Il controverso rapporto tra la marijuana e il social network più popolare del web.

Il mondo, lo sappiamo, procede per contraddittori. E uno di questi, che più di tutti si sta affermando nel dibattito pubblico, è quello legato alla legalizzazione della cannabis. Ora, quanto verrà detto nelle successive righe, nulla avrà a che fare con questo dibattito, ma tanto e, purtroppo, forse troppo ha a che fare con le contraddizioni. Per spiegarne la natura, non servono inesplicabili iperboli storiche, ma basta semplicemente descrivere i fatti: se da una parte abbiamo il percorso, alquanto naturale, di riabilitazione di una pianta, dall’altro troviamo l’inasprirsi di quelle forze che, al contrario, hanno contribuito a renderla sinora illegale, alimentando il proibizionismo. Quindi, se di guerra parliamo, andiamo a vederne le dinamiche, ma, ancor più, le armi che entrambe le fazioni utilizzano.

 

I social network sono stati una rivoluzione. Una rivoluzione che ha portato la comunicazione a livelli difficilmente auspicabili anche nel più recente passato. E Facebook, da re indiscusso (e talvolta anche padrone) del settore, rappresenta in maniera iconica questa rivoluzione. In parte per il suo carattere totalizzante (social, sì, ma in senso lato anche browser – almeno personalmente, ho ridotto drasticamente le ricerche su Google, avendo una bacheca con le mie notizie sempre a portata di mano), è stata la base di supporto per le innumerevoli evocazioni che la nostra mente possa partorire. 

 

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Facebook rappresenta la rivoluzione dei social network. Ma anche quella del proibizionismo?

 

Così, una volta assimilatone il carattere multiforme, è facile capire come ogni azione multimediale venga veicolata da questo strumento.

Sia nel caso si voglia far vedere al mondo il nostro ultimo esperimento culinario sia se si voglia raggruppare attorno ad un pensiero condiviso il maggior numero di persone. Ecco dunque, che da piazza libera da intermediazione, anche Facebook si è dovuto adeguare alle logiche del mercato e, come il mercato, si è dovuto dettare delle regole. La privacy, come rispettarla e come mantenerla, ma soprattutto quale etica perseguire? Un’etica estremamente liberale, ai limiti dell’anarchia, o più moderata? Domande lecite e grandiose, alla base di ogni principio di società (e quella digitale è, a tutti gli effetti, una società). Domande legittime, si diceva, ma che ancora stanno cercando una risposta.

 

L’idea di scrivere qualcosa a riguardo nasce proprio da qui. Ma anche e specialmente da qui. La pagina ufficiale del magazine Dolce Vita (il quale, precisiamo subito, si tratta di una testata giornalistica ufficialmente registrata), ha ricevuto una minacciosa e alquanto sibillina segnalazione da parte dello staff di Facebook, a causa di una foto di un fan che la pagina ha condiviso tramite il proprio profilo. La foto raffigurava una alquanto minacciosa piantina di canapa, gelosamente custodita all’interno di un grow-box che non lasciava vedere nient’altro che la piantina. Dramma, psicodramma, serve assolutamente un esorcismo (per la vicenda nel dettaglio, vi rimando al link precedente). La domanda, ora, sorge spontanea e una risposta serve ancor più repentinamente della domanda: perché? Quali disgrazie avrà comportato al genere umano questa pubblicazione?

 

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L’immagine della discordia censurata da Facebook in pieno stile proibizionismo

 

Ho curiosato tra le righe degli “Standard della comunità” che Facebook promuove ai propri utenti (il codice etico del sito, insomma) e si comprendono immediatamente due cose. In primis il lavoro inquisitorio che il social network fa autonomamente: nel testo non è esplicito, ma il continuo riferirsi al “nostro lavoro”, “nostra missione”, in sostanza, quel “noi” così ingombrante lascia presagire che i primi ad operare nel campo della rimozione dei contenuti siano proprio “loro”. Inoltre, il social sfrutta anche il senso civico degli utenti, i quali hanno la possibilità di segnalare (a chi? A Facebook) contenuti che, oltre a violare le norme vigenti, possano in qualche modo essere inopportune per la persona stessa.

 

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Un’immagine innocua

 

 

A scuola li chiamavamo spioni e li odiavamo tutti: a oggi, questa accezione non è più valida, è superata dall’età (almeno la mia) ed anzi, ben vengano gli spioni. Eppure, c’è un’incongruenza di fondo, che risiede nella sostanza di questi due metodi. Infatti, il primo permette di veicolare il secondo: Facebook, come la maestra, monitora i suoi scolari, ma a sua volta ne sfrutta alcuni (i più bravi, si diceva) affinché aiutino a mantenere l’ordine, purché l’ultima decisione spetti alla maestra. In questo caso, si capisce come il sistema resti sempre e comunque nelle mani del vertice. Dunque, se invece di strumentalizzare la spontaneità degli utenti si desse loro  la possibilità di collaborare attivamente al social (e non mi riferisco solamente alla censura, ma anche a tutte le altre componenti: spazi e contenuti), forse si avrebbe un lavoro più diversificato, ma al contempo equo.

 

“Proibiamo qualsiasi tentativo da parte di privati di acquisto, vendita o scambio di medicinali, marijuana o armi da fuoco.”

 

E ben venga. Per quanto potrebbe essere comodo comprare cannabis con un click, mi rendo conto che in un mondo non ancora libero dal protezionismo, questo sia un ragionamento logico. Però, e questo è un cavillo per cui appellarsi non credo serva essere avvocati, mi sembra chiaro che si parli esclusivamente di commercio. Dolce Vita Magazine non mi sembra che abbia messo in vendita (o tentato di barattare) alcuna delle citate sostanze né, tanto meno, credo che il commercio rientri nelle politiche di una testata giornalistica. Il cui unico difetto, mi viene da dire, è semplicemente quello di informare su un tema che scotta.

 


  Fomentare il proibizionismo per una sostanza più sana del legalissimo alcol è giusto?

 

Che la cannabis scotti ancor prima di essere accesa, è un fatto chiaro e conclamato. Il controsenso con il quale ho aperto questa breve narrazione però, qui pare raddoppiarsi. Se è vero che la lotta all’anti-proibizionismo si combatte con un sempre più ferreo proibizionismo, mi chiedo come sia possibile che una piattaforma nata in assoluta indipendenza e che abbia fatto proprio delle libertà di espressione un suo araldo da sventolare, si schieri dalla parte “sbagliata” della barricata. “Sbagliata” è tra virgolette non per caso: non si riferisce al mio giudizio (sì, anche, ma non in questo caso), quanto a quello che dovrebbe essere il giudizio di Facebook, se ne guardiamo in maniera razionale la struttura, senza neppur dimenticare che le battaglie per sensibilizzare sull’argomento sono partite, negli ultimi anni, proprio da qui.

 

Dolce Vita è solo uno degli ultimi (e forse nemmeno di quelli, una settimana per il web equivale a dieci vite per un uomo, quanto a eventi che si succedono) e si aggrega alla schiera di chi protesta. Attivisti, giornalisti, ma anche produttori, i quali, nella piena legalità delle proprie azioni, utilizza Facebook se non per vendere, almeno per pubblicizzare i prodotti (“I proprietari degli account che sono stati cancellati dicono che non hanno mai acquistato marijuana in vendita online, e mentre la marijuana resta dal punto di vista federativo illegale, le loro compagnie esistono fisicamente in quegli Stati dove la marijuana è stata legalizzata in ogni sua forma” come si legge sull’articolo del The Guardian). Trarre una conclusione chiara, in questa sede, risulta alquanto complesso. Una porta ne aprirebbe mille altre e, forse, una vera resa dei conti non ci sarà mai, almeno sulla piattaforma di Zuckerberg.

 

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La piattaforma di Zuckerberg si aprirà mai ad una resa dei conti?

 

Eppure resta l’indignazione, delle vittime, ma anche di chi non si sente pienamente tutelato nella propria libertà di informazione. Così, mentre sopravvivono pagine che reclamizzano false notizie e inneggiano a comportamenti ben più violenti che fumarsi uno spinello (sebbene, nel caso di Dolce Vita, non vi sia nemmeno quest’ultima aggravante), le nostre domande restano sospese e paralizzate, come la mia bacheca Facebook, quando inspiegabilmente crasha sul cellulare.

 

Sinceramente, sebbene due messaggi siano considerati illeciti in egual maniera, ritengo abbiano degli aspetti completamente differenti su chi li legge. Eppure uno si bastona, mentre l’altro sopravvive o si lascia sopravvivere quasi sempre impunemente.

 

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