La vittoria del NO al recente referendum scozzese. Le opinioni di alcuni famosi economisti a proposito delle possibili conseguenze di un indipendentismo.

I risultati del tanto atteso referendum scozzese hanno sancito la continuazione del legame con gli inglesi; enorme è stata l’affluenza alle urne dal parte del popolo scozzese ( 85%), che ha quindi deciso di non alterare lo status quo. Riporto per dovere di cronaca le percentuali totali del referendum.

Referendum Scozia

L’iniziale entusiasmo da parte del popolo scozzese per la propria indipendenza è stato quindi sopraffatto dal timore di non avere le sufficienti risorse per rendersi autosufficienti economicamente. Ciò ha portato a conservare il legame con la corona, con il Premier Cameron che ha promesso ulteriori concessioni al popolo scozzese, accentuando quel processo di “devolution” che è in atto fin dagli albori. Particolarmente rilevante sarà la risoluzione del lodo West Lothian, che permetterà ai deputati scozzesi a Westminster di votare anche su questioni che riguardano l’Inghilterra, nonché un maggiore sostegno finanziario per risollevare il tanto discusso sistema di welfare state, attualmente considerato decisamente inefficiente. Determinanti al fine del risultato sono stati i voti contrari alla scissione ottenuti ad Edinburgo (63%), in cui gli elettori hanno voluto evitare cambiamenti drastici.

Il verdetto ha portato alle dimissioni del primo ministro scozzese Salmon, che tanto aveva puntato su questa separazione, e a innumerevoli scontri tra separatisti e unionisti in quel di Glasgow. Scontri che hanno mostrato come la questione fosse sentita e che evidenziano come questo evento possa essere solo il preludio di una lunga stagione di richieste di emancipazione in Europa; basti pensare al 9 novembre, data in cui la Catalogna sarà chiamata ad esprimersi sulla possibilità di una separazione dalla Spagna, fermo restando che tale referendum non avrà valore all’atto pratico dato che non è previsto dalla Costituzione. Si tratterà comunque di un importante segnale sul futuro della regione che, ricordiamolo, produce gran parte del Pil nazionale ed è da sempre portatrice di rivendicazioni indipendentiste.

Tornando alla questione scozzese, nell’ultimo articolo non mi ero esposto se appoggiare i favorevoli all’indipendenza o i  contrari ma, dopo aver consultato varie fonti e pareri di economisti autorevoli, una convinzione forte me la sono fatta: per la Scozia questo risultato è stato forse il migliore possibile. Dopo una attenta riflessione ho considerato particolarmente esaurienti i pareri rilasciati dagli esimi  John McLaren, David Bell e  Roger Cook alla BBC. Nel corso dell’intervista vengono prese in considerazione le conseguenze economiche di una secessione, sia per la Scozia  che per l’Inghilterra.

Limitandomi a riportare la prima parte dell’intervista, relativa al versante scozzese, gli studiosi hanno risposto a questi 5 interessanti quesiti:

  • In caso di indipendenza, le finanze scozzesi nelle previsioni del biennio 2016-2017 saranno migliori che restando sotto l’ala protettrice della corona?
  • Attraverso l’indipendenza si otterrebbe una drastica riduzione del debito pubblico attraverso la creazione di un fondo salva-petrolio?
  • Gli indipendendisti hanno lamentato una enorme crescita del deficit fiscale tra il biennio 2008-2009 e quello 2012-2013, corrispondente a 8,3 bilioni . E’ una stima realistica?
  • Una Scozia indipendente potrebbe davvero ottenere un aumento di entrate fiscali per il biennio 2029-2030 di circa 2,4 bilioni, a fronte di una prevista crescita della produzione dello 0,3%?
  • Una crescita del 3,3% nel tasso di occupazione porterebbe la Scozia al livello dei 5 paesi più produttivi della OECD e potrebbe ciò far crescere i redditi di circa 1,3 bilioni l’anno, per il biennio 2029-2030?

Le 5 risposte ottenute  sono accomunate da una singola parola: ”incertezza”. Secondo gli studiosi il futuro della Scozia indipendentista sarebbe stato più incerto che mai; si afferma, in particolare, che le inevitabili fughe di conti correnti verso l’estero avrebbero costretto il governo a creare un fondo salva-petrolio che nel breve termine avrebbe aumentato esponenzialmente il debito pubblico, il quale sarebbe colmabile solamente ottenendo una differenza positiva tra i tassi di interessi sul debito pagati e ricevuti. Condizione molto difficile da raggiungere, al quale va aggiunta l’irrealistica ipotesi che attraverso un aumento della produzione dello 0,3% si possa ottenere un aumento di entrate fiscali di circa 2,4 bilioni; il parere degli studiosi è che per perseguire un tale incremento sarebbe necessario approntare nel medio termine adeguate politiche pubbliche, e che non vi sia nessuna certezza che l’SNP sia in grado di offrire un riformismo migliore di quello offerto dai laburisti inglesi. Infine, altrettanto ottimistica viene considerata la previsione di un aumento del 3,3% del tasso di occupazione; ciò sarebbe possibile solo attraverso massicci investimenti per la creazione di nuovi posti di lavoro, cosa anche questa difficilmente sostenibile dato il prevedibile aumento nel breve-medio periodo del debito pubblico. Insomma, una analisi intrisa di pessimismo; nulla è certo, ma l’analisi dei luminari dà un quadro secondo me esauriente, secondo il quale le conseguenze per la Scozia sarebbero forse state peggiori che nel mantenere il legame con la corona britannica.

Il referendum scozzese ha comunque possibilità di  lasciare il segno nel futuro immediato. Per ora possiamo solo aspettare e vedere, consci che vi sono innumerevoli realtà (Fiandre, Corsica, Paesi Baschi, ecc.) che non aspettano altro che l’occasione propizia per far sentire la propria voce. Il referendum consultivo catalano del  9 novembre potrebbe accentuare ulteriormente questa volontà di cambiamento, che l’evento scozzese potrebbe aver reso manifesta e non più latente.