La trilogia del silenzio attraversa la sofferenza ed il dolore che Ingmar Bergman racconta come necessari per raggiungere la luce.

Il tormentato spirito di Ingmar Bergman ha conferito alla sua persona, negli anni, una delle immagini-simbolo del cinema europeo più ricercato, grazie al suo incredibile lavoro di introspezione, di evidente bagaglio esistenzialista, sull’impossibile conseguimento della completa felicità umana. Un aspetto, questo, considerato spesso come pessimista ma che, in realtà, si rivela come uno dei più grandi studi, a livello cinematografico, della condizione umana.  

Ingmar Bergman, figlio di un pastore luterano e di una madre dai metodi severi, cresce in una famiglia dove le buone maniere e la repressione degli istinti diventano la base della sua educazione. Questo duro aspetto della sua vita diventerà la spinta per rifugiarsi in un universo immaginario, come quello del teatro di marionette, costruito insieme alla sorella Margareta. A vent’anni si trasferisce a Stoccolma per studiare all’Università e da lì inizierà a dedicarsi al teatro e, poco dopo, a scoprire una certa passione per la settima arte. Il cinema, questo non-luogo, sarà lo scenario dove materializzare i suoi interrogativi sulla natura umana e indagare su un possibile mondo sovrannaturale, qual è quello della spiritualità e, soprattutto, della religione.

 

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Un’immagine emblematica da Il settimo sigillo

 

Uno dei temi più ricorrenti della filmografia di Bergman, infatti, è la questione religiosa. Dio e la fede rappresentano i margini oltre i quali il regista ha costruito, al di là del rigorismo protestante, il significato della vita. Infatti, il proposito di Bergman è sempre stato quello di concepire la fede come alternativa e non come imposizione, contrariamente a quanto lui stesso aveva vissuto. Il regista comincia questo viaggio di scoperta e di analisi della religione a più livelli attraverso la sua intera filmografia, ma riconosciamo un certo interesse specifico alla tematica nella cosiddetta Trilogia del Silenzio: Come in uno specchio, Luci d’inverno e Il silenzio. Queste tre pellicole compongono un filo che percorre una sorta di cammino attraverso la sofferenza ed il dolore che Bergman racconta come necessari per raggiungere la luce, ovvero la speranza di un rinnovamento personale.

 

In questi lungometraggi non si parla necessariamente di Dio, ma, allo stesso tempo, è onnipresente. Il vero scopo di Ingmar Bergman è quello di comprendere come l’uomo si rapporta a ciò che non conosce, come lo percepisce in forma sempre differente, data la sua personale interpretazione (lo specchio) e come, in fin dei conti, sia difficile stabilirci un dialogo (il silenzio).

Il titolo del primo film Come in uno specchio, infatti, si basa su una lettera di San Paolo ai Corinzi, nella quale si afferma che la nostra visione delle cose di Dio è come quella che percepiamo attraverso uno specchio e che, superate le difficoltà della vita, ci apparirà poco a poco come reale. Il protagonista della storia, infatti, è un uomo che va a trovare i figli su un’isola durante le vacanze estive. Qui vivrà una profonda crisi nel rendersi conto di essere incapace di dare alla sua famiglia ciò che ci si aspetta da lui. La crisi, dunque, è un passaggio inevitabile nella vita degli esseri umani per giungere alla consapevolezza di se stessi. Il dubbio non è una debolezza, quanto un sintomo di crescita personale ed introspettiva che porta all’affermazione del sè e della propria persona. Tutti i personaggi di Ingmar Bergman, infatti, attraversano una crisi.

 

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Tutti i personaggi di Ingmar Bergman attraversano una crisi.

 

Per esempio, ne Il posto delle fragole, altro grande capolavoro del regista, il protagonista ormai anziano, e per quello prossimo alla morte, si imbatte in una profonda crisi che gli permetterà di riconsiderare tutta la sua vita. Durante un viaggio per andare a ritirare un premio letterario, Ingmar Bergman tesse un racconto sul passato dell’uomo e sulle occasioni perse, sul tempo e di come sia impossibile gestirlo, sulla realtà e sui sogni, sull’esistenza o meno di Dio, sul tanto agognato posto delle fragole, metafora dei tempi andati e della loro innocenza. La messa in discussione della propria vita è la crisi inevitabile, la resa dei conti con cui si accetta di cambiare e di essere pronti ad accettarne le conseguenze.

Ma la morte, che spesso è considerata come il punto massimo del raggiungimento della propria consapevolezza, per Bergman non è necessariamente la rivelazione di Dio. Questa  rappresenta il mistero, il non conosciuto, una terra di confine labile tra la paura e la speranza che è ciò che muove la vita. Questo mistero per il regista rimane una sorta di gioco che l’essere umano intraprende durante la sua intera esistenza. La partita a scacchi con la morte, per esempio, famosissima scena de Il settimo sigillo, è la consacrazione dell’allegoria della vita stessa: la morte è inevitabile, ma si può posporre, ingannare, allontanare, evitare: è una vera e propria partita e come in tutti i giochi è il tempo a regolarne l’azione e a governare l’andamento del gioco stesso. I pezzi degli scacchi e la loro osservazione rappresentano il tempo della vita e della riflessione sulla fede, su Dio, su ciò che si è fatto e su ciò che invece si è evitato. Quella di Ingmar Bergman è una vera e propria analisi introspettiva del rapporto che l’uomo ha con la propria esistenza e con i suoi misteri.

 

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Il posto delle fragole è uno dei grandi capolavori di Ingmar Bergman

 

Tornando alla trilogia, nel secondo film, Le luci d’inverno, un pastore, dopo la morte della moglie, si rende conto di aver perso completamente la fede, come luogo di connessione con Dio, ma di aver contemporaneamente acquisito un’apertura spirituale molto più reale che è quella dell’amore verso l’umanità. Infatti il protagonista si libera dal peso del silenzio di Dio parlando, ovvero tirando fuori la sua crisi che ha radici profonde nella propria infanzia.  La sua, dunque, non è una perdita, ma un cambiamento che è parte della ricerca dell’uomo verso l’amore.

Il silenzio, terzo e ultimo film, chiude questa trilogia nel modo forse più simbolico e astratto giacchè Ingmar Bergman ci suggerisce, soltanto attraverso alcuni elementi, un altro aspetto della religiosità: il silenzio, ovvero, l’incomunicabilità. In questo caso, essa irrompe principalmente tra le due sorelle protagoniste del film, incapaci di dialogare non appena mettono piede in un albergo situato in una zona straniera, dove le persone parlano una lingua diversa. La mancanza di comunicazione è presente anche con gli inquilini dell’hotel, e sarà motivo scatenante di una serie di incomprensioni. Ma il silenzio è anche quello del mistero artistico, che si rivela solo con la contemplazione. A questo proposito, Bergman associa all’arte anche il piacere sessuale vissuto spesso come colpa da una delle protagoniste, mentre in realtà è un continuo rivelarsi di se stessa e delle proprie paure.

 

Un approccio simile al tema è stato sviluppato in Monica e il desiderio, un film delicato e intenso che racconta l’estasi fugace di un’estate dove tutto è possibile. La stessa narrazione è condensata, giacchè alterna l’intensità di un rapporto sentimentale che fiorisce in piena libertà sessuale, con la leggerezza con cui due giovani vivono una vacanza d’amore. Ingmar Bergman affronta l’erotismo come immediatezza e piacere illusorio che, prima o poi, svanisce nella disillusione. Ma in Monica e il desiderio non degenera tanto in un senso di colpa, quanto nella consapevolezza della sua fragilità. I personaggi sono frantumati, perchè l’atto del piacere è tale solo nell’istante in cui si compie, giacchè tutto si consuma e la questione proposta è proprio quella dell’impossibilità di accettare questo cambiamento, generata dal non avere fede nella propria condizione di umani disillusi: è impossibile accettare il mistero.

Ed è proprio questa l’immagine di Dio che emerge nelle sue pellicole: metafora del mistero che a volte si affaccia sulla realtà attraverso la religione, altre volte attraverso la sessualità e spesso sotto forma di crisi;  ma molte volte resta inspiegato, nell’ombra e ne arrivano solo gli sprazzi, così come nell’intera filmografia bergmaniana. È il misterio, silenzioso, che governa la vita dell’essere umano: la spinta a scoprire la propria frammentaria e irrisolta natura umana.  

 

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