Il romanzo di Bradbury è un decalogo di tutte le peggiori paranoie del mondo odierno.

Non è facile approcciare il racconto di una perla come Fahrenheit 451, breve ma intenso romanzo di Bradbury, maestro della fantascienza distopica e veggente narratore della società di oggi che si va ad accodare, nel solco tracciato da A. Huxley con Il mondo nuovo, e da G. Orwell con 1984, a quel filone di fantascienza applicato alle società future, formando una sorta di imperdibile trilogia del genere.

 

Fin dalle prime battute siamo catapultati in un futuro non meglio precisato, in cui tutto sembra paradossalmente capovolto: i pompieri, di cui fa parte il protagonista Montag, anziché spegnere il fuoco, sono adibiti ad appiccarlo, solo più tardi si capirà a quale scopo. Il nostro vigile è un convinto sostenitore della società in cui si viene a trovare, e rispetta, come tutti, il suo ruolo. Fino all’incontro con Clarisse, una giovane che ha una concezione della realtà del tutto diversa.

 

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La vita di Montag cambierà con l’incontro con Clarisse

 

Dai dialoghi fra i due il lettore comincia a intravedere quali siano le regole di questa nuova umanità futura, un’umanità che non si sofferma su nulla e vive a una velocità forsennata, ben rappresentata dalle auto del futuro, che corrono velocissime sulle strade e per le quali devono essere costruiti cartelloni pubblicitari più lunghi in modo da essere visibili nella distorsione della prospettiva. La ragazza vive in un limbo che appare al protagonista in bilico sul confine della follia, tuttavia le si affeziona, per la sua capacità di metterlo di fronte a delle domande che già esistevano in lui, ma che non erano mai riuscite ad emergere.

 

Primo su tutti il dubbio relativo al suo lavoro, e ad una lontana epoca in cui forse dei pompieri c’era bisogno per spegnere i fuochi e non per appiccarli con il cherosene. È una società che ha nascosto tutto sotto una coltre di nebbia, o meglio di fumo, oscurando il passato con la dimenticanza e allontanando gli uomini gli uni dagli altri. Sorge così la riflessione sulla memoria e sulla trasmissione di essa affidata ai libri, che sarà il grande tema di questo libro, la cui data di nascita non poteva che essere di poco posteriore alla seconda guerra mondiale e ai suoi orrori, ben presenti negli occhi di Bradbury. Questo tarlo lavorerà sotterraneamente nella coscienza di Montag, che vorrà sapere sempre con maggiore bramosia quello che è stato: il prima.

 

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L’incipit di Fahrenheit 451

 

Di contro a questo soggetto che si pone domande c’è la moglie, Mildred, che al contrario si trova del tutto immersa in questa società nella quale a dominare sono una beata ignoranza e una totale assenza di dolore e di una socialità che vada al di là di attività preconfezionate.

 

“Non mi sembra sociale riunire un mucchio di gente per poi non farla parlare, non sembra anche a voi? Un’ora di lezione davanti alla TV, un’altra ora di pallacanestro, o di baseball o di footing, un’altra ora di storia riassunta o di riproduzione di quadri celebri e poi ancora sport, ma capite, non si fanno domande, o almeno quasi nessuno le fa; loro hanno già le risposte pronte, su misura, e ve le sparano contro in rapida successione, bang, bang, bang, e intanto noi stiamo sedute là per più di quattr’ore di lezioni con proiezioni. Tutto ciò per me non è sociale. […] ci riducono in condizioni così pietose, quando viene sera, che non possiamo fare altro che andarcene a letto o rifugiarci in qualche Parco di divertimenti a canzonare o a provocare la gente, a spaccare i vetri nel Padiglione degli spaccavetri o a scassare automobili, nel Recinto degli scassamacchine, con la grossa sfera d’acciaio. O non ci resta che salire in macchina e correre pazzamente per le strade, cercando di vedere quanto da vicino si possono sfiorare i lampioni” 

 

fa notare Clarisse a Montag. “Stupidi e felici” poteva essere il motto portato avanti nei fatti, ma mai esplicitamente affermato, dai capi di questa nuova umanità che nella notte mandano i medici a fare la lavanda gastrica a chi ha ingerito troppe pillole perché la felicità ha per un attimo vacillato.

 

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Nella società di Fahrenheit 451 a dominare sono una beata ignoranza e una totale assenza di dolore

 

Un’altra caratteristica di questa società è la mancanza di tempo, non c’è spazio per pensare (nelle case le pareti sono schermi che proiettano vicende della famiglia, come se tutto fosse una serie televisiva che non finisce mai), per soffermarsi ad ammirare un paesaggio (come fa Clarisse), men che meno per leggere un libro (oggetto altamente proibito per la sua pericolosità). Ma Montag ormai non ci sta e vuole vederci chiaro, andando a trovare un uomo che sospetta essere un sovversivo, Faber.

 

Si rende così conto di non essere solo nella sua impresa di voler salvare l’umanità da un’omologazione al ribasso, e nonostante le persecuzioni del segugio meccanico, l’argutezza delle investigazioni e le obiezioni che gli vengono fatte in un mirabile duello dialettico dal suo capo, il capitano Beatty, Montag è deciso ad andare controcorrente e per la sua strada fino alle estreme conseguenze: alla ricerca dell’“uomo allo stato di cultura” che vive in attesa di una dissoluzione della società esistente per rifondare un ordine nuovo, partendo dalla memoria da sempre affidata ai libri, attribuendo all’umanità la capacità di rifondarsi dalla distruzione come la fenice e lasciando un alone di speranza negli insegnamenti di Granger, personaggio che Montag incontra a fine libro.

 

“C’era un buffissimo uccello chiamato Fenice […] ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci si immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatta. Conosciamo bene tutte le assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di saperlo, un giorno o l’altro la smetteremo di costruire i nostri fetenti roghi funebri e di saltarci sopra. Ad ogni generazione raccogliamo un numero sempre maggiore di gente che si ricorda […] E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tale quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra”.

 

Ma non c’è solo questo (che già non è poco) nel meraviglioso ed ammaliante testo di Bradbury, dove non manca un’attenzione maniacale al linguaggio, che vede opporre sempre immagini e parole legate al campo semantico del fuoco, che, dalla luce iniziale, manda poi un fumo oscuro; fino a quelle più beate che rimandano alla purezza dei toni chiari, candidi e sicuri. Seppure queste tonalità di chiaro, nell’oscurità e in mezzo ai fumi, siano difficili da percepire, non per questo mancano, e vanno appunto inseguite.

 

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In Fahrenheit 451 il fuoco dalla luce iniziale, manda poi un fumo oscuro

 

Molte sono anche le citazioni che si trovano nel testo, prese ovviamente e coerentemente col tema, dai libri, delle quali sia “i buoni” che “i cattivi” si servono per portare avanti le proprie argomentazioni. Rileggere oggi questo testo serve a non arrendersi al facile e all’ovvio, a non fare occupare il nostro prezioso tempo da attività che tengono impegnata la mente a lavorare sotto-ritmo.

 

Particolarmente attuale l’escamotage degli schermi al posto delle pareti delle case, che non lasciano spazio a un muro bianco da fissare; peccato che Bradbury non poteva immaginare che quegli schermi non si sarebbero limitati solo alle nostre case, ma avrebbero invaso anche l’intimità delle nostre tasche e ogni pausa della nostra vita, distogliendoci e facendoci dimenticare un aspetto che va scomparendo: quello della pura attesa, della riflessione su cose semplici e quotidiane apparentemente insignificanti, come ad esempio ripensare a come abbiamo detto buongiorno a una persona cara, mentre ci troviamo alla fermata nell’autobus; oppure ci fanno perdere il piacere di smarrirsi per le vie di una città e magari chiedere un’informazione a un passante, invece di arrivare infallibilmente al traguardo con i nostri sofisticati navigatori. 

 

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