Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e SMiLE. Due capolavori a confronto.

Se una presenza può fare la storia, lo può fare anche un’assenza. Se così in questi giorni si celebra il mezzo secolo di vita del disco che a livello mediatico ha forse più di ogni altro sancito la nascita del pop e la sua mitologia, in questi stessi giorni ricorre il mezzo secolo di non vita del suo fratello nemico e abortito, il disco che avrebbe dovuto equilibrare il monoteismo del mondo pop. Come sarebbe cambiato il mondo musicale se SMiLE dei Beach Boys non avesse “lasciato via libera” a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il disco simbolo dei Beatles e della Summer of Love tutta?

 

A 50 anni dalla presenza/assenza dei due giganti, andiamo a confrontare cinque aspetti della sfida che continua a far parlare gli appassionati della musica pop.

 

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Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band vs SMiLE

La produzione

La sfida tra i due album si sarebbe giocata soprattutto in termini di produzione, per il semplice fatto che nessun’altra band dell’epoca poteva permettersi le spese folli sostenute da Beatles e Beach Boys (che l’anno scorso hanno festeggiato anche i 50 anni di Pet Sounds) in quel periodo. Famose rimangono le 700 ore stimate in studio per la realizzazione di Sgt. Pepper, costato più di otto volte la produzione di Please Please Me; in modo simile a Michael Cimino con I Cancelli del Cielo, che fece salire alle stelle i costi per atteggiamenti a dir poco anticonvenzionali, come perdere giornate di produzione in attesa delle nuvole giuste per filmare, Brian Wilson portò Good Vibrations ad essere il singolo più costoso mai realizzato fino ad allora (leggenda vuole che la cifra finale fu tra i 50 e i 75mila dollari) facendo saltare intere session perché non sentiva le giuste sensazioni.

 

 

E se SMiLE-Pepper si sarebbe giocata in termini di produzione, allora la sfida sarebbe stata intesa principalmente Brian Wilson/Van Dyke Parks da una parte e George Martin/Paul McCartney dall’altra.

 

Figlio tanto di Hollywood quanto della controcultura, arrangiatore de Lo stretto indispensabile (Il libro della giungla) e per qualche tempo mother of invention zappiano, Parks è stato indispensabile per la crescita di Wilson: fu lui a incitarlo a spingere l’acceleratore verso la sperimentazione anarchica, ad abbattere le barriere che già stava abbattendo, ma con ancora qualche timore. Fu lui a calarlo a piene mani nella controcultura. Nel progetto SMiLE Parks non fu un semplice paroliere, ma anche un consigliere musicale, una spalla compositiva a tutti gli effetti: non è un caso che il suo primo album solista, Song Cycle, abbia molti punti concettuali in comune con SMiLE.

 

Dall’altra parte, McCartney era senza dubbio il beatle più interessato a sperimentare in studio e Martin si consacrò come visionario della produzione: l’etichetta di quinto beatle era quantomeno stretta, soprattutto nel periodo 65-69 ci si chiede cosa sarebbero stati i Beatles senza di lui.

 

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George Martin e Paul McCartney durante la registrazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

 

Il botta e risposta Good Vibrations-Strawberry Fields Forever doveva essere solo l’antipasto, perché alla base c’erano due modi diversi di cambiare il formato album: due opere di produzione che sovrastavano la scrittura, due opere che avevano intenzione di porre definitivamente il 33 giri come opera d’arte di riferimento. Non che questo processo fosse nato dal nulla: loro stessi, con Revolver e Pet Sounds, avevano fatto partire il processo, così come Blonde on Blonde di Dylan e Freak Out di Zappa (i primi due album doppi della storia).

 

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band cementificò definitivamente però il formato album almeno in due punti: nell’eliminazione dei singoli estratti dall’lp e nell’uniformità della tracklist per tutti i mercati. Inoltre ha glorificato il concept, che da lì in poi sarebbe esploso (per non parlare della rock opera, probabilmente nata nell’ottobre del 1967 con l’uscita di The Story of Simon Simopath dei Nirvana) e fu abbattuto il silenzio tra una traccia e l’altra, a suggerire un flusso musicale continuo.

 

Cosa che SMiLE avrebbe fatto in modo ancora più drastico: attraverso l’approccio modulare, Wilson stava tentando di creare un montaggio che ricordava più il cinema che la musica, un insieme di momenti musicali più che un disco di canzoni.

 

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Brian Wilson e Van Dyke Parks

 

Per la ricchezza degli strumenti usati, la complessità degli arrangiamenti, la corposità del suono, Sgt. Pepper viene giustamente riconosciuto come un precursore del progressive (sebbene sia sbagliato considerarlo da un punto di vista della scrittura). In particolare per A Day in the Life e Strawberry Fields Forever, realizzata durante le session del disco sebbene sia poi stata esclusa, Martin creò un tappeto sonoro che a distanza di 50 anni non smette di meravigliare: la musica che si fa classica che si fa futuro.

 

La scrittura

Se si escludono l’introspezione spirituale di Surf’s Up e A Day in the Life, l’uso della vignetta cartoonistica in Heroes and Villains e Mr Kite, l’ironia dei versi animali in Barnyard e Good Morning Good Morning, non c’è troppo che accomuna i due progetti.

 

Da un punto di vista compositivo, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non è il migliore album dei Beatles, anzi è forse il peggiore del periodo 65-69. Il critico del New York Times Richard Goldstein freddò all’epoca il disco come dipendente dalla produzione. E in effetti troppi brani vengono salvati dall’ubriacante magma sonoro di Martin e staff: solo la straordinaria A Day in the Life (e forse Within You Without You) regge la qualità della sua produzione e merita di stare in un ideale best of delle penne dei quattro. Lucy in the Sky with Diamonds è tuttora un inno psichedelico per qualche sbaglio storico-critico, She’s Leaving Home sembra una più o meno riuscita replica tanto al lato B di Today quanto a Eleanor Rigby, il music hall di When I’m Sixty-Four impallidisce di fronte a quanto stava facendo la Bonzo Dog Doo Dah Band, Lovely Rita e Good Morning sono semplicemente sciocche.

 

 

Ciò che invece stupisce in SMiLE (o meglio nella ricostruzione del 2011, l’unico riferimento purtroppo possibile) è la coerenza tra produzione e scrittura, un continuo gioco a incastri tra possibilità melodiche e sonore. I testi di Parks sono poi un continuo gioco di parole, scomponibile e ricomponibile quanto la musica di Wilson.

 

La chitarra

Il pop-rock del tempo era guitar oriented e lo stava diventando con sempre maggiore insistenza. Praticamente tutti i gruppi di rilievo dell’epoca si basavano su quello che era considerato lo strumento principe.

 

Ad esempio, i Kinks esplosero come sovversivi della chitarra, diventando padrini di hard rock e metal e, una volta evolutisi come gruppo cardine del pop, la straordinaria importanza di Dave Davies non venne mai meno; band seminali come Yarbirds e Byrds furono nido di non uno, ma più chitarristi diventati leggendari nel corso degli anni; tutta la West Coast, anche quella più incentrata sul formato canzone e sul pop, concepiva la propria musica attorno alla chitarra.

 

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Gli Yardbirds

 

Nei Beach Boys questo non c’è mai stato. Vero, il rock ‘n’ roll 50s è stato una loro influenza fondamentale del primo periodo, ma l’accusa generale rivolta alle prime hit è quella di aver banalizzato Chuck Berry, più che omaggiato.

 

Quando poi Wilson prese il pieno controllo della scrittura e produzione della musica del gruppo, fu immediatamente chiaro come vedesse la chitarra una pedina tra tante, non il centro della scacchiera. Nel lato B di Today, in Pet Sounds e in SMiLE è la stratificazione, la composizione sonora a regnare, non il suono della chitarra. Non ci sono riff, ma arrangiamenti complessi. Non c’è immediatezza, impulso, ma costruzione pensata al minimo dettaglio. Lo strumento dominante è la voce, non la chitarra.

 

Il 1967 di SMiLE e il 1967 della stagione psichedelica sono realtà con pochissimi punti di contatto. A riassumere perfettamente ci ha pensato lo scrittore Erik Davies: in SMiLE non c’era il sitar, bensì il banjo. Niente India, ma indiani pellerossa. Niente libro tibetano dei morti, ma l’America di Mark Twain.

 

 

Al contrario, i Beatles psichedelici furono non solo accettati ma anche ben visti dalla controcultura proprio perché incarnarono tutti i cliché della Summer of Love. E perché la chitarra è sempre stata protagonista del loro cuore musicale, sin dai tempi delle esibizioni amburghesi. Non a caso persino un album così incentrato sulla produzione e le inerenti innovazioni tecnologiche come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band comincia con un riff di chitarra. Come a dire: “La nostra anima rimane nel rock primordiale”. Non è un caso che Jimi Hendrix (altro 50° con il suo Are You Experienced?) sbolognò Heroes & Villains come barbershop psichedelico, mentre si presentò in Inghilterra proprio con il riff iniziale della title track pepperiana. I Beatles avevano avuto Twist and Shout e l’anno dopo avrebbero avuto Helter Skelter, mentre Wilson sostenne di non essere interessato alla musica “heavy” perché già fatta da altri.

 

 

Se ora quest’indipendenza dal trend dell’epoca può essere giustamente vista come una chiaroveggenza estremamente coraggiosa, è probabile che avrebbe posto SMiLE come oggetto alieno rispetto al resto del 1967 musicale, aprendo ulteriormente le forbici d’incomprensione tra Wilson, il gruppo e la Capitol. E forse anche il pubblico.

 

La copertina

Se c’è un campo in cui i Beach Boys sono stati inequivocabilmente inferiori ai Beatles, è l’evoluzione dell’estetica della copertina. Attentissimi sin dagli inizi nella cura della presentazione dei loro dischi, i Fab Four contribuirono come pochi altri allo sviluppo dell’lp come oggetto pop, grazie alla scelta di grandi nomi dell’arte, fotografica e non: l’op art surreale di Angus McBean per Please Please Me, lo sguardo cinematografico di Robert Freeman per gli album dal 1963 al 1965, il cut up psichedelico di Klaus Voormann per Revolver, il nichilismo di Richard Hamilton per il White Album, la simbologia mitologica di Kosh per Abbey Road (dove in molti vedono indizi riguardo la morte di Paul McCartney). Tutt’oggi le copertine degli album dei Beatles sono freschissime, memorabili.

 

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La copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

 

Per troppo tempo invece i Beach Boys sono stati da questo punto di vista di un dilettantismo impressionante: macchine, spiagge, surf, onde, tipografia rudimentale. Un’onnipresente estetica retrograda. La stessa copertina di Pet Sounds non è affatto al livello della musica: photoshoot in uno zoo con delle capre, ancora tracklist in front cover, retrocopertina con foto-mosaico nonsense, tra Brian al piano e il gruppo in tour.

 

La sfida del 1967 avrebbe cambiato le carte in regola, ma non troppo: se infatti i Beatles alzarono ulteriormente la posta in gioco, creando anche per la copertina un’elaborazione in studio senza precedenti per complessità e costi (si parla di 3000 sterline, quando in genere il costo di una copertina all’epoca era di 50), i Beach Boys finalmente avevano in mente una copertina che tagliasse i ponti con quanto fatto finora. Niente più foto di gruppo, niente più dilettantismo spinto. Ma la copertina di SMiLE realizzata da Frank Holmes, amico di Parks, avrebbe comunque perso il confronto con quella del Pepper.

 

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La copertina di SMiLE

 

Per quanto molto bella e funzionale all’estetica del disco, ricorda più una copertina da gruppo underground della Bay Area. Non c’è il respiro totalizzante della copertina del Pepper, la sua ambizione a cristallizzare in un’immagine un intero decennio, un’intera generazione. Per quanto sin troppo barocca e tracotante, è molto semplice comprendere perché l’opera di Peter Blake, Jann Haworth, Robert Fraser e Michael Cooper sia un feticcio dell’immaginario pop del Novecento. Mentre quella di Holmes un Graal esoterico per appassionati rock.

 

La dimensione live

Il 29 agosto 1966 è una data molto famosa per i fan dei Beatles, dato che indica l’ultimo concerto tenuto dalla band. Un ritiro dovuto al crescente stress e alla consapevolezza che le sperimentazioni in studio si stavano facendo così avanzate da rendere impossibile una loro proposizione dal vivo.

 

Per facile sillogismo, i Beatles non portarono mai Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band in dimensione live (sebbene, per ironia della sorte o sarcasmo di McCartney, il disco inizi e sia concepito proprio come finta esibizione live). Né Revolver, né Strawberry Fields Forever, né i dischi successivi. Il tour americano 1966, l’ultimo della loro carriera, includeva canzoni semplici da suonare. Canzoni che fossero in grado di suonare.

 

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L’ultima esibizione dei Beatles, che non suonarono mai Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dal vivo

 

Così le composizioni più complesse rimangono vergini, intonse, esistenti solo nella loro forma originaria, quella studio. Furono sufficientemente lungimiranti da capire che portandole in tour le avrebbero scarnificate, se non umiliate. Perdendo così molta considerazione.

 

Proprio perché molto meno furbi e compatti, i Beach Boys non fecero nulla di tutto ciò. Il ritiro in studio, a partire da inizio 1965, fu del solo Brian, mentre gli altri continuarono imperterriti a portare il nome dei Beach Boys nel mondo. Con il risultato che quando ci fu da portare le inaudite sperimentazioni del periodo 65-67 sul palco, i risultati furono disastrosi.

 

Può essere questa una spiegazione insignificante, ma invece è di primaria importanza, perché tassello imprescindibile per comprendere la scarsa considerazione di cui hanno sofferto per decenni (e forse tuttora) i Beach Boys negli ambienti alternative.

 

 

Con nel giro di poche settimane il tracollo di SMiLE e la rinuncia ad esibirsi al Monterey Pop Festival, uno degli eventi simbolo della controcultura 1967 (evento che tra l’altro avevano contribuito a rendere realtà), i Beach Boys divennero di colpo dinosauri culturali, imbroglioni che palesarono di non essere in grado di stare al passo coi tempi, di suonare musica che non fossero le basilari hit degli esordi.

 

Il fatto che poi i Beatles continuarono, per i restanti tre anni, a pubblicare dischi di eccitanti innovazioni, mentre i Beach Boys, perso il loro leader, smarrirono totalmente la via, producendo album confusionari, qua e là anche interessanti ma totalmente privi di una direzione precisa, fu per molti l’ovvia prova dell’inferiorità del gruppo rispetto ai Beatles e la loro inadeguatezza complessiva nel panorama pop-rock.

 

Conclusioni

In definitiva, all’eterno dilemma se SMiLE avrebbe cambiato la storia come ora la conosciamo, minando la leadership dei Beatles, la risposta è: dipende. Lo avrebbe molto probabilmente cambiato, almeno in parte, per i critici e appassionati rock, ma ben difficilmente lo avrebbe fatto a livello socio-mediatico.

 

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band fu la perfetta sintesi dei suoi tempi, SMiLE ne sarebbe stato il superamento. E tra il vedere l’oggi e il pensare al domani, si sa, la massa preferisce la prima.

 

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I Beach Boys in versione cartoon

 

Nel 1970 l’allora ventiquattrenne Nik Cohn, ora considerato uno dei padri della critica rock inglese, scrisse:

 

“Fu un bene che Wilson fosse progredito, che abbia tentato di andare oltre. Ma si prese troppo sul serio, diventò un po’ megalomane. Cominciò quasi a vergognarsi del pop. Divenne snob. Correndo così in fretta e furia, il cappello vola via dalla testa. Comprensibilmente, i compositori vogliono crescere e progredire. Ma il pubblico che conta, quella che alla fine compra i loro dischi, ha magari sedici anni e non è per niente interessato alle sperimentazioni. Il pop rimane musica per adolescenti.”

 

Nell’eccessiva semplificazione del suo ragionamento, Cohn centrò un punto: nel periodo SMiLE, Wilson guardò sempre più il Sole e sempre meno la terra. Il che non è necessariamente un male, tutt’altro, a patto di non smarrirsi. Nella loro ricerca alla sperimentazione i Beatles non dimenticarono mai il pubblico, stando sempre molto al di qua delle colonne d’Ercole.

 

A giudizio di chi scrive, SMiLE sarebbe stato musicalmente più grande di Sgt. Pepper. Più estremo nella sua ricerca, più innovativo e affascinante nella struttura linguistica, più radicale.Ma molto meno comunicativo e forse meno universale. Il sospetto è che la cosa sarebbe piaciuta a pochi.

 

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