Nello scenario della Letteratura del secolo, Hermann Hesse è una figura possente quanto difficile da interpretare. Il suo romanzo Il lupo della steppa, in parte autobiografico, offre una chiave per provare a decifrarla.

Correva l’anno 1947 quando Hermann Hesse fu insignito del premio Nobel per la letteratura (dato a sorpresa a Bob Dylan l’anno scorso), riconoscimento piuttosto tardivo per il ruolo non convenzionale che rivestì un vero e proprio maestro letterario. Maestro letterario quanto personaggio scomodo. Il poliedrico autore tedesco era stato già in gioventù oggetto di un’accesa diatriba nata intorno ad alcune sue lettere schierate contro la prima guerra mondiale, fino all’essere vittima, sotto il regime nazista, di violenti attacchi politici (in quanto aperto difensore dei diritti degli scrittori ebrei). Del resto la figura di Hesse fu sempre vista dalla fetta più reazionaria degli intellettuali di casta con palese sospetto, ridotta a quella di un nemico del consumismo alternativo ad ogni costo, stereotipo al quale Hesse fu purtroppo sminuito a lungo anche dopo la sua morte.

 

In effetti l’esistenzialismo di Hermann Hesse si discosta notevolmente da quello di altri autori suoi contemporanei come Camus, Cioran o lo stesso Sartre. La maggior parte dei personaggi che ricorrono nei romanzi di Hesse, come del resto i lettori ai quali capita – non in maniera del tutto casuale – di risfogliare sue pagine già lette fino allo sfinimento, credono di aver smarrito qualcosa lungo la loro strada. E sebbene la massima dei vagabondi (simil)buddhisti di Kerouac che più mi è rimasta impressa asserisca che nulla può andare smarrito su un sentiero ben tracciato, poco importa, perché il Novecento tutt’altro fu che un sentiero definito, al più una strada tortuosa lungo la quale l’uomo comune si trovò timoroso e straniato a chiedere un passaggio.

 

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Hermann Hesse (Calw, 2 luglio 1877 – Montagnola, 9 agosto 1962)

 

Questi tòpoi ricorrenti nei lavori di Hesse trovano occasione di sfoggio nel suo romanzo più visionario, Il lupo della steppa. Bastano poche pagine del tomo snello ed impolverato per visualizzare come, per quanto ne condivida alcune tematiche, il romanzo è diverso dal resto della vasta produzione dell’autore. Il Lupo della steppa ha poco a che vedere con il messaggio universale di Siddhartha, la prosa distesa e la saggezza fiabesca che pervadono Narciso e Boccadoro, ed è tantomeno equiparabile alla prospettiva matura del Giuoco delle perle di vetro, capolavoro d’età “tarda”.

 

Il lupo della steppa è un romanzo autobiografico sperimentale, è Hesse messo a nudo, scomposto e ricomposto nel fantasma di Harry Haller, che non ne condivide meramente le iniziali. Il protagonista è un fantoccio usato dallo scrittore come una cavia creata a sua immagine e somiglianza, studiata con minuzia scientifica; ogni foglia che cade nell’autunno della vita di Harry Haller è descritta dal narratore nei suoi minimi dettagli, non a caso in prima persona.

 

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Il lupo della steppa è un romanzo autobiografico sperimentale, è Hermann Hesse messo a nudo

 

Il romanzo mette in luce i paradossi di una classe borghese in bilico tra la ricerca del piacere e i sogni di santità, nella quale si erge il Lupo, figlio bastardo della borghesia stessa. Harry Haller non riesce ad allontanarsi da questa madre, dalle sue usanze malsane e contraddittorie, ma al tempo stesso la odia, odiando la vita e togliendosene i presupposti. Le anomalie strutturali e contenutistiche sono disturbanti per il lettore, finché un finale, preso singolarmente ancora più straniante, fa sì che tutte le stravaganze concepite da un animo burrascoso si completino vicendevolmente nella chiusura di un cerchio che risulta poi effettivamente essere armonioso nelle sue curve che parevano tanto brusche.

 

È anomalo, tanto per cominciare, l’espediente letterario tramite il quale un ipotetico curatore esterno raccoglie le memorie tormentate che il Lupo aveva espresso nella Dissertazione del lupo della steppa. Non è un caso che siano stati pochi i registi che abbiano provato a cimentarsi in una azzardata trasposizione cinematografica, e il tentativo di Fred Haines risalente al 1974 fu concepito in un’epoca in cui gli effetti cinematografici non potevano competere con la psichedelia di alcuni passi del romanzo. Harry Haller è un uomo polveroso ed ermetico, la cui enigmaticità non manca di destare i sospetti del nipote della vecchia donna di cui il Lupo è affittuario. Proprio questi è la voce iniziale del romanzo, che l’autore delega a raccogliere il manoscritto dell’inquilino ombroso, al quale adduce le proprie considerazioni personali relative ai pochi e per lo più insignificanti incontri con il Lupo.

 

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Fred Haines ha diretto una versione cinematografica del libro nel 1974

 

La vicenda del romanzo è immersa in un simbolismo non comune, spogliato dell’aura mistica che avvolge questo procedimento letterario fin dalla sua nascita in Francia, nel quale dettagli e miniature come la pianta d’araucaria sulle scale della palazzina spezzano il grigio in cui Harry Haller soffoca le sue giornate. L’alcol, i sigari e le letture di Nietzsche, del quale il Lupo, nelle vesti di intellettuale e studioso, è molto esperto. Sono queste le lenti tramite le quali Harry Haller pretende di farsi riempire gli occhi da sprazzi di Dio. Ma questi sparuti contatti metafisici si alternano con la consapevolezza che i mezzi offerti dalla vita per vedere tracce di Dio nella musica e nella poesia sono in sé stessi miserabili; il Lupo deve accettare che le puntine di megafono sono l’unico mezzo in grado di veicolare la musica di Wagner.

 

Il punto di svolta esistenziale dei pochi giorni – per come Hermann Hesse vorrebbe farcelo intendere anche della vita intera – raccontati dalla controfigura dell’autore è l’incontro con Hermine (femminile di Hermann per caso?) ed il vortice di avvenimenti che ne conseguono. Dal quale, pur senza snaturarsi, l’intreccio prende una piega sempre più jazz; questa svolta rende umanamente universale quella che sarebbe solo la storia di un intellettuale solitario agli albori della vecchiaia.

 

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Il protagonista si ritrova sullo sfondo cervellotico di una sorta di teatro magico

 

 La conclusione alla quale giunge una storia che piuttosto che sulla ragionevolezza di una prosa piana si basa su svolte repentine ostili a un lettore sprovveduto, è affidata alla figura di un personaggio secondario, il sassofonista Pablo. Infatti proprio sotto gli effetti di una “sigaretta colorata” offerta da quest’ultimo, il protagonista si ritrova, sullo sfondo cervellotico di una sorta di teatro magico, posto di fronte ai suoi fantasmi, che vestono le sembianze multiformi della sua controfigura femminile Hermine, di Göthe o di Wagner. È così che il Lupo scopre che per sopravvivere nella sua steppa desolata deve accettare la folle soluzione dell’ironia, mettersi davanti ad uno specchio e ridere della piccolezza delle sue gioie e preoccupazioni ed elevarsi, per sogghignare della miseria umana. Questa verità è scomoda, persino per un fedelissimo di Hermann Hesse. Forse, proprio come campeggia sopra il portone del teatro nel romanzouna verità solo per pazzi.

 

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