Nelle parole del filosofo Walter Benjamin è facile trovare una lettura attualissima della decadenza artistica del mondo contemporaneo.

L’opera d’arte, qualsiasi sia la costituzione ontologica – dall’opera di un pittore a quella di un regista o di uno scrittore – rappresenta pur sempre un momento che spinge il soggetto che ne fruisce a generare forme di riflessione tra pensiero e ragionamento. L’impatto con l’opera costituisce una forma di autocoscienza generata da un rapporto visivo ed emotivo. Un momento quindi associativo dove il luogo comune ai soggetti diventa il processo di interpretazione del senso, una caratteristica, per dirla con Adorno, che risulta essere una forma di conoscenza che implica la consapevolezza della realtà, che a sua volta si manifesta come una realtà unicamente sociale poiché accomuna la gente di fronte l’opera.

 

A distanza di 76 anni dalla morte di uno dei più grandi pensatori e critici del Novecento, Walter Benjamin, è doveroso prendere in considerazione la sua teoria dell’arte, per speculare di fronte al senso e alla funzione dell’opera d’arte e dell’arte nella sua totalità, scontrandosi con un’orda capitalistica che ha invaso, mercificandolo, ogni tentativo di creazione artistica.

 

Walter Benjamin

E’ doveroso prendere in considerazione la teoria dell’arte di Walter Benjamin

 

Quando Benjamin dava alla luce L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), poneva le basi per una critica da muovere nei confronti di quel capitalismo che stava pervadendo ogni lato essenziale dell’opera d’arte. In particolar modo, la sua analisi partiva dal concetto di auracità, che si identificava con ciò che in generale per chi si occupava d’arte, rappresentava l’aspetto elitario di un’opera. L’aspetto elitario dell’opera d’arte è qualcosa che si lega intimamente al tempo in cui viene data alla luce. Quel momento, l’ hic et nunc, per definizione rende impossibile qualsiasi forma di riproducibilità in virtù dell’autenticità dell’identità originaria. In quest’ottica, la mera riproduzione tecnica dell’opera rappresenta qualcosa che compromette l’autenticità, ovvero, quella forma di negativo dell’originale.

 

L’epoca della riproducibilità tecnica, Benjamin la identificava con l’avvento di forme di riproduzione come il cinema, il museo o il disco che riproduce musica, tutte forme di reiterazione che contrastando quel carattere elitario dell’arte ne ricreano un carattere che agevola un’interpretazione di massa. L’arte subisce una trasmutazione nella propria essenza, ovvero, da strumento di conoscenza diventa strumento di intrattenimento che porta l’individuo  non più a riflettere e pensare in quanto soggetto, ma a diventare un oggetto passivo che  si convince che quell’opera collocata in un determinato museo, o quel film proiettato in un determinato cinema, è nient’altro che una forma di divertimento di una massa di individui.

 

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Quell’opera collocata in un determinato museo è una forma di divertimento di una massa di individui

 

La perdita delle cariche positive dell’arte evidenziata da Benjamin trova le proprie cause in un capitalismo che già negli anni trenta del Novecento pervade, egemonizzandosi, la vita dell’uomo. Oggi più che mai, sulla scia di Benjamin, osserviamo come il tardo-capitalismo abbia fatto e continui a fare il suo corso senza una vera consapevolezza dell’opera d’arte. L’epoca della riproducibilità tecnica, che nell’atto della riproduzione trova l’intima caratteristica essenziale dell’attività del creare, risulta permeata da un manierismo post-moderno che, veicolato dall’egemonia economica, non vede modo di arginarsi. Per dirla con Kandinskij a decadere è il mondo spirituale, che per secoli aveva fortificato la creazione artistica. Oggi quell’autenticità si scontra con l’impossibilità di posizionarsi alla base del momento creativo dell’artista.

 

Benjamin aveva preannunciato il destino dell’opera d’arte nella sua totalità, denunciandone la tecnicizzazione, poiché l’unica intenzionalità di fondo che muove il tutto è l’accumulo di denaro. Il prodotto non è apprezzabile perché ad essere premiato è un merito o un talento, ma in quanto vendibile e reificabile. Qui ritorna dunque quel cambiamento che già in L’opera d’arte il filosofo aveva riscontrato ai danni dell’arte, ovvero, che fosse diventata oggetto di divertimento e non di conoscenza e riflessione. Passando dal cinema, dalla pittura, giungendo alla pubblicazione di libri le cui vendite sono più importanti del senso delle parole che li costituiscono, bisogna ragionare sul fatto che oggi l’uomo non sente più la necessità di pensare, non sente più la voglia di decostruire il reale.

 

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Secondo Walter Benjamin l’uomo non sente più la necessità di pensare

 

Oggi la mutazione antropologica – che con le lucide critiche di Pier Paolo Pasolini ha riscontrato l’avvento del consumismo in Italia – , ha portato a normalizzare l’arte solo come frutto di riproducibilità tecnica, limite che soltanto attraverso una coscienza e conoscenza critica può essere sventrata e sconfitta.  L’opera d’arte,  in base alle strutture e alle sovrastrutture delle realtà che si susseguono nelle varie epoche, potrebbe rappresentare uno strumento di progresso delle idee e dei comportamenti degli individui che ne fruiscono e ne interpretano il senso.

 

Lo spessore culturale di un’epoca, come per riflesso su uno specchio, si ripercuote sui soggetti che ne costituiscono l’umanità. L’uomo possiede ciò che Gadamer definiva come pre-comprensioni, ovvero degli schemi concettuali che di fronte all’interpretazione non lo rendono una tabula rasa, ma al contrario, un qualcosa da completare.  Dunque, il rapporto tra interpretante e interpretato, dice Gadamer, sembra essere già scritto e necessita soltanto di essere consapevolizzato, cioè, ciò che deve essere compreso, in base alle pre-comprensioni, è già compreso e si identifica nel “circolo ermeneutico”. Quest’ultimo, un sistema che spiega il continuo giro di rimandi tra interprete-fruitore e oggetto d’arte interpretato,  sottende la necessità di contestualizzare gli schemi concettuali preesistenti, come il prodotto dello spessore dell’epoca.

 

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Lo spessore culturale di un’epoca si ripercuote sui soggetti che ne costituiscono l’umanità

 

Se oggi siamo in piena decadenza e la funzione dell’arte nella sua totalità ontologica, dal film, al quadro, al romanzo, risulta essere secondaria, non resta altro che ri-strutturare quei pre-concetti. Essendosi persa quell’auracità, l’arte crea così il nuovo ai fini di un richiamo all’utilizzo della ratio e si manifesta come un atto rivoluzionario. Sulla scia della lezione di Benjamin, serve una nuova forma di consapevolezza degli strumenti dell’arte.

Emblematiche risuonano a riguardo le parole di John Dewey, in “Arte come esperienza” (1934) :

 

“… le arti che oggi hanno maggiore vitalità per l’uomo medio sono cose che egli non considera arti: ad esempio, il cinema, la musica, il jazz, le strisce umoristiche e, fin troppo di frequente, i resoconti giornalistici di intrecci amorosi, omicidi e imprese banditesche. Infatti, dal momento che ciò che egli riconosce come arte è confinato in musei e gallerie, l’impulso indomabile verso esperienze in se stesse godibili trova solo gli sbocchi che offre l’ambiente di tutti i giorni. Più di una persona che protesta contro la concezione museale dell’arte continua a condividere l’idea errata da cui scaturisce quella concezione. Questo perché la nozione comune deriva da una separazione dell’arte dagli oggetti della scena quotidiana.”

 

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