Paolo Buzzi ci ha donato versi immortali, che la critica sembra spesso relegare in un angolo troppo all'ombra.

Nel campo minato della letteratura il più delle volte è necessario incasellare un autore all’interno di una corrente, al fine di riconoscere appunto un’identità, protesa a conquistare una propria autonomia e accettare poi i legami naturali che interferiscono con la tradizione e/o con i diretti contemporanei. Accade solo in parte con Paolo Buzzi: è vero che è tra i firmatari assieme a Marinetti del Manifesto del Futurismo, è altresì vero che risente della lunga tradizione dei classici greco-latini, abbraccia poi Leopardi e D’Annunzio, senza dimenticare la vena scapigliata del Dossi e la lezione di metodo di Mallarmé. Ad ogni modo l’educazione dalla quale proviene è prima di tutto musicale: suonare il pianoforte durante tutta la vita – sarà compositore di numerosi libretti -, gli conferisce una voce nuova nel panorama poetico del Novecento. La sincerità dell’opera e le leggi interne che regoleranno il suo universo varranno più degli artifici stilistici che adopererà nel verso.

 

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Paolo Buzzi è assieme a Marinetti uno dei firmatari del Manifesto del Futurismo

 

Animato dunque dal desiderio di fondere senso acrobatico e veristico nelle pagine sue più feconde, trova la fuga nell’abile contrappunto tra tensione e purezza, così da disorientare l’intera critica italiana, che messa alle strette, sarà ovviamente affetta da amnesia.

 

Vive una doppia vita e ne è felice: di giorno impeccabile funzionario della provincia milanese, immune alla monotonia asfissiante e agli orari fissi degli uffici pubblici, si prodiga con sapere scientifico e abnegazione ai problemi tipici dell’Italia giolittiana, quali l’assistenza sociale, il ricovero ospedaliero, la lotta usurante per la prevenzione della tubercolosi e della pellagra; di notte scrive poesie e ascolta Schumann, Wagner, Debussy. La materia dei versi cresce, trova spazio e respiro.

 

Paolo Buzzi non vuole appartenere alla schiera degli epigoni, è un ring sul quale combattono testa a testa tentativo e dissoluzione. La prima persona plurale che adopera nel Canto dei reclusi è un’operazione ambiziosa, pavimenta con potenza e precisione tutta la superficie del mondo, affinché non si esaurisca mai e rimanga sempre mutevole e indefinita. Canta i monaci chiusi nelle celle, le prostitute che di giorno ricamano silenziose e di notte “nude in mezzo agli uomini”, i soldati nelle caserme che seppur fremano per imbracciare un fucile, hanno troppa paura di fare la fame; canta i malati che guardano dalla finestra gli alberi d’autunno che “ci fan pena più delle nostre pene”, canta i prigionieri che non hanno colpa e chiedono la pena di morte, pur di non marcire in un quadrato di terra, canta i matti che in cielo avranno la loro rivincita perché “le leggi savie saranno quelle che detteremo noi!”, e infine i morti: “noi siamo i più reclusi dei reclusi, noi”.

 

Paolo Buzzi 2

Paolo Buzzi non vuole appartenere alla schiera degli epigoni

 

Paolo Buzzi scevro da ogni campanilismo, fotografa l’uomo e il suo spirito, interpreta la geografia dei volti, ne esalta le poderose torsioni, le avvolge in una spirale commovente, dove il cuore batte sempre se non arretra mai.  Il poeta in Zingaro si fa ambasciatore del sogno: la voglia improvvisa di mordere l’origine e sbucciarne il senso lo intimorisce a tal punto da ricordare di essere un sopraffino voyeur, dimostrando quanto un verso possa estraniarci per intere giornate:

 

“sono un poverissimo figlio di civili / che adora la barbarie”.

 

La prima delle diciannove sinfonie all’interno de il Poema dei quarant’anni scritto nel 1922, è un affresco tragicomico dove il ciglio perentorio indossa un cappello variopinto e mette un naso rosso, pare proprio un’ala sconnessa di Stanlio e Ollio:

 

“Un vaso di cristallo, ecco, / mi cadeva infranto dinnanzi / e mi scheggiava la fronte. / Imbelle ed innocente, innanzi sera / ero, sovente, coperto di ferite e sevizie / come un guerriero od un martire piccino”.

 

A volte mi domando se vale la pena innamorarsi di scritture che hanno il colore di una pesca, che ti spingono nel letto in pieno giorno, così accade con Il canto della filandiera, in cui l’eleganza di una donna non si misura nell’abito ma nel portamento del sudore in “questo filar dei fili senza termine mai”, eroina inquieta che mortifica il costume vegano per una fratellanza muta e cristallina: “ogni vitello è il fratellino mio: che pianti / quando gli altri lo vendono! E non mangerò / mai carne bianca /  divenissi padrona!”. Prima di essere poesia come denuncia sociale, è uno spettacolo sensuale di corpi bollenti che sfibra ogni tentativo taylorista, che gonfia il petto e sfronda ogni paura dell’avvenire, una ricerca luminosa che moltiplica le lacrime quando si legge:

 

“Io canto / come il Poeta mio. / V’è un Poeta che mi guarda, sì, sì, mi guarda: / ogni sera, quando esco dall’inferno / e torno alla mia cuccia di cagna “

 

Il peccato originale, questa magnifica demenza che vale più di qualsiasi conteggio, si rivela nello sguardo: “Se non è ricco, pare. Ha gli occhi di frutto. Ieri / m’ha detto, a curvo d’un sentiero: <<Bella tu, non morire!>>”, per poi stendersi a terra a braccia aperte e immaginare che una donna possa pensare questo di te: “Non ho mai mangiato un dolce in vita mia”. Esistere, nel ricordo del poeta, determina la liberazione della donna dalle battute sempre più frenetiche del lavoro industriale, vicina è la tessitrice del Pascoli: “Se tesso, tesso per te soltanto”, ma con piglio anarchico, una Penelope dal basso, che schiude i suoi petali quando il gambo sembra già reciso.

 

Paolo Buzzi 3

Se tesso, tesso per te soltanto

 

Forma chiusa e verso libero, vitalismo e oscurità, pubblico e privato: nessun elemento esclude in maniera definitiva l’altro, questo fa comprendere la sensibilità ampia di un poeta che riesce a cogliere la varietà dei temi, senza che la monotonia della vita possa interferire bruscamente. Il premio lo riceverà in alta quota, come se fosse uno dei suoi adorati aeroplani, veloce ma fragile, non curandosi mai del carburante. Attraverso i suoi componimenti, Paolo Buzzi – gentiluomo grottesco – sottrae alla ragione il mito dello smarrimento, come un Icaro spiantato, freme al momento di aggiungere una fetta terrena ai suoi futuri miraggi, precipitando:

 

“cinquenne, / da una mura di metri molti / per troppo adorar la curva delle montagne / e mirarle trasfigurare, come dipinte azzurre su cartine”.

 

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