Il regista Kim Ki-duk ci logora con eccessi di violenza fine a se stessa.

Tutto succede un 9 maggio qualunque. Una ragazza viene rapita e uccisa. Da lì parte la spirale di colpe che attanaglia tutto il film.
I responsabili di questo crimine brutale vengono rapiti uno ad uno dalle Ombre, un gruppo terroristico composto da disperati che non hanno niente da perdere. Di volta in volta usano i travestimenti più disparati per commettere orribili torture che, inizialmente, sembrano rivendicare l’urlo strozzato di quella povera scolaretta, ma più ci addentriamo nelle dinamiche del film più possiamo intuire che gli atti di violenza commessi dalle Ombre non sono altro che il riscatto di una giustizia sociale che non riescono a vedere nella loro vita di tutti i giorni.

 

I minuti che precedono la visione di qualsiasi film di Kim Ki-duk sono per me un’emozione costante, ma con grande dispiacere dopo meno di mezzora dall’inizio di One on One ho capito che le mie aspettative sarebbero state inevitabilmente tradite.
I presupposti per essere un buon film c’erano tutti: la vita spezzata di un’adolescente qualunque, le mille sfumature delle psicologie dei rapitori, l’analisi della società coreana contemporanea, la violenza che chiama altra violenza e le colpe dell’uomo.
Il problema più grosso è come Kim Ki-duk ha portato avanti queste tematiche logorando(ci)si nella violenza fine a se stessa, in quella violenza che vorrebbe rappresentare la brutalità di un sistema marcio che finisce però per autocompiacersi dal primo all’ultimo minuto.
I giustizieri del film risultano poco credibili, e il loro inneggiare continuamente slogan sulla vita formato Mulino Bianco non aiuta di certo a renderli vicini al pubblico.
Un tema che poteva diventare interessante per le svariate dinamiche della società coreana è il contrasto tra ricchi e poveri, ma le reiterate sottolineature da parte dei protagonisti del film della propria condizione disagiata non hanno certo aiutato a prendere sul serio le loro vicende personali.

 

Il Kim Ki-duk odierno purtroppo sembra aver smarrito la bussola e la freschezza di un tempo e non solo in One on One, ma anche nell’acclamato Pietà – che comunque rimane un buon film – appare come un animale multiforme, come una fenice che ha tentato di risalire il baratro di depressione iniziato dopo il grave incidente sul set di Dream con una nuova idea di cinema della brutalità.
Anche vecchi film come Bad Guy o L’isola erano crudi e difficili da digerire, ma la violenza era giustificata e calibrata ai fini della storia, e sopratutto era circondata da un lirismo e da una magia che ci faceva domandare se la vita fosse un sogno o realtà.
Rimpiango tutto il non detto dei suoi vecchi film, rimpiango quell’incomunicabilità analizzata con maestria e amore, li rimpiango soprattutto dopo aver visto i personaggi di One on One parlare così tanto da far venir la nausea.

 

La cosa che fa più rabbia è che un genio come Kim Ki-duk capace di fare un buco nei nostri cuori con i suoi capolavori passati sia stato in grado con i moralismi di One on One di fare solo un grosso buco nell’acqua.
Aspettando il ritorno del genio…