In 'Verso occidente' Primo Levi racconta della volontà di vita, ma anche di morte: e lo fa sondando gli abissi della psiche umana, regolata dall'attività di neurotrasmettitori e sostanze psicoattive.

Nel racconto Verso occidente – parte della raccolta Vizio di forma – Primo Levi tratta una serie di temi di una profondità abissale ed universale, in un modo molto personale. Lo fa con gli strumenti che la sua formazione scientifica di chimico gli fornisce: osservando la natura ed i fenomeni neuro-biologici, va alla radice delle problematiche più esistenziali del nostro essere uomini, parlando di morte, depressione e ricerca di senso e ragione nei riguardi della vita.

 

L’autore racconta di un gruppo di ricercatori che cerca di capire le motivazioni di una particolare specie di roditori (lemming) che, apparentemente senza motivo alcuno, si riunisce in enormi branchi per andare a morire in mare. Dopo aver appurato, confrontando gli esemplari che scelgono di morire con quelli che invece non migrano verso il destino fatale, che non ci sono cause scientificamente collegabili a situazioni biologiche o ambientali, gli studiosi capiscono che il desiderio di morire è semplicemente legato alla mancanza di voglia di vivere. Così tra gli scienziati la discussione prende un carattere sempre più esistenziale.

 

“- Perché un essere vivente dovrebbe voler morire?
– E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere?
– Perché … ecco, non lo so, ma tuttivogliamo vivere. Siamo vivi perché vogliamo vivere. È una
proprietà della sostanza vivente; io voglio vivere, non ho dubbi. La vita è meglio della
morte: mi sembra un assioma”.

 

Non riescono a capacitarsi di come una così larga parte di una razza animale possa aver scelto la morte, di massa per di più, a dispetto di un apparente e consolidato ordine naturale che predica la volontà di vita, lo spontaneo tendere alla sopravvivenza.  Ma le evidenze non possono che far loro superare questo status di cieca fiducia, andando verso un terreno irto di dubbi ed ombre.

 

“Possono nascere individui senza amore per la vita; altri lo possono perdere, per poco o molto tempo, magari per tutta la vita che gli resta; e finalmente … ecco, forse ci sono: lo possono perdere anche gruppi di individui, epoche, nazioni, famiglie. Sono cose che si sono viste: la storia umana ne è piena”.

 

E su questo pericoloso e instabile terreno, non tardano ad arrivare le spiegazioni, tanto oscure quanto chiare e intravedibili da tutti, se in grado di vedere oltre quella cortina di fumo della ‘volontà di vita’. L’immagine a cui Primo Levi dà vita – sempre con le parole degli scienziati – è estremamente potente e, nel suo intimo pessimismo, tragicamente scomoda.

 

“La vita non ha uno scopo; il dolore prevale sempre sulla gioia; siamo tutti dei condannati a

morte, a cui il giorno dell’esecuzione non è stato rivelato; siamo condannati ad assistere

alla fine dei nostri più cari; le contropartite ci sono, ma sono scarse. Sappiamo tutto questo,

eppure qualcosa ci protegge e ci sorregge e ci allontana dal naufragio. Che cosa è questa

protezione? Forse solo l’abitudine: l’abitudine a vivere, che si contrae nascendo”.

 

I lemming suicidi che marciano verso ponente (in un romantico riferimento al tramonto della vita) hanno superato gli abbagli della volontà di vivere ad ogni costo, andando in massa verso una sorta di epifanica scelta fatale. Gli scienziati provano ad iniettare una piccola quantità di alcol nelle bestiole suicide, con il risultato di inibire solo momentaneamente la loro volontà di morte: è evidente il riferimento ad una sostanza in grado di ‘intontire’ il lato che ogni uomo presenta seppur in misura diversa, responsabile di quei pensieri più abissali e talvolta così oscuri che – presa una certa deriva pessimistica – possono diventare i pilastri di una grave depressione o persino del suicidio.

 

Primo Levi 1

Un esemplare di Lemming, l’animale suicida

 

Si comincia a parlare, insomma, di come sia riscontrabile una relazione tra una molecola attiva biologicamente e uno stato psicologico. A questo punto gli studiosi si impegnano per “individuare o sintetizzare l’ormone che inibisce il vuoto esistenziale”. La scelta è però oggetto di discussioni: da una parte sembra innaturale pensare di sovvertire un meccanismo così innato e radicato nella natura animale (e quindi anche umana), dall’altra chi sostiene questo progetto osserva come la ricerca sia sempre andata verso il sostentamento della ‘sopravvivenza artificiale’. Basta pensare ai farmaci, o ai miracoli della medicina moderna per sconfiggere morte e dolore, nonché il ‘male oscuro’ della depressione. La questione è delle più complicate e difficilmente liquidabile con le ragioni della pura scienza.

 

“- Ma ci sono altri modi di vincere il dolore, questo dolore: altre battaglie, che ognuno è tenuto a combattere coi propri mezzi, senza l’aiuto esterno. Chi le vince, si dimostra forte, e così facendo diventa forte, si arricchisce e si migliora.

– E chi non le vince? Chi cede, di schianto o a poco a poco? Cosa dirai tu, cosa dirò io, se ci troveremo anche noi a … camminare verso ponente? Saremo capaci di rallegrarci in nome della specie, e di quegli altri che trovano in sé la forza di invertire il cammino?”.

 

Gli scienziati entrano inaspettatamente in contatto con una tribù, questa volta quindi con una comunità di uomini e non di roditori, che vive nel villaggio di Arunde. Qui l’autore allarga il campo della sua ricerca filosofica, raccontandoci di una comunità senza velleità esistenziali o metafisiche, in cui – superato il tabù del suicidio – gli abitanti, fatto il bilancio di ciò che nella vita gli procura piacere e dolore, se riconosciuto il prevalere del dolore foriero di infelicità, sono portati ad optare per una sorta di eutanasia. L’infelice abitante di Arunde si recherà così dai coltivatori di ktan: questo cereale è utilizzato per preparare impasti, e se non adeguatamente curato è affetto da una sorta di parassita, con proprietà stupefacenti. Il riferimento all’LSD – derivato dall’ergot, un parassita delle graminacee – è palese ed affascinante. Infatti, il suicida in questione deciderà di intossicarsi con tale sostanza, che lo porterà in un piacevole stato di torpore e, infine, alla morte. E il villaggio di Arunde sta per scomparire, proprio per questa lucida ed analitica tendenza suicida.

 

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Gli abitanti del villaggio di Arunde decidono di intossicarsi con un parassita simile all’Lsd

 

Proprio a questo punto della narrazione, i protagonisti scoprono la sostanza che, presente esclusivamente nei lemming che non partecipano al suicidio di massa, sembra garantire un sereno vivere scevro dal desiderio di morte. Hanno trovato insomma il tanto ricercato ormone-antidoto al vuoto cosmico esistenziale.  Appurato che effettivamente ne sono forniti solo i lemming che non marciano fatalmente verso occidente, decidono di inviare dosi della sostanza al capo degli Arunde, per salvare la tribù. La risposta, però, non è quella che ci si aspetterebbe, e sancisce anche la fine del racconto.

 

“Il popolo degli Arunde, presto non più popolo, vi saluta e ringrazia. Non vi vogliamo offendere, ma vi rimandiamo il vostro medicamento, affinché ne tragga profitto chi fra voi lo vuole: noi preferiamo la libertà alla droga, e la morte all’illusione”.

 

Con questa chiusura, volendo identificare (forse arbitrariamente, ma con una eternamente discussa operazione di critica letteraria, in generale) il pensiero dell’autore con quello del capo di Arunde, Primo Levi sembra rispondere a modo suo agli argomenti che ha fatto sollevare ai protagonisti del suo racconto, che si interrogavano sull’etica del fornire una soluzione ad un desiderio di morte che, pare, sia connaturato nei viventi in certe situazioni. La cura ‘chimica’ ad una depressione tanto radicale da essere motivo di cessazione dell’amore per la vita viene vista come una scorciatoia indegna della ricerca esistenzialista.

 

Il capo di Arunde rifiuta con grande serenità e decisione una cura al male autodistruttivo della sua tribù: preferisce la lucida analisi personale alla semplice soluzione data dalla scienza al mal di vivere, sebbene sa che questa scelta porterà alla fine della popolazione del villaggio. Preferisce il naturale percorso anche suicida della psiche rispetto all’utilizzo di una sostanza terapeutica, che può anche essere simbolo di una illusoria speranza: il pensiero va anche alla realtà biografica di Levi, suicidatosi nel 1987 dopo una vita che aveva conosciuto gli indicibili orrori di Auschwitz.

 

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Gli orrori di Auschwitz hanno tormentato la vita di Primo Levi

 

Il tema è estremamente ricco di diramazioni, da quelle prettamente scientifiche a quelle più legate alla percezione dei nostri sentimenti e del mondo, ma nell’esperienza totale che ci troviamo a vivere queste distinzioni sfumano in favore di un mosaico fluido, in cui scienza e percezione si uniscono armoniosamente. Infatti, sono le premesse neurobiologiche a spiegare – o a cercare di spiegare – il nostro stato psicologico: i neurotrasmettitori (dopamina, serotonina, adrenalina…) svolgono una precisa azione sinaptica in grado di mediare un’attività. Alti livelli di dopamina determinano sensazioni di ‘soddisfazione appagante’, e la serotonina è notoriamente collegata ad un profondo senso di benessere – infatti negli stati depressivi si riscontra una limitata attività serotoninergica. A questo punto è sempre più labile il confine, comunemente percepito, tra spiritualità e biologia: se il nostro sentire è direttamente collegato a concentrazioni di neurotrasmettitore, cosa sono davvero le emozioni?

 

Preso atto di questi meccanismi biochimici, la medicina ha cercato di agire alla stessa maniera sugli equilibri in questione, con risultati non per forza sempre vincenti dal punto di vista del rapporto costo\beneficio, ma che sicuramente costituiscono un affascinante confronto con quanto avviene nel racconto di Primo Levi. I ricercatori, nel mondo reale, ovviamente non hanno ancora scoperto l’ormone antagonista del vuoto cosmico, ma con molecole come la paroxetina, il citalopram e simili (tutti appartenenti alla categoria degli SSRI, inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina) siamo in grado di regolare in positivo l’attività serotoningergica, agendo in modo importante sulla terapia della depressione. Interrogandoci – come fanno nel racconto – sull’opportunità di tali pratiche, è difficile schierarsi contro una ricerca scientifica che sintetizza farmaci in grado di migliorare le condizioni di vita di milioni di persone. Certo, l’autore probabilmente era alla ricerca di una trattazione più assoluta, immaginando un vero e proprio antidoto al mal di vivere, che ha tutta l’aria di essere anche un antagonista del più illuminato libero arbitrio, condizione tanto nobilmente umana quanto tipicamente collegata all’umanissimo e legittimo concetto di errore.

 

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Philip Roth con Primo Levi

 

Ma le parole stesse del capo di Arunde, che parla di droga, ci portano anche oltre il concetto di farmaco (per quanto un chimico come Levi potrebbe benissimo usare il termine ‘droga’ nella sua accezione più farmacologica e farmacognostica, propria di qualunque sostanza sia in grado di mediare un’attività biologica). Il riferimento all’LSD è infatti molto diretto e ammiccante quando si parla del knat, infestato da quel fungo stupefacente tanto simile all’ergot della segale cornuta. E l’utilizzo che ne fanno gli abitanti del villaggio ricorda quello terapeutico, sebbene la scelta della via del suicidio sia stata presa prima, con il bilancio tra elementi positivi e negativi della vita e il successivo confronto verbale con gli altri abitanti della comunità. Il contesto terapeutico non è nuovo alla molecola di Albert Hofmann, che nel suo libro LSD: il mio bambino difficile, diceva:

 

“Mentre gli ansiolitici tendono a coprire i problemi e i conflitti del paziente, riducendone la gravità e l’importanza, l’LSD, al contrario, li fa vivere in maniera più intensa. È proprio questo aspetto di chiarificazione e discernimento a renderli più facilmente soggetti all’intervento terapeutico”.

 

È proprio il padre della sostanza, lo scienziato farmacologo di chiara fama oggi riconosciuto tra i più illustri geni del Novecento, ad avvicinare quindi l’acido lisergico alla ricerca psicologica. Levi sicuramente conosceva il pensiero e le opere di Hofmann, e il suo racconto può essere visto anche come un parallelo creativo-narrativo del lungo percorso di ricerca scientifica e filosofica del padre dell’LSD.

 

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Il racconto di Primo Levi può essere visto come un parallelo creativo-narrativo della ricerca di Albert Hofmann

 

Quando gli scienziati del racconto si interrogano su quali possano essere gli strumenti per superare la condizione intrinseca dell’uomo, che lo vede assoggettato all’eterna consapevolezza dell’imminenza della morte ed alla sofferenza di una vita spesso dura, riflettono su stati mentali di varia natura. Oggi la ricerca scientifica sta ritrovando nella molecola di Hofmann un interessante strumento, utile per superare stati depressivi anche gravi, sebbene la ricerca sia frenata dall’ottusità di una legislazione tanto proibizionista dal diventare restrittiva anche negli ambiti prettamente scientifici. Inoltre, non si può esimersi dal considerare le sostanze stupefacenti come un microcosmo che ha sì punti di contatto con le realtà farmacologiche tradizionali, ma sotteso anche ad un complesso sistema di motivazioni e peculiarità che caratterizzano il profilo dello psiconauta.

 

Oltre alla sostanza di Hofmann e ai farmaci di sintesi tradizionali, esiste un’altra molecola che può venire alla mente leggendo il racconto di Levi e pensando al legame tra biochimica e psicologia: anche l’MDMA è infatti da tempo oggetto di studi atti a valutarne l’agibilità terapeutica, e si stanno facendo passi da gigante in questa direzione. Anche in questo caso, le valutazioni possono essere spinose e soggette alle necessariamente attente precauzioni del caso: come il bambino difficile di Hofmann era definito tale dal suo stesso padre per i rischi che egli stesso vi riconosceva, così la terapia con l’MDMA deve essere parte di un percorso terapeutico finemente controllato, e la ricerca neurochimica non è certo caratterizzata dalla linearità.

 

È anzi soggetta ad una serie di necessarie valutazioni personali, etiche, scientifiche e filosofiche: dobbiamo arrivare a chiederci, insomma: cosa avremmo fatto al posto del capo della tribù di Arunde?

 

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