Dal romanzo End Zone di DeLillo fino ad alcuni dei videogiochi più di successo, nella cultura popolare vediamo i segni di quell'ossessione morbosa che possiamo definire dipendenza da violenta apocalisse.

Nel 1972 Don DeLillo pubblica quello che è oggi considerato un romanzo giovanile, peraltro uscito in Italia solo nel 2014: si tratta di End Zone. Leggendolo, al fan del maestro americano sembrerà di vivere diversi deja-vù, ritrovando gran parte dei temi, delle paranoie, delle ossessioni che andranno poi a caratterizzare tutte le opere successive dell’autore. Ma tra questi nuclei ne emerge uno che si tinge di toni particolarmente attuali, per quanto (o in quanto) tipico in realtà della più essenziale struttura mentale dell’uomo: la voluttuosa e degenerata attrazione per la distruzione, la morte, l’apocalisse. Meglio se nucleare.

 

“Un tempo gli dèi punivano gli uomini scatenandogli contro le forze della natura o invogliandoli a prendere le armi e a distruggersi a vicenda. Ora dio è la forza stessa della natura, la fusione di trizio e deuterio. Ora è lui l’arma. Perciò forse stavolta, nel tentativo di creare un essere onnipotente, ci siamo spinti un po’ troppo in là.”

(Don DeLillo – End Zone)

 

Il protagonista, Gary Harkness, è un ventenne che sembra aver perso interesse per la vita, con pregresse difficoltà scolastiche e disciplinari, ma con un innegabile talento sportivo. Iscritto ad un college disperso nel Texas, le sue giornate sono scandite soprattutto dai durissimi e continui allenamenti di football. Ma quello che davvero gli dà piacere, che in un certo senso gli consente di sopravvivere alla monotonia e al silenzio della vita nella scuola – descritta ovviamente da DeLillo con toni esasperati e surreali – è il vagheggiare di apocalissi, l’immaginare scenari catastrofici frutto per lo più della guerra termonucleare.

 

“Ogni giorno una zona diversa. Questo esercizio mi riempiva di schifo per me stesso e aveva lo scopo ultimo di far sì che riuscissi a sbarazzarmi della gioia che provavo nell’immaginare milioni di morti. Pensavo che alla lunga il mio schifo sarebbe stato così grande da permettermi di liberarmi da quel senso di olocausto globale. Però non funzionava. Continuavo ad aspettare con ansia ogni nuova parvenza di distruzione. Sei megaton per il Cairo. Testate Mirv per i paesi del Benelux. Tifo e colera per la valle del fiume Hudson.”

(Don DeLillo – End Zone)

 

apocalisse 1

Don DeLillo, autore di End Zone

 

La distruzione atomica diventa per Gary Harkness una vera dipendenza, un’ossessione che si fa protagonista delle lunghe e visionarie riflessioni che sconvolgono la sua anima: il teatro delle vicende, questo campus sperduto nel deserto texano, sembra esso stesso il desolato scenario di un fallout post-nucleare. Gli allenamenti di football sembrano sempre più addestramenti militari, ritorni allo stato ferale e legato alla sopravvivenza personale, in contrasto con le peraltro vividissime elucubrazioni metafisiche dei personaggi, in pieno stile DeLillo.

 

“Era come se stessi sottomettendo le mie emozioni a un circolo senza scopi precisi, in cui il piacere traeva nutrimento dalle ossa nere della repulsione e della paura. Ondate di maremoto per Bremerhaven. Radiazioni a lungo termine dal delta del Mekong. Per Milwaukee avevo programmato tempeste di fuoco.”

(Don DeLillo – End Zone)

 

Il fascino della più assoluta devastazione nucleare è associato alla paura, quella paura viscerale che scuote il nostro animo che si confronta con forze così gigantesche dal diventare oscure. È quell’inspiegabile attrazione per ciò che è tremendamente pericoloso e mortale, in totale opposizione con la linearità della routine e della vita civile, sociale. È quel senso di ‘mostruoso e meraviglioso’ che i greci chiamavano deinòs, riferendosi in particolare al potere delle divinità, oggi sostituito da quello atomico.

 

“- Qual era il motivo preciso per cui mi sei venuto a trovare?
– Semplicemente la guerra nucleare, signore. Sapere come potrebbe essere.”

(Don De Lillo – End Zone – dialogo tra Gary Harkness ed un professore, esperto in materia bellica)

 

 

La morbosa curiosità verso quelle categorie che in apparenza dovrebbero solamente suscitare in noi repulsione e desiderio di fuga non appartiene solo a Gary Harkness, ma pagina dopo pagina il lettore dovrà ammettere di sentirsi trasportato dalla poetica della distruzione, dalla sensazione che anche mentre si legge il romanzo la fine del mondo si stia avvicinando a passi lievi dietro il palco della Storia. Si tratta di quella strana verità per cui ci ritroviamo a ricordare meglio le oscene e disumane crudeltà perpetrate dai nazisti nei lager, piuttosto che la data in cui i Russi entrarono ad Auschwitz. O per cui tra tutte le cose che dimentichiamo, non ci sfugge mai il nome di questo o quel sanguinario, amputatore, deviato, perverso serial killer.

 

Spiega anche perché abbiamo perso svariati minuti a osservare come funziona la bomba MOAB che gli USA hanno sfoggiato recentemente, in quel teatrino che – guarda caso – ci tiene morbosamente attaccati alla homepage del nostro quotidiano preferito: l’idea di un duello atomico tra Kim e Trump fa paura, ma è anche deinòs. E va da sé che – nella grande maggioranza dei casi – ciò non sottende ad un’empatica condivisione dei non-valori che causano questi orrori, né ad un reale desiderio di morte e devastazione.

 

apocalisse 2

Il fascino fatale e terribile del potenziale distruttivo di una testata nucleare

 

“Cose atroci. Mi piace leggere libri che parlano di atrocità. È più forte di me. Mi piace leggere dei forni, le docce, gli esperimenti, i denti, i paralumi, i saponi. […] Questo è il mio interesse particolare. Le atrocità in genere, ma soprattutto se riguardano i bambini.”

(Don DeLillo – End Zone – Taft Robinson, un compagno di squadra di Gary Harkness)

 

Questa dipendenza dall’atroce, dall’indicibile dettaglio macabro fino alla più grandiosa e definitiva tabula rasa termonucleare, sembra radicata nei più profondi anfratti del labirinto della nostra mente. Dai folkloristici ‘musei delle torture’ al più pop dei film horror, sono innumerevoli gli esempi che ci vedono ipnoticamente ammaliati da quello che, magari, ci troveremmo coscientemente a tacciare come orribile, repellente. Ma cosa muove tale strana pulsione?

 

Probabilmente, la violenta, brutale cesura da qualsiasi schema sociale, industriale, politico, attuata da un’ipotetica tabula rasa nucleare stuzzica quella parte dell’uomo incasellata in tutte queste formae mentis, in una sorta di devastante superamento della realtà immanente, a metà tra Nietzsche e il Futurismo. Ma questo non basta, è anche e soprattutto la violenza distruttiva in sé ad esercitare una fascinazione morbosa, a dar vita a quest’inspiegabile dipendenza dall’atroce. Dai tempi del ‘web 1.0’, in cui siti come Rotten.com si affacciavano fugaci sugli schermi delle aule di informatica delle scuole medie, fino ai video delle esecuzioni dello Stato Islamico o di Al-Qaeda, i contenuti più svergognatamente violenti e splatter hanno catturato l’attenzione e il disgusto degli utenti… ma in qualche modo, è sempre difficile non guardare.

 

apocalisse 3

Un simbolo nucleare che sa di apocalisse

 

C’è in gioco in larga parte una sorta di gusto per il proibito, proibito dal buon senso, dalla morale e dal buon gusto. Ma al di là dell’aspetto prettamente estetico della cosa, è fondamentale soprattutto il disperdersi – nella morte, nell’avvenuta apocalisse – dei consueti ‘ordini di grandezza’ con cui siamo abituati ad analizzare ed elaborare le problematiche della vita. In End Zone, DeLillo racconta di come per un periodo gli allievi del college erano stati presi da una sorta di mania, un gioco che da semplice e vuoto gesto scherzoso era diventato una sorta di disciplina sportiva: il gioco è ‘Bang sei morto’, e vede un ragazzo che dicendo questa frase, con la mano mima il gesto dello sparare con una pistola, e ‘uccide’ un compagno. La cosa prende piede molto rapidamente, con gli studenti che si esibiscono nelle più elaborate cadute ad effetto, parte integrante e necessaria alla buona riuscita del numero. L’apoteosi si raggiunge in fretta, con un’apocalittica ‘sparatoria’ che vede coinvolto un intero piano, con gli studenti riversi sulle scale e per i corridoi.

 

“Uccidere nell’impunità. Morire nella celebrazione di antiche usanze. In quelle giornate, quasi ovunque nel campus si sentiva l’eco di spari umani. […] Era soprattutto questo a rendere piacevole il gioco: il fatto che riuscisse a provocare delle crepe nel silenzio che ammantava ogni cosa.”

(Don DeLillo – End Zone)

 

La morte diventa in questo caso un modo per dare colore a quell’esistenza scandita da lezioni ed allenamenti, e riesce paradossalmente a rendere più vivi ed umani i rapporti tra le persone. L’idea poi di ‘uccidere’ nell’impunità è ben presente nella cultura popolare, e caratterizza un po’ tutte quelle situazioni in cui la Legge è venuta meno. Nella puntata di Rick & Morty Look who’spurgingnow, parodia del film horror The Purge, la cosa è molto ben rappresentata, e dopo l’orrore iniziale è lo stesso Morty a perdere la testa, facendosi prendere dalla incontrollabile smania di uccidere.

 

apocalisse 4

Un frame dell’episodio Look who’spurgingnow, della serie-capolavoro Rick &Morty

 

Sembra che in molte rappresentazioni artistiche la violenza sia uno dei primi fattori ad emergere quando viene sovvertito l’ordine costituito, e la spiegazione risiede proprio nell’ossessione che l’uomo ripone verso di essa. E il sovvertimento stesso è spesso oggetto di tali opere di finzione, muovendo più o meno le stesse corde: è il caso ad esempio del celebre romanzo The Stand (L’ombra dello scorpione, nella sfortunata traduzione italiana del titolo) di Stephen King. Quando la super-influenza manda a gambe all’aria l’intera civiltà, è la legge del più forte ad avere la meglio, e lo scrittore, insieme poi al lettore, si lascia prendere dall’infinito fascino di immaginarein che modotutto vada a repentaglio. Lo stesso confronto tra Bene e Male, nel romanzo, può essere visto come lo scontro tra una fazione che celebra morbosamente la violenza ed una che vi contrappone luminosamente la pace. Il brutale sovvertimento dell’ordine è ancora più evidente nel romanzo dello stesso autore The Cell, per non parlare di tutte le più ovvie declinazioni zombie del caso.

 

apocalisse 5

La copertina originale di The Stand, di Stephen King

 

In ambito videoludico, l’apocalisse atomica diventa il motore fondamentale di una serie come Fallout, che più di ogni altro titolo ha saputo donare all’immaginario post-nucleare un’estetica, un’ironia, una sensazione di plausibilità tanto raffinata da far rabbrividire. Anche nel romanzo di DeLillo compare un episodio che ha a che fare con il rapporto tra uomo, intrattenimento, e distruzione. In una sorta di prototipo di wargame, Gary Harkness viene coinvolto dal suo professore esperto di arte bellica in un gioco che oggi possiamo paragonare a Sid Meier’s Civilization, massima espressione dei videogiochi strategici a turni.

 

apocalisse 6

Un’esplosione nucleare in Fallout 4

 

“E finalmente cominciammo.  Ci vollero solo dodici grandi passi o stadi per completare il gioco, che pure ci vide impegnati per oltre tre ore. Fu la cosa più strana a cui avessi mai preso parte. Ci furono intuizioni, mosse, piccole scoperte che assaporavamo insieme. I silenzi tra una mossa e un’altra erano pieni di gravità. Parlavamo poco e andavamo dritti al sodo. Piccole vittorie personali (di tattica, di immaginazione) furono vera fonte di soddisfazione. Nella mia mente imperversavano immagini mitologiche.”

(Don DeLillo – End Zone)

 

L’epica della distruzione bellica rimbomba con eco mitologica nella mente del protagonista, e fa pensare a quella diAlex DeLarge, invasa dalla musica del grande ‘Ludovico Van’ che lo spingeva alle più efferate violenze. Ma per il protagonista del capolavoro di DeLillo, la guerra resta uno scenario solo ipotetico: infatti, quando gli viene proposto di arruolarsi, risponde così:

 

“Signore, a me interessa solo l’aspetto ipotetico. Non mi piace l’idea di andare oltre. Non mi va di indossare un’uniforme o roba del genere. Non mi va di marciare o visitare basi aeree. Ci sono certi campi, certe sfere, che mi interessano, sì, ma nei quali più di tanto non mi va di addentrarmi. Non mi va affatto di addentrarmi.”

(Don DeLillo – End Zone)

 

Così la guerra, la violenza, la distruzione restano solo ipotetici; prende forma – se vogliamo – l’idea che sia tutta una reazione apotropaica di fronte alla soverchiante paura che l’uomo prova di fronte alla fine, anche quella più totalizzante, la fine del mondo. Un modo per tentare di scacciare il demone dell’annientamento, facendolo nostro.

 

*****

Se ti è piaciuto questo articolo leggi anche: La morte nella letteratura contemporanea – Da Kundera a DeLillo.