Le Shaggs hanno inconsapevolmente fatto la storia della musica con il loro primitivismo musicale.

“Cos’è ‘sta roba? Scusate ma… 170 milioni per questa cosa qua? Ma dai, ma è una follia!”

“Ma che follia, che follia!? Ma lo sai che questo qui è un Garpez, uno dei più grandi scultori viventi?”

“Ma scultore che cosa? Ma guarda che il mio falegname con trentamila lire la fa meglio, vah, non ha neanche le unghie!”

 

Quello che fanno gli uomini dalla mattina alla sera, consapevolmente o meno, è sorprendersi della loro esistenza. A differenza degli animali, quando si vedono nello specchio, si riconoscono e si maledicono, quando respirano si meravigliano. E uno dei modi per cercare di capire cos’è che c’è di strano in questo respirare, è l’arte. È la maniera migliore, perché, nella maggior parte dei casi, è intuitiva, extra-razionale, e riesce a cogliere la materia prima di quella meraviglia.

 

Ma l’arte, per quanto si possa cercare di definirla, è un organismo che non tollera cifre risolutive. Si può cercare di darle uno statuto fisso (e si è cercato: questo fa, del resto, ogni movimento artistico, ogni teoria dell’arte), ma quando si vanno a tirare le somme manca sempre qualche pezzo: cos’è la storia dell’arte, nel senso più ampio del termine, se non una continua ascesa e discesa di teorizzazioni sul suo statuto? Nessun risultato permanente: l’uomo è una costante, quotidiana, contraddizione di se stesso. Da un lato il bisogno impellente di darsi una forma e una motivazione, dall’altro l’affidamento a un meccanismo precario, che neanche lui stesso, che l’ha creato, riesce a definire.

 

Shaggs 1

L’arte è un organismo che non tollera cifre risolutive

 

Ma c’era bisogno di prenderla così larga per arrivare al punto? Ebbene sì. Perché quello che le Shaggs hanno provocato (inconsapevolmente) nel mondo del rock è molto più di un semplice, orrendo, album.

 

Quello che accadde a Fremont, New Hampshire, alla fine degli anni ’60 è ormai noto ai cultori del genere (il loro unico lavoro passò alla storia come l’album mal suonato per eccellenza), ma forse è bene rievocarlo in due righe.

Pensate ad una band costruita a tavolino da un padre folgorato da una profezia fattagli da sua madre, che avrebbe garantito carriera musicale alle sue tre figlie. Precisamente, la madre disse al non ancora padre Austin Wiggin che in futuro avrebbe sposato una donna bionda, dalla quale avrebbe avuto delle figlie che però lei non sarebbe riuscita a vedere prima di morire, e che tali figlie avrebbero poi formato una band. Sorprendentemente i primi due punti della profezia si avverarono, e Austin Wiggin non poteva lasciare incompiuta la terza parte: non appena le figlie furono abbastanza cresciute, formò la band. (Tutto ciò basterebbe già a delineare lo scenario surreale che circonda l’episodio, ma se non vi basta andate pure avanti).

 

Shaggs 2

Dot, Betty e Helen Wiggin, ovvero le Shaggs

 

Ora, la sola volontà del padre non era certo sufficiente per fare di Dot, Helen e Betty Wiggin (cui a volte si aggiunse, al basso, anche la quarta sorella Rachel) delle vere e proprie musiciste, e loro si trovarono con una batteria e due chitarre fra le mani senza conoscerne l’utilizzo. Pensate, perciò, ad una band composta da tre sorelle che non sanno suonare: e non intendo che facciano cattiva musica, ma proprio che non sappiano adoperare gli strumenti, che non riescano ad andare a tempo, che suonino da cani.

 

Ed infine pensate a un disco, Philosophy of the world, uscito nel 1969, totalmente sconnesso, desincronizzato, che mette su un garage rock abortito, sfumature psichedeliche ma prive di sviluppo. Ogni brano punta alla melodia, a sedurre l’orecchio più facile, ma puntualmente ne esce fuori, come in It’s Halloween, una cantilena allucinata, un puzzle scomposto, che Syd Barrett, che nello stesso anno esordiva coi suoi Floyd, c’avrebbe messo la firma senza pensarci. My pal foot foot, Who are parents? sono favole angeliche scritte su un foglio e poi strappate in mille pezzi, e ciò che riescono a trasmettere è soprattutto tenerezza per una band che ci sta provando, ma non ce la fa. È un disco che alla desiderata formula di un rock dolce e incantato tutto al femminile antepone, senza volerlo, l’aritmia, la balbuzie chitarristica, l’analfabetismo musicale. In poche parole, il primitivismo.

 

 

Eppure, ha fatto scuola, è rimasto nella storia. Forse avrà contribuito l’andazzo di quella fase del Novecento, in cui la musica era facilmente piegata alle divagazioni cerebrali, basta pensare alla psichedelia dei Jefferson Airplane, o agli sperimentalismi dei Velvet Underground. Ma il punto è proprio che le Shaggs, senza farlo apposta, hanno contribuito a delineare il primitivismo musicale. Volevano fare un disco “educato”, un po’ garage, un po’ beatlesiano, decorato con quei testi un po’ naive, e hanno finito col suonare rock d’avanguardia: il totale ebetismo sonoro (voci stonate, strumenti tutti fuori tempo) è diventato arte concettuale (distruzione della forma-canzone, tempi non convenzionali, estetica da outsider music). Il risultato poetico è simile a quello che Captain Beefheart faceva negli stessi anni (in particolare con il celebre Trout mask replica): una regressione musicale, fino tornare ad un approccio scimmiesco e primordiale agli strumenti. Con la differenza, però, che tutto ciò in Beefheart è simulato, nelle Shaggs no. Il loro approccio è realmente non ancora alfabetizzato: hanno imitato Captain Beefheart, convinto Frank Zappa, anticipato il lo-fi anni ’90. Ma è tutto involontario.

 

Shaggs 3

Le Shaggs hanno anticipato il lo-fi degli anni 90

 

Viene da chiedersi, a questo punto, cos’è che distingue l’avanguardia dall’inettitudine, se basta un criterio ermeneutico diverso da quello consueto (come diceva Peter Bürger nella sua Teoria dell’avanguardia) per avvicinarsi e quindi apprezzare un’opera fuori dagli schemi tradizionali. Verrebbe da dire che il discrimine sia l’intenzione, se è questa l’unica cosa che pare distinguere le Shaggs da Beefheart. Ma l’intenzione, conta qualcosa? Fate una prova. Entrate in una galleria, appeso a una parete bianca c’è un sacco di iuta rattoppato, e non c’è nessuna indicazione, nessun nome. Vi guardate un po’ attorno, forse chiedete informazioni, ma alla fine vi costringete a guardare, ad ipotizzare. Chi vi conferma che si tratta di un’opera di Burri e non di una svista acrobatica del netturbino? La risposta è: nessuno. Così come nessuno vi vieta di trovare arte in quel sacco, a prescindere che l’autore si trovi nei libri di scuola o no, a prescindere che un autore ci sia o meno.

 

Ma allora il giudizio è totalmente soggettivo? Beh, non è questo il punto, o almeno non solo. Il punto è che l’arte è un’aporia, e che gli uomini sono riusciti a creare un linguaggio che contiene al suo interno la sua stessa contraddizione, un linguaggio che è talmente raffinato da non potersi distinguere in quale punto faccia sul serio e in quale no, talmente complesso da arrivare a comprendere anche la propria negazione, perché il suo potere non è produrre, ma significare.

 

Shaggs 4

Anche Kurt Cobain era un grande fan delle Shaggs

 

E questo le Shaggs hanno fatto. Consapevolmente? No, certo che no. Ma, a questo punto, che importa? Forse (sicuro) c’è qualcuno che sostiene che Philosophy of the world non è musica, che fa semplicemente schifo. Forse arriverà un Giovanni Storti del rock a dirci che Philosophy of the world, il suo falegname, con trentamila lire ce lo fa meglio. Ma noi guarderemo questa gente con occhi disincantati, consapevoli dello squarcio enorme che lacera l’arte, e che è allo stesso tempo la sua forza.

 

E quello che rimane da fare, alla fine, (e potremmo prenderla come regula universalissima, per dirla con Castiglione) è ascoltare.

 

*****

Se ti è piaciuto questo articolo leggi anche: Da Jad Fair a Bill Callahan – Una storia a bassa fedeltà.