Il diario di un viaggiatore sentimentale che smaschera la Cina dai mille volti, con tutte le sue contraddizioni, gli stereotipi e tanta bellezza.

Giorno 1

Siamo in aereo, Roma scompare lentamente dal lunotto. Mosca si avvicina, sarà uno scalo breve, in attesa della Cina, in attesa di arrivare a Shanghai. Le donne all’aeroporto di Mosca sono bellissime, incarnano perfettamente l’ideale di donna, o almeno il mio e quello di F, il mio compagno di viaggio.

F è uno che la sa lunga, conosce il significato di solitudine, è un eterno viaggiatore, per questo è un perfetto partner.

Sul volo Air France Mosca-Shanghai tutto si muove come in una bolla, è l’attesa di una nuova meta, un viaggio di sei ore che sembrano giorni. F ed io siamo circondati da cinesi che torneranno presto in patria. Ci guardiamo intorno, l’hostess si avvicina ad uno di loro, gli chiede in inglese cosa preferisca per cena, lui non capisce; allora l’hostess è costretta a tirare fuori il suo cinese di base. F ed io ci guardiamo, cominciamo a capire che sarà davvero duro comunicare.

 

Giorno 2

Sono quasi le 10, l’aereo sta perdendo quota, siamo vicinissimi a Shanghai.

Guardo F, si risveglia da un breve sonno energetico, siamo euforici.

Atterrati a Shanghai sbrighiamo le pratiche di recupero bagagli e uscendo notiamo un cielo grigio pallido. Il sole sembra timido, fatica ad uscire allo scoperto, è velato da uno strato di inquinamento a cui non siamo abituati.

Ci dirigiamo verso l’ostello e ci ritroviamo nel bel mezzo di una sparatoria di sputi. Ogni cinese calibra lentamente il colpo in canna, lo aggiusta con cura con versi di caricamento grotteschi per poi rilasciare il tutto in un concentrato di muco che si va a stampare contro l’asfalto rovente. Rovente perché sono 26°, ma percepiti sicuramente più di 30°.

L’aria ha un odore diverso a Shanghai, è pesante ed è abbracciata da fumi di zolfo, quasi come in un girone infernale, quasi come a dire: “Siamo la prima potenza al mondo, è questo il prezzo da pagare. Prendere o lasciare”.

È questo il bello dell’Asia, per questo la amo.

Dopo aver lasciato zaino e valigia all’ostello usciamo subito. Siamo stanchi, ma la voglia di provare nuove sensazioni è troppo grande per poter cadere in un sonno profondo. Il problema non è il viaggio in aereo, il problema è che la sera prima della partenza abbiamo dormito solo tre ore, ma un po’ di stanchezza non fermerà i nostri cuori impavidi.

Cerchiamo di orientarci con la metro, non è troppo complessa, per questo raggiungiamo in poco tempo il Financial Center. Enormi palazzi di vetro ci circondano come torri di un castello.

 

 

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Il tempo passa, siamo già all’ora di cena. Guardando a destra incrocio con lo sguardo un piccolo ristorante locale con i muri simili a quelli delle piscine, o a quelli delle saune, quei muri di un celeste pallido consumato dal tempo.

“I ristoranti brutti ma pieni di giovani sono i migliori” dico ad F.

Sa che sono stato in Corea del Sud, si fida ciecamente e risponde di sì. Entriamo.

La signora ci parla in cinese, noi ovviamente non capiamo assolutamente niente. Prendiamo un menù e ordiniamo dei ravioli al vapore. Sembrano buoni e in più li stanno mangiando dei ragazzi alla nostra sinistra. Non capiamo il cinese, ma sembrano soddisfatti.

Neanche il tempo che si raffreddino un po’ e li facciamo scomparire dal piatto. Siamo affamati, il cibo è la miglior cura contro la stanchezza.

Dopo cena rolliamo due sigarette, la cuoca ci guarda interessata, si siede accanto a noi, sorride; probabilmente non ha mai visto una sigaretta artigianale. Siamo a Shanghai, venticinque milioni di abitanti, non vedo l’ora di andare in Sichuan, sarà tutto diverso, sarà più primordiale.

Camminiamo a piedi nella zona del Bund e ogni tre metri veniamo agganciati da donne o uomini che vogliono venderci qualcosa: droga, cellulari, gadget Apple, massaggi, donne e orologi; tutto è in vendita.

Ci guardiamo e ci chiediamo cosa potrebbero risponderci questi individui se chiedessimo un bambino o magari un organo. Probabilmente risponderebbero di aspettare qualche ora.

Prima di tornare all’ostello due ragazze ci fermano. Ci buttiamo in un tete-à-tete stimolante.

Ci chiedono se ci va di bere una birra con loro. Sono circa le 23, siamo stanchi e vogliamo vedere soltanto il letto.

Sembrano due ragazze normali, però oltre alla stanchezza, addosso abbiamo anche un senso di sfiducia verso le ragazze che si aggirano per il Bund. Parlano un buon inglese e questo ci insospettisce. Ci dilettiamo in un quarto d’ora di piacevole conversazione.

Dopo aver salutato le ragazze torniamo all’ostello, ci sdraiamo sul letto e crolliamo come maratoneti spossati dopo un’impresa disumana.

Chissà come sarebbe andata se avessimo accettato di bere quella birra.

 

Giorno 3

Ci siamo svegliati dopo dieci ore di sonno filate. La luce entra dalla tenda, ma è solo una debole proiezione del sole a cui siamo abituati in Europa.

Nella hall un ragazzo si avvicina.

“Italiani?” chiede.

Iniziamo ad interagire con questo nuovo soggetto. Scopriamo che è in viaggio da tre anni, che non torna in Italia da tutto questo tempo. Attualmente vive in Australia, ha un buono stipendio che gli permette di spostarsi molto, soprattutto verso l’amata Asia: ci capiamo subito al volo.

Guardo F in cerca di un suo cenno di assenso per dare una possibilità al ragazzo, per renderlo partecipe di un qualcosa di nostro. Fa sì con il capo. Partiamo.

Facciamo vari cambi con la metro per arrivare nella zona del tempio di Confucio. Guardandoci intorno notiamo che siamo circondati da grattacieli, ma pochi metri più avanti il panorama cambia così velocemente che l’impatto ci colpisce come un pugno allo stomaco. Una distesa di baracche si erge in tutta la sua umiltà davanti ai nostri occhi. Uomini che si lavano i denti per strada, panni stesi ovunque, anche sui marciapiedi, pneumatici a decorare i tetti.

 

 

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Decidiamo di fermarci a fare uno spuntino. Ci sono diverse bancherelle che offrono specialità tipiche. Odori fra i più disparati si inoltrano nelle nostre narici. Vorrei tanto poter descrivere questi odori così come sono, ma neanche tutte le parole del mondo avrebbero lo stesso impatto. Luca, il ragazzo italiano, si ferma per prendere una strana bevanda che, a quello che dice lui, è bevuta tantissimo in oriente. È una specie di latte di riso che può essere servito sia caldo che freddo. Lo assaggiamo. Niente di speciale.

Subito dopo assistiamo a una scena incredibile. Un pesce gatto viene apparentemente liberato e buttato per strada vicino al marciapiede, ma è solo la prima fase del processo definitivo. Il pesce se ne sta lì inerme, e ogni tanto si muove in spasmi alterni; un uomo aspetta il momento giusto, si avvicina lentamente armato di coltello e… zac, primo colpo sferrato.

Il tutto continua per diversi minuti finché il pesce diventa un ammasso di filetti pronti per essere serviti. Una bambina osserva, noi osserviamo e la mia macchina fotografica sta registrando tutto nei minimi dettagli.

Ho deciso di girare un documentario indipendente sulla Cina, sui contrasti che vi sono all’interno, su usi e costumi, ma soprattutto sull’avvento del progresso, sulla spersonalizzazione dell’individuo nella grande città.

Gli uomini si sono inariditi come piante senz’acqua, quasi senza accorgersene si sono rinchiusi in un labirinto senza via d’uscita. Shanghai non potrà andare avanti così all’infinito. Sarà prossima al collasso, nasceranno nuove malattie della pelle, l’inquinamento salirà alle stelle, ma ora cerco di non pensarci; la Cina è anche questo.

Dopo aver girato un po’ il quartiere decidiamo di entrare nel tempio di Confucio.

Per fortuna non incontriamo molti turisti, cosa assai rara.

Verso le 17, dopo aver scrutato e immagazzinato tutto ciò che c’è da vedere, una donna ci dice che inizia la cerimonia del tè.

Ci fa sedere e ci mostra diverse varietà della bevanda. Parla un ottimo inglese, è il frutto di anni di affari; capiamo che ci vorrà vendere qualcosa. Il tutto viene sbrigato con estrema calma. Assaggiamo diversi tipi e alla fine decidiamo di comprare un tè contro il mal di testa: ha vinto lei, ma le abbiamo fatto perdere un bel po’ di tempo.

Mentre torniamo all’ostello, Luca ci racconta alcune delle storie che ha vissuto nei suoi tre anni di viaggio. È stato otto mesi a Bali e cinque a Singapore.

Dai suoi racconti e da alcune immagini mi sono fatto un’idea di come possa essere Singapore.

È carissima, ma è la “città giardino”; questo mi affascina, per ora la metto nel cassetto delle cose da fare e poi chissà, magari proverò anche a lavorarci un giorno.

Luca ha dormito per due settimane in abitacoli surreali, in loculi simili a quelli mortuari; solo che lui era vivo. Ma il prezzo era basso, doveva soffrire, doveva mangiare pane e sangue, combatteva la sua battaglia con tutte le forze. La fatica ha un prezzo, ma l’appagamento successivo sarà sempre così grande da cancellare lacrime e sudore se ne vale davvero la pena.

Tornati in ostello mangiamo degli spiedini di carne per strada – amiamo lo street food – e cerchiamo una banca o un change perché siamo a corto di yuan. Non troviamo niente e Luca se ne esce dicendoci che, partendo alle dieci di sera, non avrà più bisogno dei suoi. Ci cambia un po’ di euro; lo ringraziamo e lo porteremo nel cuore per un bel po’.

Decidiamo di buttarci nella notte profonda di Shanghai.

Un’amica mi ha rivelato una parola magica da dire alla cassa di un locale chiamato Seventh Floor. La parola è Artem e dovrebbe funzionare da apripista, dovrebbe garantirci ingresso e qualche drink gratuito.

“Artem” dice F alla tipa.

Funziona. Ci vengono date due bevute a testa.

Notiamo che è un club frequentato quasi esclusivamente da cinesi, ci rallegriamo: è proprio quello che stiamo cercando.

Dopo poco tempo ci rendiamo conto che le ragazze cinesi stanno quasi tutte a gruppi sedute al tavolo. La maggior parte è ipnotizzata dallo smartphone di ultima generazione, un succhiavita a portata di mano. Molte di loro sono timide o non parlano inglese, nessuna balla; per questo decidiamo di andare da un’altra parte dopo aver consumato entrambe le bevute.

Andiamo in un altro locale, ma non succede niente di eccitante.

Siamo immersi nel buio della notte, fra spettri della Cina che fu, ma l’alba arriverà presto riportando alla luce tutto quello che la Cina è ora. E Shanghai ne è l’emblema: polvere, acciaio, cemento, vetri e clacson impazziti, tutto il necessario per diventare una macchina inarrestabile.

 

Diario di un viaggiatore sentimentale, Lorenzo Borghini, pp. 132, prefazione Umberto Cecchi.

 

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