Da Jad Fair fino a Daniel Johnston, un viaggio nell'universo della musica a bassa fedeltà.

Jad Fair ho cominciato ad amarlo quando mi ritrovai in autostrada, con l’auto in panne, durante il mio primo e unico tentativo di guida lontano dal mio quartiere, in un’area di servizio tra Roma e Napoli, mentre il telefono squillava e intorno a me, un’allegra famigliola rumorosa e piacevole, mi faceva pensare che la solitudine di quel viaggio non fosse stata poi tanto male.

 

– Mangia qualcosa. Ascolta la mamma.

– Zang tumb bang.

 

La risposta pseudo futurista dei figli colpì molto la mia immaginazione, la trovai piuttosto opportuna, come dire, significativa, perché era la cifra di un disinteresse tale da non voler dire semplicemente incomprensione, era l’incomunicabilità, il silenzio parlato che solo l’umanità riesce ad abitare, quello strappo tra noi che solo la rete negli ultimi anni sta superando in una promiscuità permanente che come primo effetto ha avuto la perdita del senso del pudore.

 

– Sei un poeta bambino!

– Maaaaaamma chi è il signore?

 

Erano anni lontani. La bellezza di 15 anni fa.

Jad Fair lo beccai in radio, mentre in quella situazione orribile il caos cominciava ad aumentare nonostante la narcosi dovuta al cibo dozzinale che avevano cominciato a trangugiare, struzzi glabri, sprizzando olio d’oliva in tracce verde splendenti, come la luce barbagliante che riverberava in mille riflessi specchiandosi nei vetri delle due auto.

Mi piacque. Era un pezzo di cui ricordo bene il sound, erano gli Half Japanese, il gruppo di David & Jad Fair, from Michigan, a suonare Summer Nights tratta dall’album Hello del 2001.

 

 

Mi conquistò subito perché mi fece sentire a mio agio, il mio viaggio andava male, non perché fosse una canzone semplicemente rilassante, la pseudo new age era ancora lontana per fortuna, con tutta la sua fuffa Curcuma&Nuvole, ma soltanto perché mi sembrava originale, il suono era solido, spesso, consistente e mi allontanava dall’affrontare il mio problema di mobilità.

 

Quando ero lì, le successive due ore, in attesa che arrivasse qualcuno ad aiutarmi, ho ripensato a quella strana sensazione, quel piacere di ascoltare un suono che mi sembrava venire da vicino, non perché carezzevole o suadente, era vicino a me e basta. Non mi allontanava, lanciando il mio ego nello spazio di sogni di grandezza del ce la puoi fare, né mi sprofondava in qualche abisso d’un pozzo buio di disperazione.

Era vicino a me.

 

Avrei scoperto successivamente che quella roba lì fosse chiamata Lo-Fi, cosa che mi fece un sacco ridere all’inizio.

 

Jad Fair 1

Gli Half Japanese, capitanati da Jad Fair

 

La musica in bassa fedeltà, quella che nasce per carenza di mezzi, così fu interpretata dalla critica inizialmente. Ma successivamente la necessità del passato divenne scelta consapevole, per una forma espressiva paragonabile alla musica da camera rispetto a quella sinfonica, un modo di suonare per farsi piccoli a volte, perché ci si sentiva lontani e fragili.

 

È una musica che ascolto oggi come allora, quando sono io a sceglierla e non qualche app o qualche radio, nei momenti in cui la rabbia, l’ardore, lasciano il posto a qualcosa che non sia stucchevole romanticismo.

Questa citazione dello “stucchevole romanticismo” l’ho già usata, ma è autenticamente sentita. Accontentavi di questo e non della solita originalità sensazionalista, quella lasciatela ai Mollica, a Red Ronny, a quelli che fanno recensioni e sono bravi, pettinati, borghesi, da oratorio, i finti monelli a cui si tira l’orecchio.

 

– Non farlo più!

– Sì Mamma!  – o padre, o zia, o chi per loro.

 

Lo-Fi è una musica che avvicina al mondo delle “Vite Minuscole” di Michon, non agli invisibili, ma ai diversamente grandi.  

 

Jad Fair 2

“Scrivo per riscattare le vite minuscole” Pierre Michon

 

L’ascolto della musica Lo-fi è paragonabile anche alla lettura dei racconti di Carver, in cui la periferia, incarnata nelle vite piccole di uomini e donne, è completamente depurata da qualsiasi forza rivoluzionaria. I protagonisti dei racconti non hanno nessun tipo di afflato superomistico, né si sentono parte di un popolo della periferia che investito della spinta messianica del cambiamento, debba in qualche modo pretendere dalla storia giustizia per il solo fatto di esistere.

 

I pezzi Lo-Fi simili ai personaggi di Carver, nel loro essere a volte rumorosi, raccontano di una periferia in cui la potenza cittadina, il dover fare qualcosa per affermare la propria identità, lascia il posto a un’esistenza attonita, alla vita e al racconto di una parabola che scompare nell’infinito di un silenzio non abissale, non titanico, ma semplicemente fatto di assenza.

È l’assenza delle amplificazioni potenti, della lavorazione da studio, della forza e della potenza degli strumenti, a colpire l’immaginario.

 

Jad Fair 3

Jad Fair e Raymond Carver hanno qualcosa in comune?

 

Mentre i Nirvana pieni di Eroici Furori, potentissimi, incendiavano il mondo con la loro musica selvaggia e ignorante, nello stesso tempo, artisti giganteschi come Daniel Johnston, nella loro anonima abitazione, con i genitori nella stanza accanto, in fuga perenne dal BaBau, da Baba Yaga e da mostri sanguinari e assassini, impazzivano di terrore e inadeguatezza, registrando su musicassette le loro canzoni scaccia incubi.

 

Daniel Johnston, quando lo sentii cantare la prima volta capii che era un genio.

I Sonic Youth (e lo stesso Kurt Cobain) lo adoravano, per il modo in cui aveva involontariamente ridefinito il ruolo dell’outsider, per come lui semplicemente non volesse diventare un valore condiviso.

Piccolo e chiuso su se stesso, cantava, con strumenti miseri, diventava il contraltare sconosciuto, la voce di un popolo silenzioso che scompariva senza lasciare nessuna traccia.

 

 

È paradossale che io mi stia sforzando di raccontarvi di come si possa essere invisibili e restare comunque indelebilmente impressi.

Mi viene in mente una storiella a proposito dello Zen.

 

– Maestro cos’è lo Zen?

– Tu piuttosto dimmi, qual è il suono del battito di una mano?

 

È una cosa su cui riflettere. Consiglio personale, fate attenzione perché se doveste mai trovare una risposta, rischiereste di ritrovarvi illuminati. Accostarsi a queste cose con cautela e rispetto, non sono solo canzonette.

 

La Musica di Daniel, le sue canzoni, credo saranno state migliaia, molte le avrà dimenticate, avrà completamente rimosso il fatto di essere stato lui a scriverle, mi è capitato solo una volta di ascoltarle in compagnia.

Mi è successo in uno dei rari viaggi che ho fatto (sono un uomo molto pigro lo confesso), di incontrare un nano, credo fosse americano, una sera a Roma vicino Trastevere, in un baretto di quelli che sembrano usciti da un quadro di Hopper.

Ero da solo, la mia pseudo compagna era andata via da poco, con il suo codazzo di hipster e io avevo deciso di restare ancora un po’ in zona.

Sono entrato e l’ho subito notato, non perché fosse un nano, lo dico con sincerità, non sono per niente politically correct, ma per la sua estrema eleganza. Indossava un completo, bianco, aveva una camicia rossa e un papillon nero, con delle scarpe enormi marroni che sembravano di legno scolpite lì per completare questa figura per me inizialmente indistinta.

La musica di Daniel girava alla grande, il pezzo era Mind Movies.

 

 

Mi sono avvicinato e l’ho scrutato in volto, rimanendo abbagliato dalla chiarezza della sua pelle, dagli occhi azzurri, ridendo sotto i baffi per le orecchie a sventola che come due vele sembravano essere le responsabili di quel volto affilato, perché tirate dal vento delle parole, stiravano quel profilo in orizzontale.

 

– Mike

– Ciao Mike. Piacere di conoscerti.

 

Il pezzo di Daniel raggiunse il suo acme, mentre io e Mike discutevamo e lui mi raccontava di fare il rappresentante di alcolici, di come avesse trascorso anni negli Stati Uniti e di come fosse arrivato in Italia.

Mi disse di non raccontare a nessuno la sua storia, che non avrebbe apprezzato di essere conosciuto per interposta persona.

 

– Non parlare di me con gli altri, non voglio. Io sono convinto che quando qualcuno parli troppo di me, in qualche modo mi rubi parte della mia vita. Si annulla la distanza e io sono felice della distanza tra me e gli altri, tra me e le cose.

 

Non credo che Mike stia leggendo, andò via e non l’ho mai più visto né sentito, ma credo che avesse ragione.

 

– Hai ragione Mike. Le distanze sono importanti. La distanza ci consente di conoscere noi stessi, è la speranza a colmarle e la volontà può superarle. Senza speranza e volontà cosa resta?

 

Daniel Johnston quando sono andato via l’ho ascoltato durante il mio rientro, in treno, sempre la stessa canzone, sempre Mind Movies pensando a Mike che Is And Always Was un amico.

 

Ritornando di nuovo alla Lo-Fi, non posso esimermi dal parlare di altri due eccezionali frequentatori del silenzio, podisti delle mancanze: il meraviglioso cantautore Bill Callahan e di un gruppo, gli Sparklehorse.

 

Jad Fair 4

Bill Callahan, in arte Smog

 

Bill Callahan, inizialmente con il nome Smog, ha scritto capolavori del genere, per poi cominciare a incidere con il suo vero nome.

Beh quest’ultima affermazione prendetela con le molle, se avrete la pazienza di ascoltarlo infatti, nel caso non lo conosciate, vedrete come forse il suo vero nome sia Smog. Gli sta meglio addosso.

 

Wild Love è il disco trionfo non solo del genere, ma di un cantautorato in bassa fedeltà che trova nelle parole un pudore, una gestualità sonora di una delicatezza sublime, incastonata nella sporcizia, nel rifiuto del Junk Space di Koolhas, della periferia creativa.

Non è una contraddizione questa mia ultima affermazione, rispetto a quanto detto precedentemente a proposito dell’essere “fuori città”, in periferia.

Questo libro di Koolhas, sputtanatissimo ovunque, mi ha insegnato a capire quanto il vertice di ogni fenomeno di sviluppo umano, ma anche aggiungerei di sviluppo culturale, non sia più la città, ma la periferia, soltanto che non dipendendo più dal centro cittadino. Ora, sola di fronte alla sua esistenza, si sdoppia per poi crollare in lacrime e manifesti politici strappati.

 

Jad Fair 5

Rem Koolhaas

 

La periferia, diventata un centro di potere e di sviluppo, ha evocato il suo doppio, l’assenza, la sua possibile scomparsa.

Ne è stata prima pietrificata, poi spezzata.

 

Bill Callahan, con le sue orchestrazioni, gli archi, canta del fantasma di un luogo che diventato il centro nuovo di gravità culturale, non ha potuto fare altro che morirne, frammentandosi, nelle impossibili e numerose opere fallimentari di sintesi, tentando di sfuggire al suo doppio, ripiegandosi su se stessa, autistica.

Il disco che più approfondisce questo tema è Apocalypse, nel quale l’atarassia dei lavori precedenti sembrerebbe lasciare il passo a una voce presente, più partecipe, ma invece…

No.

 

Lì Bill Callahan continua a mettersi di lato, stavolta rispetto a un genere che è più americano della coca cola.

Credo che quel disco sia il fantasma del country, di un tipo di musica appartenente al mito della Frontiera, a cui lui dice “The real people went away”.

Callahan gli dice:” Scusate, scusate… meglio che mi sposti di lato”.

Ecco un altro elemento importante, il farsi da parte, celarsi, nascondersi ma con eleganza.

Un giorno forse impareremo a farci da parte con classe.

 

 

Gli ultimi di cui vi voglio parlare, per onestà vi dico che li tiro nella mia breve lista un po’ per i capelli, sono gli Sparklehorse di Mark Linkous, leader, voce, tutto, morto suicida nel 2010.

Gli Sparklehorse hanno rappresentato il contraltare dei Radiohead. La disperazione dei secondi, potente da far tremare le fondamenta dei divani domenicali dove genitori obesi bevono birra, scommettono, guardano sport in tv, non ha nulla a che vedere con quella dei primi.

 

Lasciate da parte il suono distorto, la potenza a volte degli amplificatori, della tempesta e dell’assalto, dell’assenza di speranza e per gli Sparklehorse cercate di ricordare il dolore delle vostre delusioni, ma di quelle che vi lasciavano ancora il tempo di sperare.

Non pensate all’abisso, ma ricordate di quando scappavate nella vostra camera per piangere da soli, perché la ragazza dei vostri sogni, era magari caduta nella rete del figo di turno, tra le braccia addirittura del vostro amico e il dolore azzurro sprizzava nel cuore come la fiamma dell’accendino, nel buio degli androni dove fumavate di nascosto le vostre sigarette.

 

Jad Fair 6

Mark Linkous, leader degli Sparklehorse

 

In quei momenti, ciò che vi era portato via, non era solo la ragazza o il ragazzo, quello che accidenti vi pare. A un certo punto una mano fredda vi strappava l’idea angelica dell’amore, di quel romanticismo che il sesso non ammette, di quella poesia da ragazzini fatta solo di sguardi, sospiri, fantasie interminabili e masturbazioni fulminee.

 

Ok.

Una cosa ora va detta.

Quel tipo di amore deve essere cancellato, affinchè si apra una dimensione diversa, dove il piacere non sia edonistico. A partire da quella perdita, si impara che l’amore è soprattutto dare, che è un incontro. L’elaborazione di quel lutto è fondamentale per un’esistenza più piena e soddisfacente.

Il problema è che in quei momenti, queste cose, non le conosci, né sei disposto ad ascoltare chi le ha vissute prima di te, così lontano, così vecchio.

C’è gente che ci si ammazza per ‘ste robe.

 

 

Il disco che vi consiglio degli Sparklehorse e vi prego ascoltate il mio consiglio, è Vivadixiesubmarinetransmissionplot. Si tratta del loro primo album, un capolavoro della poetica in bassa fedeltà che ho cercato di descrivere, per come io la intendo.

Will Oldham, gigantesco, Vic Chesnutt, i Beat Happening ve li straconsiglio, sono da ascoltare più e più volte.

 

Una richiesta.

Nel caso qualcuno di voi veda un nano somigliante a Mike, magari che sia proprio Mike, non gli dica nulla, né gli segnali il mio profilo o altro.

La prima volta mi è bastata.

 

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