Abbiamo interrogato Ken Kalfus sulla condizione attuale dell'America.

 

“In Disorder, I hoped to express a distinctive feature of contemporary times: public, current history has become indistinguishable from our personal lives.

It’s in our thoughts, it’s in our dreams.”

Ken Kalfus

 

“Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo.”

W. Nietzsche

 

“Perdoniamo ai fatti la loro mediocrità” scriveva N. Gómes Dávila, e ringraziamo chi ce li racconta in modo sapiente, costruendo un’architettura stabile su terreno fragile. Questa persona si chiama Ken Kalfus ed è un giornalista e scrittore americano, nato a New York nel 1954, cresciuto a Plainview, Long Island, e attualmente cittadino di Philadelphia.

 

Uno stato particolare di disordine, nominato al National Book Award del 2006 – premio che poi però vinse Il fabbricante di eco di William Powers – racconta una storia semplice, in fondo, una vicenda privata messa a confronto con l’universo pubblico. Un’opera che contiene i frammenti di un disagio contemporaneo: è la storia dei contraccolpi finali di una coppia newyorkese – due persone che si amavano ma che non si amano più – è il racconto delle nostre vite quotidiane, il romanzo di un’America alle prese con un individualismo smisurato. In queste esistenze che si fanno la guerra si rispecchia non solo la situazione deflagrante dell’11 settembre del 2001, ma si colgono anche le risonanze dei conflitti odierni.

 

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Nel romanzo di Ken Kalfus si rispecchia non solo la situazione deflagrante dell’11 settembre del 2001, ma si colgono anche le risonanze dei conflitti odierni

 

Il Los Angeles Times ha sottolineato che «attraverso il rimescolamento delle trame del pubblico e del privato e tramite il suo approccio satirico, Ken Kalfus ha una missione evidente: liberare il nostro modo di pensare l’11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo da uno stampo precostruito».

 

È il settembre del 2001, come si diceva, e se non il mondo intero, per lo meno il World Trade Center e con esso la città di New York e l’America tutta sono in rotta di collisione. Considerate e valutate minuziosamente il contesto e in seguito provate a trasferire in piccola scala una tragedia del genere. Se ci riuscite viene fuori un libro come questo, fondato su un paragone ben impostato tra situazioni differenti ma, a conti fatti, per niente distanti. L’autore prova, e riesce, nell’impresa: fare qualcosa di diverso rispetto a ciò che durante quei giorni sciagurati hanno fatto i media, tenta di considerare la sfumatura, di rintracciare l’essenza quotidiana, il banale ordinario oltre la tragedia cosmica. Ken Kalfus – mentre tutti, a ragione, erano presi dalla conta dei morti e dei sopravvissuti – prova a considerare le vite.

 

Relazioni amorose di quelli che restano – perché si può sfuggire alla morte, ma alla quotidianità non si sfugge, è una prigionia compromettente – di chi non è stato direttamente toccato dalla sciagura e che dunque continua, con i problemi di prima, che non hanno di certo subito alcun default a seguito di quanto è stato. Il difetto di certe difficoltà è che resistono a lungo, si abissano per poco ma riemergono in fretta, fino a quando non intervengono soluzioni apposite. È un po’ come propugnare l’idea che la vita va avanti e che irrimediabilmente deve essere così. È una costante che spesso ci sfugge: il quotidiano seppur noioso è il rifugio più sicuro, un dolce giaciglio, «una fragile, luccicante tela di ragno» (Ken Kalfus, Uno stato particolare di disordine), la promessa di una sicurezza in casi estremi.

 

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La copertina del grande libro di Ken Kalfus

 

Ma il quotidiano contiene anche i germi di mali peggiori, come Freud ne Il disagio della civiltà scriveva:

 

«l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza».

 

Marshall e Joyce, come l’America dopo gli attacchi terroristici, precipitano accartocciati dall’odio che covano l’uno per l’altra, «lui cospirava; lei lo sapeva» (Ken Kalfus, Uno stato particolare di disordine).

 

Questa coppia newyorkese ha la sicurezza in diversi gradi e forme: ne sperimentano una di tipo economico, che consiste in una casa, in lavori abbastanza retribuiti; ne hanno un’altra più profonda, affettiva, di continuità genetica, quella sicurezza che mette a tacere ogni possibile inquietudine di futura solitudine: i figli, nel loro caso Viola e Victor. Ma a Marshall e Joyce manca qualcosa che un tempo c’era ma che ora è solo l’impossibile chimera di una svista passata: l’amore. Non è che l’amore sia la felicità, si tratta più di un pretesto per essere felici, una scusa efficace, il volto di un certo tipo di felicità. Questo marito e questa moglie si odiano a tal punto che Joyce quando vede le torri crollare è presa dalla smania di esultare dentro di sé, perché si illude, a torto, che in mezzo a quel disastro vi sia Marshall.

 

Dopo un po’ una delle Torri, quella più a sud, sembrò esalare un terrificante sospiro prodotto dagli elementi della combustione. […] E poi l’edificio collassò su se stesso in quello che sembrò un unico movimento aggraziato, come se la sua solidità fosse stata un miraggio, come se per tutti quegli anni a partire dalla sua costruzione la sua struttura fosse stata liquida. […] Joyce sentì qualcosa erompere dentro di sé, qualcosa di caldo, molto simile, sì, proprio così, a uno spasimo di piacere, così intenso da somigliare all’appagamento del desiderio. Era una vertigine, un’ebbrezza

 

Nelle lotte intestine quotidiane perdono, in ordine sparso: la fiducia, la lucidità, la dignità, il buonsenso. Banali al massimo grado, due idioti che retrocedono al livello di ragazzi viziati; non per colpa loro, semplicemente per la sciagura di appartenere al genere umano, di essere troppo umani, e gli esseri umani, si sa, sono fragili: 

 

«ogni persona aveva la sua tragica storia segreta, le sue razionalizzazioni, i suoi criteri di conflitto, i suoi bisogni imperfettamente compresi. Ogni relazione umana era una cospirazione».

 

Il divorzio diventa una guerra legale, avida e indecorosa per cui ogni battaglia può essere un colpo fatale, con il sapore e l’importanza di una vendetta primordiale. L’assurdità di un amore disgregato è spiegabile perché in qualche modo consono ad un contesto più ampio. Dobbiamo necessariamente valutare le circostanze, esaminare attentamente l’ambito spazio-temporale entro il quale si muove la vicenda.

 

«Era una civiltà definita dal fenomeno della collisione e dai fenomeni che ne scaturivano: anche lui era in collisione, con ogni volto e visione non familiare che gli si presentasse davanti sul marciapiede, e ogni incontro generava un’altra osservazione, un pensiero o un’idea, su una cosa o l’altra».

 

Marshall e Joyce rappresentato un dato aspetto della crisi della civiltà, sono l’America e incarnano gli squilibri e le banalità di un certo governo alle prese con un pasticcio cosmico; rivestono il politicamente corretto che si disintegra e perde credibilità, e, per estensione, rispecchiano il mondo. Simboleggiano un sistema prossimo alla perfezione che in un dato momento, senza preavviso, crolla. Ognuno di noi potenzialmente è o potrebbe diventare la componente fragile di una relazione scomoda, il fatto è che in questo caso si dimostra uno degli assiomi più autentici: è sempre colpa di entrambi. Che siano quindi componenti democratiche o repubblicane, poco importa.  L’America ne gioverà o ne verrà irrimediabilmente travolta.

 

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I protagonisti del romanzo di Ken Kalfus rispecchianoil politicamente corretto che si disintegra e perde credibilità

 

La morale della storia però è un’altra: Ken Kalfus vuole insegnare che nonostante tutto, la vita va avanti, e deve essere così, è un diritto che spetta all’umanità tutta, è una promessa, una speranza, la concessione a metà in mezzo alle nefandezze dell’esistenza:

 

«si era sbagliata a credere che non vedesse niente da quella finestra. Vedeva: non la città, ma, al di sopra del tetto dell’edificio accanto, una sottile striscia di cielo impeccabilmente sereno rischiarato dalla luce del giorno. Rimase per un po’ in contemplazione del blu, come se contenesse qualche segreto di vitale importanza in grado di spiegare ogni cosa».

 

Scriveva Nietzsche in Così parlo Zarathustra:

 

«Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l’essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l’anello dell’essere. In ogni attimo comincia l’essere; attorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità»

 

La storia insegna e la storia si ripete, non si scampa. Il pensiero di fondo, la morale corrotta che Ken Kalfus critica ed esprime nell’opera analizzata, appare attuale oggi più che mai, secondo la logica dell’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, una legge universale che sembra ripetersi, certo, non come enunciata dal filosofo tedesco, ma nelle linee generali, nell’idea di fondo, nel senso che nella storia dell’umanità sembrano reiterarsi le circostanze, le situazioni, gli eventi.

 

Proviamo a valutare l’era Trump paragonandola ai disordini del 2001 in una lettura mediata dal libro di Kalfus: ne emerge che il presidente in carica degli Stati Uniti, in parte, dovevamo aspettarcelo, in quanto risultato di un sistema di frangenti critici, risultante di una molla tesa troppo che ha rilasciato la sua energia tutta di un colpo.

 

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Ken Kalfus

 

Su quello che ha preceduto e seguito l’ascesa al potere di Trump, con le elezioni presidenziali che hanno assunto il ruolo di show, si è letto di tutto, volendo argomentare per associazioni libere, vengono in mente: tragedia americana, minaccia, pericolo, lottare ancora, colpo di scena, inaspettato, i sondaggi mentono, imprevisto, impossibile, rivoluzione, stupidità, ignoranza, arroganza, rispetto, controllo, antisemitismo, incognita, eclatante, sconvolgimento epocale, politica nuova, casinò, vita privata, mogli, figli, evasione fiscale, riforme, austerità, muri, guerra, barriere, migranti, Messico.

 

Questo clima di instabilità ricorda tanto quello che – certo per motivi diversi – si era instaurato dopo l’11 settembre. In quel contesto Kalfus pensò di ambientare la storia di una coppia che viveva un momento difficile e che, per questo motivo, rispecchiava in piccolo, l’America di quegli anni inquieti.

 

Sarebbe interessante sentire cosa penserebbe l’autore di A disorder peculiar to the country, dello scenario instabile attuale, del caos mediatico che l’ascesa al potere del miliardario americano ha causato. Abbiamo provato a chiederglielo, e lui ci ha risposto, lo ha fatto con parole meravigliose e illuminanti, e non senza una buona componente di sconforto per quello che sta accadendo. Il giornalista newyorkese si dice “dolorosamente consapevole del fatto che il suo paese abbia scelto quest’uomo” – «I’m painfully aware that my country chose this man» – e aggiunge «obviously, my personal humiliation is the least important aspect of this situation» che “ovviamente la sua umiliazione personale è l’aspetto meno importante di questa situazione”. Sostiene che ancora una volta la realtà americana ha trionfato sulla narrativa, sull’immaginazione. Il disordine della vita politica della mia nazione è più grave di quanto immaginassi. I nostri valori più importanti – il ruolo della legge, la libertà di parola, il senso di comunità […] – sono stati derisi e minati.

 

Karl Kraus ai suoi tempi scriveva “ben venga il caos perché l’ordine non ha funzionato“, probabilmente ci troviamo nella situazione analoga. Kalfus dichiara che quando ha scritto l’opera, il suo principale intento era quello di esprimere nel disordine “un tratto distintivo dell’età contemporanea: il pubblico, l’attualità,è diventato indistinguibile dalle nostre vite private. È nei nostri pensieri, è nei nostri sogni.”

 

E poi conclude dicendo che “viviamo solo nelle notizie, ora”. Notizie che ci sommergono, sovrastano, che si riversano prepotentemente nel nostro quotidiano, questo “torrente di notizie, di menzogne ​​e opinioni […] ha oscurato ciò che è importante. Ci ha sottratto il nostro privato. E ci ha resi tutti un po’ folli.”

 

Folli e ciechi: Kalfus è terribilmente chiaro su quello che sta accadendo, ha piena consapevolezza del fatto che stiamo barattando la nostra identità, che è il più importante valore del fatto di essere uomini, con qualcosa di labile, instabile, mediocre.

Il punto è che – parafrasando DeLillo – «a volte è difficile battere frontiere nuove senza che a qualcun altro vada la polvere negli occhi» (Don DeLillo, Americana)

 

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