Ecco la storia dell'MCS70, sintetizzatore leggendario utilizzato in Automat.

Non è un mistero che l’underground italiano dei 70 abbia teso più volte l’orecchio alle sperimentazioni elettroniche d’oltralpe, più di quanto i manuali sul prog nostrano tendano a sottolineare. Al tempo, l’eco di una partecipazione attiva nel panorama internazionale era sì al suo tramonto, ma aveva comunque segnato la strada per una generazione di musicisti che, con fortune alterne, contribuirono al formarsi di una sottocultura lontana dai palchi sanremesi. Negli ultimi anni si parla con sempre maggior frequenza dell’influenza esercitata sulla scena di quel periodo dai vari Berio, Maderna e dagli studi di sperimentazione elettronica sorti tra Roma e Milano (ne è un esempio l’esaustivo Superonda di Valerio Mattioli). Lo stesso Morricone non era estraneo a questo fenomeno, tanto da divenire collaboratore e sostenitore dello studio R7 di Roma, ideale corrispettivo capitolino dello studio di fonologia milanese. Da lì a poco sarebbe arrivato Automat.

 

Di fatto, non erano solo musicisti a cavalcare l’onda della sperimentazione elettronica; una generazione di ingegneri e tecnici si era lanciata nella produzione di strumenti creati ad hoc, sulla falsariga di quanto stava accadendo in Giappone e Stati Uniti. Il boom economico era ancora impresso nella memoria e c’era maggior propensione verso iniziative imprenditoriali meno ortodosse. Non è un caso che, a distanza di decenni, i sintetizzatori italiani di quel periodo siano celebrati a spada tratta e riutilizzati in recenti produzioni, tanto da portare a fantomatiche riedizioni di alcuni famosi modelli.

 

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A distanza di decenni, i sintetizzatori italiani di quel periodo sono celebrati a spada tratta e riutilizzati in recenti produzioni

 

All’interno di questo panorama uno tra i tanti personaggi che meriterebbe maggior riconoscimento è Mario Maggi. Figura di spicco internazionale per genio ingegneristico e creatività, è la mente dietro alcuni dei suoni che identificheranno la decade successiva. Stevie Wonder arrivò addirittura a commissionargli uno strumento, mentre Jean Michel Jarre utilizzò uno dei preset di sua invenzione per creare il suono della celebre arpa laser. Per non parlare di Nick Rhodes dei Duran Duran: lui sui sintetizzatori italiani ci ha costruito una fortuna (avete presente quel suono di archi su Ordinary World e Girls on Film?).

 

 

Come dicevamo, Maggi è stato tra i maggiori innovatori nella produzione di strumenti elettronici in Italia. In questo articolo vorrei soffermarmi su un suo progetto del biennio 77-78, che un po’ funge da anno zero per quello che sarà il suo lavoro a venire.

Bisogna considerare che a quel tempo i sintetizzatori digitali erano una chimera e per lo più si aveva a che fare con tastiere monofoniche (con possibilità di riprodurre una nota per volta), al massimo duofoniche, come nel caso dell’ARP Odissey (il synth usato dai Kraftwerk in The Robots, per capirci). Immaginate con quanta facilità possiamo registrare oggi un banco suoni e salvarlo per uso futuro; il mare di possibilità offerto dalle nuove tecnologie è quasi spiazzante nella sua vastità.

 

 

Quarant’anni fa tutto ciò era pura utopia. Molto spesso gli studi avevano bisogno di “addetti alle macchine” che stavano lì a lavorare sui settaggi, adattando il suono del sintetizzatore alle richieste del musicista. Il minimo spostamento di un parametro poteva compromettere il suono dello strumento. L’immagine dell’uomo-macchina era legata anche a questa capacità di interazione con le molteplici funzionalità dello strumento, capace di raggiungere un’armoniosa fusione con le intenzioni dell’artista. Difatti, il carattere aleatorio di alcune produzioni di quegli anni è in parte dovuto all’imprevedibilità delle risposte date dalla strumentazione e quest’infanzia dell’elettronica, nella sua deriva mainstream, ha trovato molta della sua forza e diffusione nella possibilità di sperimentare in un campo senza regole prestabilite, creando lavori che, per forza di cose, suonano tutt’oggi freschi e ancora capaci di comunicare qualcosa.

 

Si cominciava però a sentire il bisogno di poter richiamare un banco di suoni creato in precedenza, senza dover ogni volta reimpostare manualmente i vari parametri. Probabilmente era già nell’aria che da lì a poco, volenti o nolenti, si sarebbe diffusa una nuova generazione di sintetizzatori capaci di rispondere a questi bisogni.

 

Su queste basi inizia la storia di un disco che, nonostante il destino avverso cui andò incontro, è divenuto una leggenda per il tipo di strumentazione usata. Il sintetizzatore impiegato per le 4 tracce di Automat è stato utilizzato soltanto in questa occasione, con buona pace di chi va a cercarlo qua e là nelle produzioni immediatamente successive (con un’unica eccezione di cui si parlerà più avanti). La genesi di quest’opera è frutto di una serie di eventi che porteranno Mario Maggi ad un passo dal riconoscimento sperato. Proviamo a procedere per gradi e analizzare il background di questo disco.

 

Come detto, la maggior diffusione dei synth, anche per uso domestico, aveva portato al bisogno di un’interfaccia sempre più user-friendly. Attorno al 1974 Maggi aveva già intuito che gli strumenti del futuro, indipententemente dal loro utilizzo, dovevano offrire la possibilità di memorizzare le modifiche apportate dal musicista, senza bisogno di affidarsi costantemente ai preset di fabbrica. Da qui inizia un progetto che culminerà nel 1977 con la realizzazione dell’MCS70, acronimo di Memory Controlled Synthesizer, che per molti è il primo esempio nella storia di sintetizzatore monofonico programmabile. Un primato che sembrava dover portare ad una vittoria annunciata per il suo ideatore; un piccolo miracolo di ingegneristica che avrebbe fatto invidia alle maggiori aziende del mercato. Non solo le funzioni offerte erano rivoluzionarie (in pochi millisecondi era possibile richiamare un preset salvato in memoria) ma i suoni prodotti non avevano nulla da invidiare ai synth d’oltreoceano. Era giunto il momento di testare l’MCS70 in studio.

 

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L’MCS70 in tutto il suo splendore

 

Maggi immaginava un disco interamente prodotto grazie alla sua creazione, utile per la campagna promozionale in vista delle fiere dell’anno seguente: da qui nasce il progetto Automat. Venne contattato l’amico Romano Musumarra, già sotto contratto con la EMI. Successivamente, l’idea venne presentata all’etichetta che, sorprendentemente, rispose positivamente alla proposta dei due. Dico “sorprendentemente” dato che l’idea di un album interamente elettronico e, per di più, interamente prodotto da un singolo strumento può ancora oggi far storcere il naso a grandi etichette, figurarsi nel pieno dei 70. Ad ogni modo, la EMI suggerì Claudio Ghizzi come membro da aggiungere al progetto, data la sua formazione classica e la maggior esperienza.

 

La EMI mise a disposizione uno dei suoi studi di Roma per solo 4 settimane, durante le quali vennero registrati 4 pezzi: il primo (Automat) consiste in una lunga composizione di Ghizzi divisa in tre parti (e va ad occupare l’intero lato A del vinile), mentre i restanti tre brani sono a firma Musumarra. Droid, forse il pezzo più famoso del quartetto, venne successivamente usato per una miriade di sigle televisive in Italia e all’estero (in Brasile divenne anche una hit da classifica). Non stento a credere che molti revivalisti degli ultimi anni abbiano fatto i conti con questo lavoro (ritrovo molte di queste sonorità in Planisphère EP dei Justice, ad esempio).

 

Nell’ep dei Justice, Planisphèere, si possono sentire le influenze di Automat

 

In generale, Automat si muove nei solchi di un’atipica space disco, con arie rarefatte alternate a ritmi più sostenuti ed un range di suoni che cerca di dar risalto all’espressività dell’MSC70. Le scelte stilistiche dei musicisti devono fare i conti con la volontà di Maggi di “esporre” in toto la sua creazione e, nonostante lo spettro di suoni utilizzati sia davvero ampio, le 4 tracce sembrano molto più coese e costanti tra loro di quanto si possa immaginare.

 

Racchiudere Automat nel genere disco sarebbe però riduttivo, oltre che una forzatura. Ascoltando la prima suite, o brani come Mecadence, si ha davvero l’impressione di affacciarsi verso un nuovo orizzonte, paventato già dai lavori della contemporanea scuola tedesca. La formazione classica, l’influenza della disco, la voglia di sperimentazione dilagante – tutto viene mixato e ricomposto in poco più di mezz’ora di ascolto. Non è difficile trovarsi catapultati da ritmi in levare a dilatate distese da Kosmische Musik.

 

Automat in versione remaster

 

A questo punto, tutto sembrava far presagire un successo annunciato: un synth dal futuro per un disco altrettanto avveniristico. Eppure, due eventi portarono a ridimensionare il progetto di Maggi.

 

Il primo riguarda il disco stesso. Nonostante il prodotto innovativo offerto dal progetto Automat, il 1977 aveva visto l’uscita di uno dei capisaldi dell’elettronica tutta, in qualche modo vicino nelle sonorità a quanto fatto da Ghizzi e Musumarra. Il disco in questione è Oxygène di Jean Michel Jarre, una pietra miliare difficile da eclissare. Fu proprio l’artista francese ad ottenere la prima copia di Automat, in un incotro privato avuto con Maggi l’anno successivo. Come si sia arrivati a questo incontro lo racconta lo stesso Maggi in un’intervista del 2015:

 

“Durante la Musikmesse [del 1978 n.d.r.] ho conosciuto il sig. Cavagnolo. Mi invitò a Parigi per presentare il mio MCS70 in una serie di conferenze. Cavagnolo era stato contattato da Jarre una settimana prima per altre questioni, per questo aveva il suo numero di telefono. Il primo incontro che Cavagnolo organizzò per me dopo la manifestazione fu in privato con Jarre”.

 

A detta di Maggi, Jarre rimase molto impressionato dall’MCS70, tanto da volerne acquistare uno all’istante. Forte di questi responsi positivi, Maggi programmava già una produzione in serie.

 

Qualcosa a quel punto deve essere andato storto, o meglio, le condizioni sembravano non volgere più in favore di un synth come l’MSC70. È difficile capire come gossip e rumours potevano un tempo solcare l’atlantico senza l’uso di internet ma, a metà del 1978, Maggi viene a conoscenza di un progetto simile al suo, di produzione americana. Quel sintetizzatore, di uscita imminente, avrebbe non solo fornito la possibilità di memorizzare le modifiche apportate, ma avrebbe offerto ben 5 voci di polifonia, surclassando qualsiasi prodotto monofonico sul mercato. Disponibile di lì a breve, il Prophet-5 sarebbe diventato una vera e propria icona, proiettato nel giro di pochi anni nell’olimpo dei sintetizzatori.

 

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Il Prophet-5, sintetizzatore che spodestò l’MCS70

 

Era chiaro che la corsa contro il tempo era ormai persa. Non si potevano più impiegare e pagare tecnici per un prodotto che sarebbe stato poco competitivo – la produzione in serie era ormai compromessa.

 

Non potendo continuare il suo lavoro sull’MCS70, Maggi abbandonò il progetto. L’unico esemplare di questo sintetizzatore finì nelle mani di Patrizio Fariselli degli Area, che lo utilizzò nell’album Tic&Tac del 1980. Nonostante i vari tentativi di individuare il suono di questo synth nei lavori italo-disco degli anni successivi, L’MCS70 sembra aver abbracciato un silenzio totale da più di trent’anni, con praticamente nessuna prospettiva di ritorno.

 

 

In una situazione in cui molti avrebbero gettato la spugna, costretti a cestinare un lavoro su cui si erano spesi anni di fatica, Maggi trovò la forza e la motivazione per ricominciare daccapo, perseguendo di lì a pochi anni uno dei suoi più grandi progetti. Questa è però un’altra storia che, per molti versi, porta a compimento quanto iniziato in questi anni, con un meritato riconoscimento internazionale ancora vivo nell’industria musicale.