La Haine è un film con Vincent Cassel sull’odio metropolitano della nostra generazione.

Come ogni mattina faccio colazione mentre scorro annoiato i titoli del quotidiano online. Quando sto per chiudere la pagina e servirmi il caffè ormai pronto sul fuoco, una notizia cattura la mia attenzione.

 

 “Una squadra di terza categoria è scesa in campo con la faccia pitturata di nero. Il gesto è stato fatto per esprimere solidarietà ad un compagno di squadra di origini togolesi che, in seguito ad insulti discriminatori, aveva reagito guadagnandosi un cartellino rosso“.

 

Tra le tante voci che urlano al razzismo italiano, una notizia in controtendenza. Un ghigno si disegna sul mio volto e, senza nemmeno realizzare, volo con la mente da tutta un’altra parte.

 

Sono a Parigi. Il tempo incerto e le tinte scure dipingono la città con toni più boéhmien del solito. Siamo in un cafe, dietro al Pompidou. Qualche birra e molte sigarette. Fiumi di parole e discussioni intense, intervallate dal classico ‘Hey, guarda quella tipa!’. Alla chiusura del cafe non è ancora ora di andare a letto. Compriamo un whisky ad una ‘alimentation general’ e continuiamo a ingannare il tempo con i nostri discorsi, bagnati ora dal malto d’oro dell’alcolico. Finisce anche il whisky e arriva il momento delle grandi decisioni. Continuare la serata o rincasare? La procedura è standard. Da copione. Apri il portafogli, fai il check delle finanze e applichi la regola: ’sopra trenta euro si sta fuori, al di sotto è ora di rientrare’. E’ così che io e i ragazzi ci dividiamo, loro hanno più cash (o applicano la regola con una soglia più bassa), è giusto che facciano mattina inseguendo qualche fanciulla o, più poeticamente, i loro sogni. Osservo così le loro sagome sciogliersi nella nebbia mentre mi riparo sotto la pensilina dei bus notturni. Sono a Chatelet, snodo importante al cuore della città, in attesa del bus che mi porti dritto sotto le coperte.

 

Come spesso succede attacco a fare conversazione. Parlo con K., un ragazzo dell’Angola. Proprio in quei giorni sto scrivendo un saggio sul Botswana per l’università, dunque sono particolarmente interessato a storie e questioni riguardanti l’Africa sub-sahariana. Ci mettiamo a conversare. Mi spiega che parla portoghese per via del passato coloniale della sua nazione. Mi racconta in breve come la sua storia sia intrecciata con quella dell’Angola. E che vive a Parigi da tanto, dopo esservi immigrato una ventina d’anni prima. La guerra civile che seguì all’indipendenza ottenuta nel 1975 ha, a suo dire, reso invivibile un paese già complesso. Le risorse naturali e minerarie del paese sono molte ma mancano le infrastrutture per lasciare che esse siano gestite dagli angolani invece che da potenti multinazionali. La povertà e il tasso di mortalità sono alti e la ricchezza è nelle mani di pochi. Queste, e qualche conoscenza in Francia, le ragioni che lo hanno portato all’estero. Non gli chiedo come sia stato il viaggio che lo ha portato in Francia, non mi sembra il caso. Mi dice che è sposato e che ha dei figli. Quando la confidenza aumenta mi spingo un po’ più in là e chiedo cosa ne pensa del livello di integrazione a Parigi.

 

La domanda mi viene naturale. Non pensando che si possa definire la società italiana come multietnica, mi chiedo cosa un extracomunitario pensi di una città che, a mio dire, lo è. La situazione sfugge di mano. Non so bene cosa sono andato a risvegliare in K. I suoi occhi trasmettono rabbia, mi fissa. Pensa. Prende fiato e con un filo di voce mi dice ‘Non c’è integrazione. Ero un Negro quando sono partito e sono ancora un Negro venti anni dopo. Sei soddisfatto della mia risposta Bianco fottuto?’. La situazione si fa tesa, un ragazzo marocchino capisce, calma K. e lo tiene a distanza. Una fermata prima di scendere l’angolano si scusa e, per farsi perdonare, mi invita a conoscere la sua famiglia. Rispondo che non c’è problema ma che sarà per un’altra volta. ‘Adieu K. C’était un plaisir de te connaitre’. Mentre pronuncio quelle parole mi rendo conto che sono strano.

 

Scendo dall’autobus e rifletto, mentre cammino verso casa. Accendo una sigaretta e la prima boccata mi risveglia in gola il sapore del whisky che mi ha reso così loquace. Capisco solo dopo un po’. Sono ferito. In passato sono stato chiamato ‘italiano’ o ‘forestiero’ con un’accezione offensiva, ma non aveva fatto così male. Era la prima volta che venivo discriminato per un motivo per cui non vi possono certo essere colpe, il colore della mia pelle. E’ questo che mi ha tremendamente ferito. Guardo il cielo, vi sono un sacco di colori lassù, specie ora che un’alba arancione si è tuffata nella notte, scacciandola. A volte il cielo di Parigi mi fa credere che Dio esista. Guardo ancora tutti quei colori e un sorriso triste mi appare sul viso. Mi continuo a ripetere che il razzismo non esiste e che i confini di questo sono delineati dall’ignoranza e dalla paura. Che esista o meno, ora so che fa veramente male.

 

‘Aaah! Cazzo!’, è un dolore acuto anche quello che mi risveglia dal mio sogno ad occhi aperti riportandomi in cucina: mi son versato il caffè sulla mano… Che anche questa giornata abbia inizio.

 

Film consigliato: La haine (L’Odio) o canzone a tema ‘La Rage’ di Keny Arkana, a voi la scelta.