosidetto “mondo sviluppato”, queste differenze esplodono se la comparazione avviene tra città del mondo sviluppato e sottosviluppato.

 

Difatti, c’è un’enorme differenza tra il ruolo positivo che tentano di raggiungere le città del mondo sviluppato se confrontato con molte città in via di sviluppo. A conferma di quest’andamento, un ulteriore fattore assolutamente da notare, è che i principali network di città contro il cambiamento climatico, sono composti per lo più da città occidentali e sviluppate. Inoltre, ciò che al contempo va notato, è che le zone più colpite dagli effetti negativi del cambiamento climatico, saranno proprio i centri urbani dei paesi in via di sviluppo. Quindi, gli stessi stati già carenti di risorse, si ritroveranno a subire ulteriori, ed ingentissimi, danni a causa del cambiamento climatico. Insomma, pare che la lotta al cambiamento climatico non sia alla portata di tutti. L’esempio più lampante, in questo caso è Jakarta, la capitale indonesiana che letteralmente sta finendo sott’acqua a ritmi ancora più veloci di Venezia. L’ultima inondazione, nel 2007, ha costretto 300 mila persone ad evacuare l’intero settore nord della città. Anche nel caso di questa città, è richiesto un enorme progetto da 40 miliardi di dollari per salvare le aree che si trovano più a rischio. Un progetto che però pone sotto ulteriore stress il già difficile bilancio cittadino e toglie quindi ulteriori risorse ad altre misure necessarie, come per esempio la lotta alla povertà, che anchesì richiederebbe forti investimenti.    

 

L'alluvione del 2007 a Jakarta

L’alluvione del 2007 a Jakarta

 

Considerando che circa il 70% della popolazione terrestre vive in centri urbani lungo le coste (UNEP), il fatto che l’innalzamento del livello dei mari colpirà democraticamente ovunque e che non tutti i governi locali delle città costiere possiedono le risorse finanziarie, la manodopera specializzata necessarie ad un efficace adattamento, quali scenari potranno dunque delinearsi? Le probabilità di un esodo di massa sono molto alte. Infatti, questo trend è previsto e purtroppo confermato da numerose autorità, centri di ricerca ed organizazioni internazionali, che già sottolineano come le prossime grandi migrazioni saranno proprio causate dal cambiamento climatico e dai conflitti connessi.

 

Dunque, tornando al tema centrale, ciò che accadrà all’interno delle aree urbane nei prossimi decenni sarà di fondamentale importanza per decifrare gli sviluppi futuri del genere umano e, di conseguenza, proprio la sua sopravvivenza. Esistono già esempi estremamente positivi di ri-organizzazione urbana, ed Amsterdam ne è un esempio in questo caso. Però ciò che va notato, è che questa alternativa urbana sostenibile è quasi unicamente geolocalizzabile nel ricco mondo “sviluppato”. Il vero salto verso il futuro sarà quando questa volontà di dirigersi verso la sostenibilità riuscirà a superare le barriere createsi tra mondo sviluppato e non. I network di città, se sviluppati più democraticamente, potrebbero effettivamente fornire il mezzo che favorirebbe questa diffusione positiva e sostenibile. Ovviamente, per essere più chiari, ci sarebbe anche da trattare un importante dibattito politico ed economico riguardante la protezione dell’ambiente nei paesi in via di sviluppo.

 

Quel che inoltre bisognerà riuscire ad abbattere, è quella barriera immaginaria introdotta all’inizio di questo articolo, ovvero il muro che separa il nostro immaginario urbano dalla realtà della natura. E’ finalmente quando percepiremo le nostre città come un tutt’uno con l’ambiente che forse supereremo quella dicotomia che le rende invivibili e voragini di preziose risorse. Sarà, dunque, proprio nelle nostre città, spesso definite picco della civiltà umana, che la civiltà deve proprio rivedere i suoi principali paradigmi. E’ questione di sopravvivenza.          

Per concludere, inserisco il video promozionale di Compact of Mayors, come potrete notare, riassume bene ciò che è stato descritto: dalle positive intenzioni politiche di ri-elaborare le città in modo sostenibile al diffondere capacità e risorse transnazionalmente e a livello urbano. Inoltre da questo video, è anche possibile notare come neanche tanto celatamente questo network rispecchia principalmente gli interessi dei paesi sviluppati e ricopre le pre-esistenti strutture di potere occidentali.

 

 

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