La trilogia del Signore degli Anelli di Peter Jackson ha saputo donare all'opera di Tolkien la trasposizione cinematografica che meritava.

John Ronald Reuel Tolkien, prima di diventare il celebre scrittore e creatore di mondi che ha dato alla luce la Terra di Mezzo de Il Signore degli Anelli, era un professore, filologo e linguista. E il suo approccio alla filologia, ovvero l’interpretazione ed eventualmente la ricostruzione di opere letterarie del passato, era radicalmente diverso da quello che andava per la maggiore: se larga parte dei suoi colleghi studiava i testi in modo pedissequo e – se vogliamo enfatizzare gli aspetti più conservativi della loro attività – fine a sé stesso, Tolkien operava una sorta di ‘filologia creativa’. Questa tecnica vede i testi non come freddi fossili da spolverare, ma come cocci di uno splendido vaso da recuperare e integrare in maniera creativa e personale: questo non significa snaturare l’essenza della materia di partenza, né tantomeno fraintenderne i fini o le premesse. Al contrario, il filologo fa suoi gli aspetti radicali e fondanti del testo, usandoli come strumenti primari della creazione complementare. Questo modo di rapportarsi alle opere e alla creazione è l’ingranaggio alla base della fanfiction ambientata nella Terra di Mezzo, ovvero quell’insieme di storie inventate e scritte dai fan, secondo un uso che Tolkien stesso auspicava avrebbe seguito la sua creazione originale.

 

Allo stesso modo, l’opera cinematografica di Peter Jackson è il risultato della medesima passione che ha animato migliaia di fan, canalizzata stavolta dal potere di una grande produzione, ma che di fondo parla la lingua della filologia creativa. Dopo quindici anni dall’uscita del primo capitolo del Signore degli Anelli, La Compagnia dell’Anello, è sempre più evidente come il successo ormai senza tempo della trilogia non possa essere ascritto unicamente ad una solida regia, o ad effetti speciali ben riusciti. L’opera originale dello scrittore è diventata il punto di partenza per un’elaborazione a cui solamente un fan come Peter Jackson poteva dare vita: la necessaria volontà di creare un film aderente alle pagine di Tolkien è andata di pari passo con un’abilità davvero sopraffina, in grado di generare quel compromesso che tanto spaventava chi anche solo immaginava di avvicinarsi ad un lavoro simile. E il compromesso è per definizione un punto d’incontro, che unisce diverse esigenze: fare un film da qualunque romanzo è un compito che inevitabilmente porta a compiere scelte deprivanti nei riguardi della pagina scritta, ma Il Signore degli Anelli di Jackson ha saputo alleggerire l’espressione ‘compromesso’ da quell’accezione necessariamente negativa che l’accompagnava. 

 

In realtà (e prevedibilmente) le critiche da parte della frangia più estremista dei fan del mondo tolkieniano non sono mancate: anzi, in alcuni ambienti hanno saputo oscurare la luce gettata dal meritato successo che i film hanno ottenuto, culminato dopo Il Ritorno del Re con una pioggia record di premi Oscar. Ma riuscendo a scrollarsi di dosso certe manie, responsabili nei fan più irriducibili di una sorta di anedonia nei riguardi di qualsiasi cosa non sia perfettamente identica al creato originale, anche grandissima parte degli appassionati ha dimostrato di apprezzare la trilogia cinematografica del Signore degli Anelli. E il motivo risiede soprattutto nella smisurata passione che ha animato Peter Jackson, la moglie Fran Walsh e Philippa Boyens nella realizzazione della trilogia.

 

Il regista e sceneggiatore Peter Jackson, la moglie e sceneggiatrice Fran Walsh, e la co-sceneggiatrice Philippa Boyens.

Il regista e sceneggiatore de Il Signore degli Anelli Peter Jackson, la moglie e sceneggiatrice Fran Walsh, e la co-sceneggiatrice Philippa Boyens.

 

La Compagnia dell’Anello, nelle sale italiane il 18 gennaio 2002, è stato come un fulmine a ciel sereno: dopo il tentativo per certi versi infruttuoso di trasporre Il Signore degli Anelli di Ralph Bashki del 1978, nessuno si era più fatto carico della titanica impresa di trarre un film dal romanzo. Secondo Lynette Porter, autrice di The Hobbits: The Many Lives of Bilbo, Frodo, Sam, Merry and Pippin, era necessario aspettare che gli adolescenti affascinati dall’opera di Tolkien crescessero, potendo assumere ruoli tali (produttori, registi…) da consentire il realizzarsi di un sogno-sfida come trasporre in un film il loro romanzo preferito. Di sicuro, l’impatto che La Compagnia ha avuto sulle masse è stato fenomenale: riaccendendo un interesse che sembrava sopito, ha donato nuova vita alla Terra di Mezzo, che soprattutto in Italia rischiava di soffocare in un sonno legato anche ad una ricezione limitata e talvolta anche scorretta che Il Signore degli Anelli aveva avuto.

 

Quella che il regista, insieme alla moglie Fran e la co-sceneggiatrice Philippa, ha voluto affrontare è stata una sfida senza pari, che lo ha portato a girare in soli quindici mesi tre film decisamente complicati: esigenze legate ai costi e alla volontà di far uscire un capitolo all’anno (e non ogni tre) hanno richiesto questa produzione quasi utopica, che è costata a chiunque ha avuto parte ad essa un impegno sovrumano. La lunghezza del romanzo del Signore degli Anelli ha rappresentato evidentemente una delle sfide più grandi per gli sceneggiatori, che pur frazionandolo nelle tre parti che anche l’autore aveva concepito si sono trovati di fronte ad una spaventosa mole di girato. Lo scotto da pagare è stato un necessario taglio di molte scene nella versione del film uscita nelle sale, che comunque durava più di tre ore: fortunatamente, è stata poi rilasciata in DVD e Blu Ray la versione integrale, che nel caso della Compagnia vanta trenta minuti di scene in più. Va da sé come tali versioni dei film siano il frutto primario della passione e delle fatiche degli autori, costituendo un valore aggiunto che rende difficile tornare alle versioni uscite in sala: pertanto, molti dei riferimenti che farò saranno legati alle extended edition.

 

Al contempo, la sfida era anche rendere appetibile ad un pubblico il più ampio possibile un’opera vasta, densa di avvenimenti quanto di un fitto sottotesto:  gli eventi narrati nel Signore degli Anelli, infatti, non sono che uno sguardo nella millenaria cronistoria della Terra di Mezzo, narrata in modo estremamente dettagliato dall’autore nelle opere dal sapore più mitologico come Il Silmarillion, o nella mai interamente tradotta in italiano History of Middle Earth; ma anche solo nelle Appendici del romanzo, che danno un assaggio al lettore di tutto questo ricchissimo background, spingendolo inevitabilmente ad appassionarsi a tutto questo affascinante pregresso mediante la lettura dell’opera omnia di Tolkien.

 

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Sauron in una delle suggestive immagini del prologo de Il Signore degli Anelli

 

Lo spettatore de La Compagnia dell’Anello ha il primo assaggio di tutto ciò proprio dall’inizio del film, con il prologo: dapprima il regista non voleva aprire il film in questo modo, ma la produzione (New Line Cinema) ha insistito perché fosse presente tale introduzione. Jackson stesso racconta come questo sia stato uno dei pochissimi diktat impostigli, e in un certo senso possiamo essere grati ai produttori: il prologo ci catapulta nella grandiosa battaglia dell’Ultima Alleanza contro gli eserciti di Sauron, e la voce narrante di Galadriel (Cate Blanchett) riesce meravigliosamente nel tentativo di rendere palpabile la profondità epica del racconto, così peculiare del corpus narrativo di Tolkien. Gli autori si sono interrogati a lungo sul punto di vista con cui rendere l’ampio respiro di queste sequenze: all’inizio Frodo sembrava la scelta più sensata, costituendo tra le altre cose una sorta di continuum con la chiusura dei film in cui completa il libro di Bilbo, ma la centralità dell’Anello ha prevalso. Infatti la voce narrante di Galadriel non è che un pretesto per seguire le azioni (perché ‘l’Anello ha una volontà sua’) del temibile gioiello di Sauron, causa e protagonista inanimato di tutta la narrazione.

 

L’idea originale del regista era di far emergere gli eventi che ci racconta il prologo dai dialoghi dei personaggi, soprattutto da quello tra Frodo e Gandalf a Casa Baggins dopo la partenza di Bilbo. E una certa parte di questa impostazione è rimasta nella versione finale, anche dopo l’aggiunta del prologo: certo, gli interventi di montaggio sono stati molto gravosi a seguito di questa revisione, ma ci ritroviamo comunque ad ascoltare ammaliati Gandalf che spiega al giovane hobbit come l’Anello costituisca un pericolo sempre vivo, nonostante l’apparente sconfitta di Sauron alla fine della Seconda Era, o Elrond che a Gran Burrone rievoca il drammatico momento in cui ‘la forza degli uomini venne meno‘.

 

In sostanza, che sia dal prologo o dai dialoghi, si riesce sempre a percepire come ci sia qualcosa dietro: lo spettatore, anche quello che non ha letto l’opera di Tolkien, intuisce che gli eventi a cui sta assistendo sono il tassello di un ricco mosaico, ambientato in una Terra di Mezzo che appare davvero viva e credibile. Anche qui, gli autori sono dovuti scendere a dei compromessi: non potendo ubriacare gli spettatori con continui flashback, nomi, toponimi e via discorrendo, hanno saputo comunque far percepire tale profondità grazie a momenti che – forse anche più delle sequenze prettamente narrative – rendono il film così speciale. Quando Frodo e Sam stanno lasciando la Contea, si trovano ad osservare un gruppo di Elfi che, lungo la Via, si reca verso i Porti Grigi per lasciare la Terra di Mezzo e non farvi più ritorno: stanno tornando a Valinor, la terra divina da cui gli Elfi erano partiti migliaia di anni prima a seguito di una serie di conflitti e divisioni narrate soprattutto nel Silmarillion, causa della limpida e trasognata malinconia che accompagna la loro vita nella mortale Terra di Mezzo.

 

La resa efficace di una scena così carica di significato (peraltro tagliata nella versione cinematografica) è paragonabile al momento in cui Aragorn ricorda cantando sottovoce la vicenda di Beren e Lùthien: interrogato da Frodo racconta di come Beren fosse un Uomo innamorato dell’Elfa Lùthien; le difficoltà del loro amore, legate al destino mortale dell’umano in contrasto con l’immortalità dell’Elfa, sono le stesse di quello tra Aragorn ed Arwen: anche qui il regista è andato oltre il semplice sviluppo della trama, facendo emergere inoltre l’importanza di canti e poesie, così presenti nelle opere dello scrittore, portatori – in maniera simile a quanto avviene nella tradizione omerica – di Storia e valori. Anche la celebre canzone La via prosegue di Bilbo, che troviamo già nel romanzo Lo Hobbit¸ va ad arricchire in tal senso il film: per di più, il testo di Tolkien è stato musicato dalla stessa Fran Walsh, sceneggiatrice e moglie di Peter Jackson… quella che si respira è un’aria appassionata e genuina che ricorda più le atmosfere di un indie movie che di una produzione multimilionaria.

 

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Gandalf e il Balrog sul ponte di Khazad-Dum, in una delle scene più epiche de Il Signore degli Anelli

 

Ma forse la più riuscita espressione del compromesso vincente tra gli aspetti epico-mitologici e la godibilità narrativa risiede nella scena del ponte di Khazad-Dum: lo scontro con il Balrog nelle miniere di Moria è un po’ il momento rappresentativo de La Compagnia Dell’Anello, culmine di una sequenza magistralmente incalzante. L’arrivo del ‘demone del mondo antico’ spaventa persino Gandalf, che sembra presagire la sventura che lo colpirà di lì a breve: il Balrog è uno spirito che risale alla Prima Era, alfiere di un male ancora più antico e terribile di quello rappresentato da Sauron; come Gandalf è uno dei Maiar, diretta emanazione dei Valar, ovvero le divinità della Terra di Mezzo. Dalle parole dello stregone (‘Tu non puoi passare! Sono un servitore del fuoco segreto e reggo la fiamma di Anor! Il fuoco oscuro non ti servirà a nulla, fiamma di Udun! Ritorna nell’ombra!‘) lo spettatore che non conosce l’epica cosmogonia raccontata nel Silmarillion riesce ad intuire la gravosità della sfida che Gandalf si trova d’improvviso a dover sostenere, e l’appassionato apprezza l’attinenza agli scritti di Tolkien, il tutto senza perdere fluidità della narrazione.

 

Il ritmo incessante della sequenza nelle miniere di Moria riesce a far stare costantemente col fiato sospeso lo spettatore, che non ha tregua dal momento in cui Pipino risveglia inavvertitamente i tamburi di cui la Compagnia sta avendo notizie dal diario della guarnigione del nano Balin, fino alla morte di Gandalf il Grigio. Peter Jackson stesso ha parlato della difficoltà di mantenere vivo e dinamico il ritmo de La Compagnia dell’Anello, quando questo primo libro della trilogia è caratterizzato da tempi molto dilatati, e ricco molto più dei successivi di momenti ‘di stallo’: sin dall’inizio, il viaggio di Frodo e Sam tra la Contea e le Terre Selvagge è nel romanzo un momento lento e dalla narrazione non molto incalzante, per non parlare della calma con cui Frodo intraprende (dopo anni dalla partenza di Bilbo!) la sua missione. Le scelte di regia e sceneggiatura sono state in questo frangente meno fedeli all’opera scritta che nel resto della trama, ma di nuovo ci troviamo di fronte a un risultato che – sorvolando sulle critiche dei più inflessibili puristi – è decisamente riuscito.

 

Anche una situazione come quella del Concilio di Elrond, che esattamente a metà film poteva costituire uno stacco pericoloso nella narrazione, diventa occasione per riportare in superficie i temi portanti della storia: l’Anello torna a ribadire la sua pericolosità nel dialogo tra Elrond e Gandalf, e in quello tra Frodo e Sam, convinto di essere in procinto di tornare nella Contea, vediamo il peso di un incarico che si sta per rivelare ancora più pericoloso del previsto. Anche il soggiorno della Compagnia a Lothlòrien, la foresta incantata di dama Galadriel, rischiava di essere una brutta gatta da pelare: proprio quando la tensione narrativa ha raggiunto l’apice, con la fuga fuori da Moria, è alquanto anomalo in un film con prerogative azione\fantasy trovare una sequenza così ‘al rallentatore’. Ma di nuovo, i rapporti tra personaggi e trama riescono a dar vita ad un capitolo memorabile e carico di significato, con Galadriel che mostra a Frodo ‘cose che furono; cose che sono; e alcune cose che devono ancora verificarsi.‘ Qui il regista riesce anche ad inserire alcune premonizioni legate ad un capitolo che suo malgrado dovrà eliminare completamente dalla sceneggiatura della trilogia, ovvero il ritorno nella Contea alla fine de Il Ritorno del Re in cui gli Hobbit trovano ad attenderli una sorta di dittatura industriale presieduta da Saruman.

 

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Frodo nella Contea, all’inizio de Il Signore degli Anelli

 

Il più grande alleato della regia nel compito di conferire ritmo, respiro epico, ed elevare la narrazione al livello che ha reso così speciale la trilogia è stato probabilmente Howard Shore, autore della memorabile colonna sonora. Vincitore del premio Oscar sia per il primo che per il terzo film, il commento sonoro culmina nei titoli di coda de La Compagnia con l’ispirata canzone May it Be di Enya (nomination all’Oscar come miglior canzone originale), ne Le Due Torri con la gemma Gollum’s Song della italo-islandese Emiliana Torrini, e ne Il Ritorno del Re con il capolavoro Into the West, cantata da Annie Lennox e scritta insieme ad Howard Shore e alla poliedrica Fran Walsh, vincitore dell’Oscar come miglior canzone originale.

 

Ne La Compagnia, la sequenza che succede al violento prologo è il bucolico capitolo Concerning Hobbits, che ci porta così lontano dalle atmosfere dalla battaglia contro Sauron anche grazie alla traccia omonima di Shore, che ha fatto innamorare milioni di spettatori con la melodia affidata a violini e flauti, immediato rimando alla vita agreste ed idilliaca della Contea. Anche a Moria il commento musicale di Shore è perfettamente complementare alla narrazione, con i cori maschili pensati proprio come rappresentazione dei nani che popolavano le miniere prima della drammatica decadenza, e la costante e minacciosa presenza dei tamburi orcheschi.

 

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Le miniere di Moria nell’illustrazione di Alan Lee per Il Signore degli Anelli

 

Un’ambientazione come quella della Terra di Mezzo ha richiesto una ricerca scenografica non indifferente: da una parte la necessità era quella di creare qualcosa di originale, senza cadere in dozzinali cliché del fantasy, dall’altra regalare agli appassionati una resa che fosse in linea con l’immaginario tolkieniano. In questo senso è venuta in aiuto l’arte di due grandi disegnatori, Alan Lee e John Howe. I due artisti sono da decenni il simbolo della rappresentazione artistica delle opere di Tolkien, le illustrazioni di Alan Lee in particolare corredano alcune pregevoli edizioni dei libri, diventando un punto di riferimento imprescindibile. Gli illustratori hanno lavorato fianco a fianco con regista e sceneggiatrici dei film, e il risultato continua a lasciare di stucco: a volte addirittura la resa cinematografica si è affidata completamente ai capolavori di Lee e Howe, con una sinergia che solamente la grande passione di Peter Jackson poteva avverare. Le opere dei disegnatori sono presenti anche direttamente nel girato, in un affascinante rapporto dialettico meta-creativo: a Gran Burrone, quando Aragorn e Boromir discutono al cospetto della spada Narsil, il dipinto murale che ritrae Isildur che si appresta a mozzare il dito di Sauron è opera di Alan Lee. Fran Walsh è riuscita poi a convincere Alan a concederle l’opera, per farla avere al marito Peter come regalo di compleanno!

 

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L’illustrazione di John Howe di Casa Baggins, fedelmente ripresa da Peter Jackson ne Il Signore degli Anelli

 

Di pari passo alla ricerca visiva, è stato dato grande peso alla sua realizzazione pratica: con un uso davvero limitatissimo della computer grafica, la maggior parte delle scene più rappresentative sono state girate grazie a miniature e plastici, unitamente talvolta al blue-screen. La Weta, la compagnia fondata dallo stesso Peter Jackson incaricata della scenografia ed effetti speciali, è riuscita così a rendere davvero palpabili e credibili i set: solo realizzare Hobbiville ha richiesto un anno di lavoro (e la collaborazione dell’esercito neozelandese!), in particolare Casa Baggins è stata oggetto di attenzioni e cure davvero certosine. Il suo fascino bucolico ha stregato gli spettatori, nonché il regista stesso che ha voluto poi acquistare Casa Baggins per poterla riassemblare quando sarà in pensione e trascorrervi piacevoli weekend. Lo scarso utilizzo della computer grafica ha reso estremamente laborioso gestire l’altezza degli Hobbit quando recitano insieme ad altri personaggi: sono stati attuati svariati espedienti, il più eclatante è la costruzione di due Case Baggins, una a dimensione normale ed una il 33% più piccola, per farvi muovere Gandalf e dare poi grazie al montaggio la corretta impressione dovuta alla differenza d’altezza tra lo stregone e gli hobbit.

 

Sono espedienti di stampo ‘analogico’ che fanno pensare alla realizzazione della trilogia originale di Star Wars, e non è difficile trovare altre similitudini con il lavoro di George Lucas: l’approccio così volto al dettaglio nei riguardi di una produzione tanto mastodontica da diventare intimidatrice, il ruolo fondamentale della passione personale degli autori, che sono riusciti a dare vita a due dei più grandi successi del cinema per incassi ma soprattutto per qualità ed influenza culturale. Anche il genere è paradossalmente il medesimo, ovvero il fantasy: nonostante la declinazione high fantasy della trilogia di Peter Jackson, i punti di contatto tra le due opere sono evidenti e riconosciute nei riguardi del lavoro di Tolkien anche da George Lucas, che vi si rapporta con il rispetto referenziale del fan di fronte ad un’opera ispiratrice. Nel film La Compagnia dell’Anello, la scena alla locanda del Puledro Impennato, caratterizzata dall’umanità più variegata e minacciosa, fa pensare alla cantina di Mos Eisley.

 

La locanda del Puledro Impennato de Il Signore degli Anelli fa pensare alla cantina di Mos Eisley

 

A Brea, lo stile ricercato da sceneggiatori e scenografi riesce tra l’altro a conferire un’aria gotica di grande fascino, che culmina con l’entrata dei Nazgûl nella locanda addormentata, con il primo piano del tremante oste Omorzo Cactaceo, e coronata dallo scioccante – per quanto fallimentare – attentato agli Hobbit.

 

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L’oste Omorzo Cactaceo terrorizzato dall’arrivo dei Cavalieri Neri

 

Quello che rappresenta invece un vero tributo di Peter Jackson ad un collega è costituito dal combattimento con il troll sulla tomba di Balin: è il regista stesso infatti a raccontare come abbia voluto riprendere lo stile di Ray Harryhausen,  regista e produttore pioniere in particolare dell’utilizzo degli effetti speciali – squisitamente analogici in un’epoca d’altronde così lontana dalla computer grafica – applicati al combattimento tra attori e creature mostruose. Il tentativo di ‘umanizzare’ il troll, portato avanti dagli autori con l’idea che non fosse realmente cattivo, quanto più un ‘ragazzino con cattive compagnie‘, raggiunge il suo scopo quando lo spettatore prova un po’ di pena vendendolo crollare a terra dopo un ultimo triste gemito.

 

La scena del combattimento con il troll sulla tomba di Balin del Signore degli Anelli è un chiaro riferimento a Ray Harryhausen

 

Anche la presenza dell’ormai compianto Christopher Lee nel ruolo di Saruman rimanda al grande cinema del passato, e unitamente all’indimenticabile ed iconica interpretazione di Ian McKellen nei panni di Gandalf (doppiato dal grande Gianni Musy, sostituito dopo la morte da Gigi Proietti ne Lo Hobbit con un risultato purtroppo difficilmente equiparabile all’originale) rappresenta l’apice dell’attenta e gloriosa scelta di casting operata dal regista. Cast che non è fatto solo di grandi certezze come i due stregoni, ma che vede anche scelte più coraggiose – rivelatesi poi azzecatissime –  come i praticamente esordienti Orlando Bloom (Legolas), Billy Boyd (Pipino), Dominic Monaghan (Merry), nonché attori che hanno trovato con l’ottima performance nella trilogia una consacrazione che ancora non era arrivata, basti pensare a Viggo Mortensen (Aragorn). L’affiatamento tra gli attori è stato un ingrediente imprevisto quanto poi imprescindibile per la straordinaria riuscita dell’opera, ne è simbolo il tatuaggio (la scritta ‘nove’ in elfico) che i Nove membri della Compagnia dell’Anello hanno deciso di imprimersi, ad indelebile memoria di un’esperienza senza pari: in verità, John Rhys Davies (Gimli) ha lasciato al suo stuntman quest’onore, motivando ironicamente (e con una certa classe) con ‘qualora ci sia qualcosa di pericoloso o che coinvolge il sangue, delego sempre il mio stuntman‘. Peter Jackson invece ha scelto il numero dieci, ovviamente sempre in elfico, come tatuaggio e perenne ricordo di una coraggiosa impresa che, comunque, difficilmente potrà essere dimenticata.

 

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Christopher Lee e Ian McKellen hanno interpretato con grande carisma i due stregoni Saruman il Bianco e Gandalf il Grigio ne Il Signore degli anelli

 

E la chiusura del film, con Frodo e Sam che sul fiume Anduin abbandonano la Compagnia, ci parla di una scelta coraggiosa che, nonostante tutte le difficoltà apparentemente insormontabili, porterà ad una brillante vittoria. Come Frodo, che lasciando suo malgrado la Compagnia si prende carico di un compito straordinariamente difficile, e Sam che pur non sapendo nuotare si butta in acqua per raggiungere l’amico, Peter Jackson e colleghi hanno superato una temibile prova con grande valore, regalando al mondo l’omaggio che l’opera di Tolkien meritava.

 

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