Poche soluzioni, tante domande. Ecco il segreto dell’international journalism fest. Un mondo che si guarda allo specchio.

A Perugia si diventa bulimici. Di parole, contatti, persone. Di panel, soprattutto. Cosi si chiamano gli eventi che si accumulano nel denso programma del festival del giornalismo di perugia, nelle affollate (ma meno dello scorso anno) strade del capoluogo umbro. Devi farne sempre di più, seguirne anche 7-8 al giorno, perché uno tira l’altro. E poco importa che tu ne esca il più delle più volte deluso, spaesato, pieno spesso solo delle cartacce dei kit kat di cui ti hanno omaggiato all’ingresso.

 

Panel et circenses avrebbero forse detto i romani. È questo il bello del festival del giornalismo di Perugia, l’atmosfera. La cornice, più dell’interno. Trovare Jeff Jarvis ovunque, vedere Andrew Spannaus che fa domande a conferenze dove non è speaker e poi mezz’ora dopo litiga con Stefania Maurizi. È vedere i due giornalisti russi di agentura.ru passeggiare e sorprendersi delle bellezze di Perugia, anche se non è il primo anno che la visitano. Eccetera, eccetera. Il festival del giornalismo è analisi della sconfitta, è presa di coscienza, anche se davanti a uno specchio.

 

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Andrew Spannaus, autore di Perchè vince Trump – La rivolta degi elettori e il futuro dell’america

 

Fake News, Trump, Russia, Siria. Questi i temi più citati nei vari incontri, oltre ovviamente al topic con la t maiuscola: il digitale. All’hotel Brufani, sorta di quartier generale per ospiti, visitatori e organizzatori, c’è la sala Amazon, il bar Facebook, la newsroom di Google. Sono già loro, e lo saranno sempre di più in futuro, le media company di riferimento: i disruptor che hanno rivoluzionato anche il giornalismo.

 

Nel 2017 non ci si chiede più se e come sopravvivere a essi, bensì soltanto come utilizzarli al meglio. Non se ne può fare a meno, ma va trovata una strada sostenibile. Come quella di Quartz, sito molto famoso in tutto il mondo, che fa 20 milioni di contatti unici al mese. Una delle poche vere alternative al modello italiano del clickbait fine a se stesso. «Non abbiamo pubblicità, se non quella nativa, e puntiamo molto all’intersezione. Qz.com è più di un’app, è un API (application programming interface), c’è il sito, ci sono le mail (il fantomatico Quartz Daily Brief), ci sono i video, c’è ATLAS, c’è la app, una sorta di bot che tratta l’informazione come una chat» – ci racconta Cassie Werber, reporter del sito da Londra. Quartz fa utili, circa 30 milioni di dollari nel 2016, e nel sito non c’è nemmeno una pubblicità. È il modello del native advertising il refrain sotto traccia dell’#ijf17. Tutti gli eventi davvero focalizzati sul futuro dell’informazione lo dicono, non lo negano più, anzi lo sponsorizzano. Le persone non cliccano più sulle pubblicità, se mai l’hanno fatto, a meno che non ci sia una narrazione dietro. Sui video è la stessa cosa, e, va da sé, devono essere pensati in base al pubblico. E il pubblico è su Facebook e Instagram. Anche perché Snapchat forse sarà una nuova Twitter e per il momento è meglio aspettare.

 

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Il logo del festival del giornalismo di Perugia

 

La pensa così Garrett Goodman di Wochit, azienda che fa consulenza ai gruppi editoriali per le strategie video su Facebook; la pensano così molti speaker stranieri, protagonisti degli incontri forse più interessanti: quelli dove ci sono meno persone che da Mentana o da Gazebo, ma in cui si analizza l’esistente per creare il futuro.

È quello che fa ogni giorno Adam Mosseri, VP product di Facebook, dove è responsabile del News Feed, l’algoritmo che gerarchizza post, foto, video che vediamo ogni giorno sulle nostre bacheche. Il segreto perché un prodotto giornalistico sia di successo, oggi, è renderlo più narrativo, e il messaggio di Mosseri, protagonista di uno dei panel più consistenti, si potrebbe riassumere traslando uno slogan di moda negli ultimi tempi: make important stories great again. La domanda è sempre la stessa, come monetarizzare, come rendere sostenibile il Facebook Journalism? Ci stiamo lavorando, dice Mosseri. Ci stiamo lavorando, la stessa risposta che dà Lila King di Instagram, in un altro incontro molto interessante.

 

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Lila King di Instagram era presente al festival del giornalismo di Perugia in un incontro molto interessante

 

È questa la sfida dell’informazione oggi: rendere monetizzabile e sostenibile l’informazione social. Ancora un lavoro quasi impossibile, ma va detto che le multinazionali dell’Internet ci stanno provando. Come Google, con la sua Digital News Inititative, un bando che mette a disposizione 150 milioni per progetti giornalistici innovativi.

 

E poi ci sono le storie

Siria, Trump, gli hacker russi. Sono le grandi storie raccontate, illustrate, mostrate dai giornalisti di tutto il mondo. Macro temi che si riflettono poi sulla vita quotidiana di comunità, famiglie, persone. Come la storia di Alaa Arsheed, violinista siriano che ora anima la Adovabadan Jazz Band.

 

«Mi sono stufato di come viene rappresentato il mio paese. E credo che mescolare la tradizione musicale siriana con quella europea, che ci ospita, sia un buon modo per raccontarla. La musica per me è bellezza».

 

Alaa in estate partirà con un camper, in un percorso a ritroso che culminerà in Grecia con una mega jam session.

 

La Siria, anche se non sempre in senso stretto, è stata uno dei main topic dell’edizione 2017 del Festival, visto anche quello che è successo durante la settimana, con l’attacco chimico di Assad prima e i bombardamenti americani poi. E sullo sfondo restano appunto le grandi macchinazioni geopolitiche, con l’elezione di Trump, ancora mal digerita dal mondo dei giornalisti, ora impegnati nella gara a impadronirsi della prima previsione sul tycoon alla Casa Bianca. E ci voleva il festival del giornalismo per scoprire che i sondaggi ci avevano preso, nonostante mesi e mesi in cui si è detto il contrario. Panel su panel hanno affrontato tante storie anche d’attualità, ma la sensazione è sempre quella: un mondo che si guarda allo specchio, e parla a se stesso.

 

 

In fondo è questo il bello del festival del giornalismo di Perugia, la stessa cosa che muove il maggior numero di critiche: un élite che parla a se stessa e non ascolta gli input esterni. Post verità, fake news, disintermediazione: il giornalismo non vive tempi facili, ma certo interessanti. E psicanalizzarsi è il primo passo per ammettere di avere un problema. Ricorrere a imbonitori o a false promesse non è la strada maestra. Non lo è la grande massa, non lo sono i gattini.

Uno si fa venti incontri in 4 giorni, e in fondo non trova risposte. Ma si fa domande, e questo già è importante, considerando il momento. Si guarda allo specchio, e qualcosa, in fondo capisce, anche se non si sa ancora bene cosa.

Parafrasando Giovenale, il popolo del Festival del Giornalismo di Perugia «due sole cose ansiosamente desidera»: Panel et circenses.

 

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