Venti anni fa la scomparsa del grande compositore e interprete americano.

 

“La Luna chiede di restare,

abbastanza a lungo

da farmi portar via

in volo dalle nuvole.

Sta arrivando la mia ora

E non ho paura di morire.

La mia voce si dissolve,

cantando l’amore.

Ma lei piange scandendo lo scorrere del tempo.

Attendi nel fuoco, attendi nel fuoco.

E lei piange sul mio braccio

Camminando per le chiare luci nel dolore

Oh bevi un po’ di vino, che entrambi potremmo andare domani

 amore mio

E la pioggia scende e credo sia venuto il mio tempo

Mi ricorda il dolore che potrei lasciare, lasciare alle spalle

Attendi nel fuoco, attendi nel fuoco

E li sento soffocare il mio nome

Così facile capire e dimenticare con questo bacio

Non ho paura di andare ma va così piano

Attendi nel fuoco, attendi nel fuoco”

 

Questo è il testo di Grace e non ha bisogno di tante presentazioni.

E’ la canzone, l’unica che per voce e intensità ci riporta in una galassia indefinita che ha ben poco di terreno e che ci trascina nella lontanissima quanto rara perfezione musicale. E non è solo questo, è anche uno scrigno dov’è racchiusa la profezia di Jeff Buckley, che morì a 30 anni in quel 29 maggio 1997, esattamente 20 anni fa, annegato per un tragico, misterioso incidente in un affluente del Mississipi a Memphis.

 

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Jeff Buckley annegò in un tragico, misterioso incidente in un affluente del Mississipi a Memphis

 

Jeff stava per iniziare le registrazioni del nuovo disco, dopo il successo del suo primo album Grace. Il resto della band stava atterrando a Memphis poco lontano da lui, avrebbero dovuto incontrarsi il giorno successivo per lavorare al nuovo materiale. Chissà per quale strano motivo, aveva voglia di rilassarsi un po’ e fare una nuotata e così, con l’amico Keith Foti, suo roodie ufficiale, si reca su una spiaggetta del Wolf River Harbo, entra in acqua completamente vestito, cantando Whole Lotta Love dei Led Zeppelin e si getta in un’onda. Non riaffiorerà mai più. Ritroveranno il suo corpo solo il 4 giugno. Morte accidentale, recita l’autopsia, niente droghe e niente alcol nel sangue. Jeff, semplicemente, è morto affogato.

 

Cos’è stato a strascinarlo via, in quella sera di primavera, non lo sapremo mai. Sicuramente però ci ha lasciato in consegna la sua breve, intensa storia, che non può non essere raccontata.

 

Jeff Scott Buckley nasce il 17 novembre del 1966 ad Anaheim ad Orange County in California, unico figlio del leggendario cantante e cantautore folk Tim Buckley e della violoncellista Mary Guibert. Ancora prima della nascita del figlio Tim Buckley abbandona la moglie per cercare fortuna a  New York, terra promessa di molti artisti nella fine degli anni Sessanta.

 

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Jeff Buckley era figlio di Tim, leggenda del folk

 

L’abbandono e la lontananza dal padre, che riuscì a vedere solo un paio di volte nella sua vita, provocano in lui una frattura forte che sarà presente costantemente nella sua produzione musicale; rivide il suo padre naturale a Pasqua del 1975 prima che Tim, ancora giovanissimo, morisse per overdose il 29 giugno dello stesso anno.

Jeff cresce con la madre e il patrigno, RonMoorhead, figura importante per la sua formazione musicale. Durante l’infanzia e l’adolescenza fu circondato infatti dalla musica della madre (pianista e violoncellista classica) e dal gusto musicale del patrigno che lo introdusse all’ascolto di artisti quali Led Zeppelin, Queen, Jimi Hendrix (di cui abbiamo parlato riguardo al 50° di Are You Experienced?), The Who, e Pink Floyd.

 

Intorno all’età di cinque anni inizia a suonare la chitarra acustica e a 13 la sua prima chitarra elettrica. Decide quindi di seguire questa sua propensione artistica, geneticamente presente in famiglia suonando nella jazz band della Loara High School, appassionandosi al progressive rock e a band come i Rush, i Genesis, gli Yes.

 

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Jeff Buckley inizia a suonare la chitarra acustica a 5 anni e a 13 la sua prima chitarra elettrica

 

Nel 1985 lascia il paese natale per andare a vivere da solo a Hollywood, iscrivendosi al Guitar Institute of Technology di Los Angeles  e completando il corso di studi della durata di un anno. Nel frattempo suona con alcune band come gli Shinehead, i Kilgore Trout, i Rainbow’s End, i Group Therapy.

Il punto di svolta arriva con l’invito ad esibirsi a New York al concerto tributo a suo padre, Greetings from Tim Buckley: è il suo debutto pubblico, è il momento in cui far pace in qualche modo con la sua assenza e in cui salutarlo definitivamente.

 

L’evento, organizzato da HalWillner, ha luogo nella chiesa di St. Ann di Brooklyn il 26 aprile 1991. Accompagnato dal chitarrista Gary Lucas, Buckley suonò I Never Asked To Be Your Mountain, un brano del padre, dedicato originariamente proprio a lui e alla moglie. Jeff Buckley interpreta inoltre SefroniaThe King’s Chain, Phantasmagoria in Two e concluse con Once I Was, cantando il finale a cappella a causa della rottura di una corda della chitarra. La rabbia, l’energia, l’eredità del padre inconsapevolmente acquisita confluiscono tutte in una performance da brividi che lascia il pubblico a bocca aperta. Nessuno si sarebbe potuto aspettare una voce e una interpretazione di così alto livello. In una staffetta sconclusionata, in una distanza di tempo, di generi e di formazione, le strade di Tim e Jeff si sono incrociate proprio in quel momento ed è lì che Jeff capisce quale strada seguire.

 

 

Il concerto quindi si rivela decisivo. Nei seguenti viaggi a New York, inizia a comporre insieme allo stesso Gary Lucas diversi brani, tra cui Grace e Mojo Pin, e sul finire del 1991 inizia a suonare nella band di questo, i Gods and Monsters. Decide di trasferirsi definitivamente a New York, città che da sempre adorava, per vivere nella Lower East Side. Bussa alle porte di ogni piccolo club per esibirsi  da solista e trova nel pub irlandese Sin-è la sua dimensione ideale.

Debutta qui nell’Aprile del 1992 e da quel giorno continua ad esibirsi regolarmente ogni lunedì. Il suo repertorio spaziava dal folk al rock, dall’R&B al blues e al jazz. Si appassiona a cantanti come Nina Simone, Billie Holiday, Van Morrison. Suona cover di Led Zeppelin, Bob Dylan, Elton John, The Smiths, Leonard Cohen, Robert Johnson.

 

Interpretava anche i suoi brani appena scritti con Lucas e così si fece notare da diversi manager di case discografiche tra cui Clive Davis. Nell’estate del 1992, fu contattato dalla Columbia Records, con cui firma il contratto in ottobre.

Nell’agosto del 1993 viene registrato Live at Sin-é, il suo primo EP ufficiale, con solo 4 canzoni, due dei quali sono cover, una di Edith Piaf e l’altra di Van Morrison, e due suoi pezzi, Mojo Pin ed Eternal Life. Per promuovere il disco Jeff e la sua band partono per una tournée nel Nord America e in Europa.

 

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Jeff Buckley debuttò al Sin-è

 

Jeff si trova davanti alla sua prima vera sfida, catturare nel primo disco tutta la furiosa creatività di quegli anni. Per le registrazioni iniziate nel settembre del 1993 viene scelto il Bearsville Recording Studio a Woodstock a poche centinaia di metri dal luogo simbolico per eccellenza del rock. Jeff canta e suona tutti gli strumenti tranne il basso, affidato a Mick Grondhal, e la batteria dietro cui siede Matt Johnson. A produrre l’album è chiamato Andy Wallace, già produttore di Nevermind dei Nirvana e i dischi di Slayer, Sepultura e White Zombie.

Dopo meno di tre settimane, una prima versione del disco era già pronta, ma a quel punto Jeff Buckley si rese conto di aver raggiunto una maggiore sintonia con i musicisti e, non soddisfatto del proprio lavoro, volle continuare la lavorazione del disco.

 

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Jeff Buckley in studio

 

La casa discografica evita pressioni dando spazio e tempo all’artista di raggiungere lo scopo desiderato, la realizzazione del disco si rivela così molto più lunga e costosa del previsto.

La pubblicazione dell’album, inizialmente prevista per il gennaio 1994, fu rimandata più volte prima di essere definitivamente fissata per la fine di agosto dello stesso anno. Il ritardo di lavorazione era legato soprattutto alle difficoltà compositive dello stesso Buckley, il quale supera definitivamente il blocco solo a seguito del dolore per la morte del padre della compagna, l’attrice e musicista americana Rebecca Moore.

 

La complicata relazione con l’attrice riveste un ruolo importante nelle tematiche e nei contenuti del disco: è attorno a lei che ruotano molte delle canzoni di Grace, tra le quali la titletrack e Last Goodbye, brano dedicato alla loro dolorosa separazione.

Grace si rivela un disco inattaccabile, un classico fuori dalle mode che unisce arrangiamenti eleganti, a volte sinfonici, in bilico tra folk e rock, pop e soul. A Jeff interessava poco quello che musicalmente stava accadendo attorno a lui, seguendo la sua strada con la risolutezza che solo i grandi hanno.

 

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La complicata relazione con Rebecca Moore giocò un ruolo fondamentale nella stesura di Grace, l’esordio di Jeff Buckley

 

I dieci brani sono un intreccio di emozioni, rabbia, dolore e grinta, a partire dalla traccia di apertura Mojo pin e il suo urlo d’amore soffocato (Don’t wanna weep for you / don’t wanna know / I’m blind and tortured, the white horses flow). Il pezzo si presenta come un gospel solitario, il lamento per la perdita del suo unico amore, che si trasforma in una distorta lotta con i propri demoni. Segue la titletrack, Grace, dove la voce di Buckley arriva in territori che il rock aveva solo intravisto. E c’è ancora quella attesa angosciosa di una morte che incombe, che è dietro le spalle (i’m not afraid/ afraid to die).

 

Last Goodbye potrebbe sembrare il brano più radiofonico dell’album, se la sua voce non lo elevasse dal banale terreno pop. In realtà però anche in questa si nasconde una dichiarazione di libertà musicale, non rispetta infatti il classico schema strofa-ritornello-strofa, fluendo libera, senza costrizioni.

Segue Liliac Wineil pezzo jazzato di James Shelton, originariamente cantata da Elkie Brooks. E’ qui chiaramente ispirata a quella resa famosa da Nina Simone : un pezzo dall’intensità enorme, forte e delicato al tempo stesso nella sua carica emotiva.

 

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Grace è un classico fuori da tutte le mode

 

Con So Real si cambia registro, in questo pezzo l’artista mette a nudo le sue paure che si materializzano nella chitarra distorta in un assolo noise che domina il brano. Arriviamo così ad uno dei capisaldi di questo disco, esattamente a metà della sua corsa. Hallelujah, canzone tra le più ricordate ed amate, scritta da Leonard Cohen, uno dei rari casi in cui la cover supera in bellezza l’originale.

Dopo lo stato mistico arriva Lover, YouShould’ve Come Over,il momento struggente dell’album, una ballata ispirata da un amore che non c’è più, tanto semplice quanto intensa (It’s never over / she’s the tear that hangs inside my soul forever).

 

Corpus Christi Carol, la terza cover dell’album, di Benjamin Britten, introduce agli episodi finali del disco. Un canto sacro che anche sia nel titolo che nei versi riecheggia atmosfere medioevali e religiose. Non c’è genere che Jeff Buckley non riesca a gestire con la sua grazia infinita.

L’energia rock è finalmente libera di fluire con Eternal Life, in cui esplode la rabbia , le urla melodiose di Jeff Buckley cantano:

 

Racist everyman, what have you done / Man, you’ve made a killer of your unborn son.

 

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Non c’è genere che Jeff Buckley non riesca a gestire con la sua grazia infinita

 

E infine Dreams Brother, quasi una missiva al padre Tim, una risposta alla Dream Letter, la canzone-messaggio lasciatagli dal genitore. E’ la chiusura perfetta del cerchio, lì dove tutto iniziò e dove Grace finisce. L’atmosfera evocatrice del pezzo si risolve in quel “Non essere colui che mi rese così vecchio, non essere come chi ci ha lasciato dietro il suo nome”: ancora una volta la musica è sua alleata, un luogo perfetto per affrontare le paure, le assenze, la malinconia.

Un verso che rivela quale profonda tristezza Jeff provasse ancora a causa dell’abbandono del padre e dell’impossibilità, data la sua giovane morte, di fare i conti col suo nome e la sua eredità, artistica ed umana.

 

Il successo di critica ottenuto dal disco fu enorme,  molte riviste specializzate inserirono l’album tra i migliori del 1994. Il paese in cui Grace ha riscosso il maggior successo commerciale è l’Australia, dove è riuscito a raggiungere la top 10.  In Francia invece l’album ha ottenuto nel 2000 la certificazione di doppio disco d’oro. Lo stesso David Bowie in un’intervista per Village Voice, definì Grace come uno dei dieci dischi che avrebbe voluto portare con sé su un’isola deserta.

 

 

Buckley trascorse gran parte dell’anno seguente suonando in tour per molti Paesi, dall’Australia al Regno Unito all’Irlanda, per poi toccare la Scandinavia e in settembre la Germania. La serie di concerti europea finì il 22 settembre a Parigi, e il tour ebbe termine il 24 settembre con un concerto a New York. Il 19 ottobre iniziò un tour in Canada e Stati Uniti, che toccò sia la East Coast che la West Coast, oltre agli Stati centrali, e finì a dicembre nel New Jersey.

 

Dopo un mese di sosta, partì per un secondo tour europeo, iniziando da Dublino, per passare poi da Londra, Parigi e infine spostandosi in Giappone.

Terminati i tour, Jeff iniziò a comporre diversi brani per un nuovo album. Aveva nel frattempo collaborato con Patti Smith per l’album Gone Again e aveva incontrato Tom Verlaine, esprimendogli il desiderio di poter produrre il suo nuovo disco. Iniziarono insieme a metà 1996 le prime registrazioni in uno studio a Manhattan.

 

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Dopo i tour Jeff cominciò le registrazioni per il nuovo album

 

Una nuova sessione di registrazione fu ripetuta agli inizi del 1997, ma fu accantonata perché né lui né la band la trovarono abbastanza soddisfacente. Buckley decise quindi che le sessioni sarebbero proseguite agli Easley McCain Recording di Memphis, come suggeritogli dall’amico Dave Shouse dei Grifters.

Dal 12 febbraio al 26 maggio 1997, suonò nel Barristers’, un bar di Memphis, sperimentando in anteprima i brani inediti. Dopo nuove registrazioni con scarsi risultati, licenziò Verlaine da produttore, reingaggiando Andy Wallace. Registrò altre versioni dei brani completati, inviando i nastri a New York alla band, che li ascoltò con grande entusiasmo. Invitò quindi la band a raggiungerlo a Memphis per le sessioni del 29 maggio.

Il destino non li avrebbe mai più fatti incontrare.

 

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Anche David Bowie era un fan di Grace

 

Sono centinaia gli abbozzi, le piccole registrazioni fatte in casa, una mole impressionate di materiale che sarebbe dovuto andare a comporre il successore di Grace, quel My Sweetheart the Drunk, che uscì solo postumo, curato da Chris Cornell. Un capolavoro non finito e quindi ancora più spontaneo, in cui Buckley, come sempre, avrebbe rimesso tutto in gioco.

 

Peccato. Peccato per tutto quello che avrebbe potuto essere il suo genio e la sua sensibilità musicale e non è stato. Quello che di nuovo ci avrebbe potuto lasciare Jeff Buckley, se l’è portato con se nel profondo degli abissi.

E non c’è niente di più prezioso di ciò che desideri, ma non  puoi più avere o ascoltare.

 

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