Tradizioni secolari, trekking estenuante e paesaggi dalla bellezza impressionante.

Chandra mescola il latte che ha appena munto con garbo, avendo cura che si riscaldi uniformemente nel tegame d’ottone. Preparare un ottimo massala chai è un’arte in Nepal e lui ci si applica come se la sua stessa vita ne dipendesse. Tutt’attorno, Krishma e Krishna fanno un baccano incredibile. Sono eccitatissimi dalla nostra presenza e l’addio si prospetta già complicato. Soprattutto per Morgane, giovane insegnante di scuola elementare, già innamorata di questi due pargoli iperattivi. Le lezioni sono sospese ma non possiamo restare a giocare con loro, dobbiamo riprendere il cammino per Pokhara dove inizieremo un altro trekking dopo aver riposato i nostri corpi esausti. Abbiamo bruciato le tappe sul ring del Panchase per via del maltempo e adesso i quadricipiti domandano pietà. E pensare che il Panchase è considerato come una “collina” dai nepalesi (circa 3000 metri).

Città principale del distretto di Kaski e secondo centro del paese, Pokhara è il punto di partenza dei trek dell’Annapurna, celebri per i loro panorami mozzafiato. Il quartiere che costeggia il lago è stato radicalmente trasformato dal turismo di massa. In molti noleggiano delle piroghe per attraversare il lago Phewa e approfittare della vista sul tetto del mondo. Ristoranti e boutique di chincalglieria spuntano come funghi in un’atmosfera consumistica lontana anni luce dalla semplicità delle campagne circostanti. Abbagliati dallo scintillio accecante di Lakeside decidiamo di visitare la città vecchia e lasciarci il brusio alle spalle. La calma che regna vicino al tempio di Bindabasani è talmente piacevole che ci attardiamo a bere della birra locale in compagnia di alcuni ragazzi tibetani. Abitano tutti nel campo profughi costruito dopo l’invasione cinese del Tibet e da allora le loro famiglie non hanno più lasciato il paese. Mentre alcuni di loro mostrano a Marta e Morgane dei video in cui si cimentano in complicate creazioni artistiche con la schiuma del cappuccino, un giovane mi confida tristemente di non poter viaggiare poiché apolide. La Cina esercita pressioni sul governo nepalese perché ai tibetani non venga rilasciato il passaporto, mi spiega. E il Nepal, alla ricerca di partner commerciali per non soccombere sotto il peso del cugino indiano, si mostra conciliante.

 

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Campi coltivati nella valle del valle del Seti.
© Marta Cazorla Soult

 

Il giorno seguente ci rimettiamo lo zaino in spalla e partiamo alla volta di Ghachok, un villaggio ai piedi del Machapuchare, uno dei picchi più suggestivi della catena dell’Annapurna. Con Marta e Morgane abbiamo deciso di attraversare la foresta ed i villaggi della regione piuttosto che fare dell’alpinismo. Il desiderio di conoscere meglio usi e costumi di questi popoli è più forte della voglia di sfidare i pendii scoscesi che disegnano il profilo del Nepal. Dopo svariate ore di marcia sotto un sole rovente ed aver dibattuto ad ogni svolta del sentiero, giungiamo infine a Ghachok che ancora fa giorno. Il villaggio è situato su un altopiano costellato di campi e suggestive case in stile Newar, sulle colline adiacenti le coltivazioni si dispongono su terrazze sempre più ripide. I pochi abitanti che incontriamo ci salutano calorosamente e ci invitano a proseguire sul sentiero principale fino ad arrivare ad un casolare interamente rinnovato. Annapurna Mon Village è il risultato del lavoro di Basanta, guida locale, e Thomas, cooperante di origine francese. Insieme hanno deciso di mettere su un B&B in stile tradizionale che offra diversi servizi ai viaggiatori e che permetta di investire una parte dei ricavati in attività utili per la comunità. Le buone vibrazioni e la stanchezza ci invitano a trascorrere la notte in quest’oasi sonnolenta nella valle del Seti. Dopo aver degustato l’immancabile dal bhat, -pietanza locale a base di riso bianco, zuppa di lenticchie e verdure saltate nel curry e altre spezie-, Thomas ci invita tutti a sedere intorno al fuoco acceso per l’occasione. Facciamo allora la conoscenza di altri due soci : Chris e Hugo. Tedesco di nascita e nepalese di adozione, Chris è nel paese da diversi anni e ha visto la società nepalese cambiare profondamente. “Durante la guerra civile c’erano posti di blocco ovunque e i maoisti in pratica controllavano le montagne e le zone rurali”, ci racconta tra un tiro di sigaretta e l’altro. “È là che vivono gli strati più poveri e cosi’, facendo leva sul malcontento popolare, i maoisti miravano a rovesciare la monarchia parlamentare”. Il Nepal mostra gravi iniquità nella distribuzione della ricchezza: la maggior parte della produzione agricola è concentrata nelle regioni a ridosso dell’India, più fertili e pianeggianti. Il centro economico del paese si situa nella congestionata valle di Kathmandu che, per ironia della sorte, è stata anche la più duramente colpita dal terremoto del 2015. Nonostante possieda ingenti risorse idriche, il Nepal dipende da India e Cina per sopperire ai suoi bisogni energetici e rimane, tra l’altro, il paese più povero d’Asia. E come se non bastasse la corruzione è endemica e ha proteso le sue grinfie perfino sugli aiuti internazionali ricevuti dopo il sisma.

Stordito dal calore del falò mi addormento quasi immediatamente nella branda che i nostri ospiti hanno preparato per noi. Sul villaggio regna un silenzio interrotto da brevi latrati, miagolii e il ronzio degli insetti. Mi lascio cullare dalla melodia della notte ma è un sonno effimero perché alle 4 e 30 Hugo già bussa alla nostra porta. Vuole mostrarci i colori del sole nascente su Ghachok dal suo punto panoramico preferito. Hugo è un tipo in gamba: ex graffitaro andorrano, adesso vive a Ghachok per dedicarsi anima e corpo al B&B. Parla diverse lingue e spesso accompagna gruppi di viaggiatori in escursioni sulla catena dell’Annapurna. Sono infatti già alcuni anni che vive in Nepal, viaggia da un capo all’altro cercando di limitare al massimo le spese. Mentre avanziamo sul sentiero mi racconta delle meraviglie della regione di Dolpa e del deserto del Mustang, due distretti che per lungo tempo sono rimasti inaccessibili agli stranieri, della terra degli Sherpa ed i suoi villaggi d’alta quota dai tetti sgargianti, delle rigogliose foreste del sud e mille altri luoghi affascinanti. Purtroppo per noi, non abbiamo abbastanza tempo per vederli tutti. Per quanto di taglia modesta, il Nepal cela una miriade di perle rare. Ma per il momento dobbiamo accontentarci dei bei racconti di Hugo mentre il sole spunta da dietro le maestose montagne dell’Annapurna.

 

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Il picco del machapuchare (sulla sinistra).
© Marta Cazorla Soult

 

Poche ore dopo riprendiamo il nostro viaggio alla volta di Bandipur, uno sfizioso villaggio Newar arroccato sulle montagne a metà strada fra Pokhara e Kathmandu. La scelta di fermarci a Bandipur non è solamente estetica, bensì dettata dal buon senso: sebbene pochi chilometri separino i due centri principali, il tragitto è assai lungo e non confortevole. Un’autostrada a una corsia permette di attraversare il paese in quella direzione e le file sono dunque all’ordine del giorno. Questo è il prezzo da pagare se si vuole evitare di prendere sgangherati aerei 8 posti per arrivare in 20 minuti da Pokhara alla capitale, un’esperienza che sconsiglio ai più suggestionabili. Il villaggio di Bandipur conserva intatta la sua immagine da cartolina che lo rende ormai una tappa nota ai più. Il piccolo tempio-pagoda di Bindebasini domina la piazza principale racchiusa fra le dimore dei mercanti Newar, la cui fortuna è a lungo dipesa dalla posizione del villaggio sulle rotte commerciali verso il Tibet. Quando il vento è cambiato in molti hanno abbandonato Bandipur. Il segno dell’architettura Newar è tuttavia rimasto e ha permesso agli abitanti di vivere del turismo crescente. Il popolo Newar, costretto a migrare a causa delle altre etnie, prima fra tutte l’etnia dei celebri guerrieri Ghorka, si è sempre distinto per la qualità artistica delle loro costruzioni. Ed è facile indovinare come mai soggiornando nella romantica Bandipur.

 

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Esempio di stile Newar.
© Marta Cazorla Soult

 

Quando la notte cala sul villaggio, le attività cessano e il silenzio fa da padrone dappertutto. O quasi. Un suono di percussioni ci attira verso una strada secondaria dove troviamo alcuni abitanti prodursi in balli e canti tradizionali. Tre musicisti, sorridenti sotto i coloratissimi topi, suonano il madal per dare il ritmo mentre donne e uomini si alternano nel canto. Una giovane infermiera del luogo ci spiega che si tratta di una competizione in vista del nuovo anno nepalese. Uomini e donne si sfidano nella danza e ci invitano a partecipare alla competizione. Facendo sfoggio della mia scoordinazione mi attiro gli applausi politicamente molto corretti degli avversari. Dopodiché decido di sedere e limitarmi a contemplare questa sfida consumarsi in un clima di festa.

 

Il mattino presto riprendiamo la rotta per Kathmandu con la speranza di metterci solo poche ore. Una speranza vana poiché non abbiamo fatto i conti con il traffico della capitale, ancor più congestionata sullo snodo dell’autostrada. I colpi di clacson e lo smog assai denso ci ricordano che la tranquillità di Bandipur è un lontano ricordo e giungiamo alla stazione dei pullman che è già pomeriggio inoltrato. In uno stato febbrile decidiamo di andare immediatamente in un posto dove poter assaporare un po’ di ascetica tranquillità: Pashupatinath, il tempio di Shiva. In questo tempio, uno dei luoghi più sacri di tutto il paese, sono cremati i defunti di religione indù che vogliono vedere le proprie ceneri disperse nel fiume sacro. Il fiume che scorre fra il tempio dai tetti dorati e gli altari della cremazione, conosciuto come fiume Bagmati, è difatti un affluente del Gange. I corpi dei defunti sono trasportati dalle famiglie che provvedono a lavarli nel fiume e avvolgerli in un sudario prima di deporli sulla pira. Alcuni mantra risuonano tutt’attorno. Il rito si svolge con calma e rispetto per le famiglie presenti, le esequie funebri a Pashupatinath riguardano tutta la comunità. L’odore che si sprigiona nell’aria è per me qualcosa di nuovo, un’esperienza sensoriale che si compie in questo spiraglio fra la vita e la morte. Non so bene se dovrei restare o andarmene per rispetto verso le famiglie e frattanto rimango imbambolato sui gradini sull’altra sponda del fiume. La repulsione ha invece la meglio su Morgane che decide di andarsene e aspettarci al nostro alloggio. Io e Marta restiamo là impalati, con un nodo in gola che tutto sommato non è poi cosi’ sgradevole, immobili per lunghi minuti prima di andarcene immersi nella luce del tramonto.

 

Khatmandu è una città unica nel suo genere, con i suoi templi nascosti da case decrepite e il suo traffico intenso che rende quasi impossile qualsiasi spostamento a piedi. Il terremoto ha compromesso gran parte del suo patrimonio culturale come testimonia Durbar square. L’imponenza di questo luogo mitico sembra compromessa per sempre anche se la sua aura rimane intatta. Il quartiere di Thamel, un tempo considerato come La Mecca degli hippies giunti per dedicarsi a lunghe sessioni di meditazione psicotropa, è oramai un dedalo di vie costellate di bar e ristoranti per turisti. E tutt’attorno la miseria è palpabile. Un gran numero di minori non accompagnati vivono di elemosina, si vestono e si nutrono nelle discariche e dormono per strada in angoli fetidi e malsani. E’ facile scorgere gruppi di bambini intenti a sniffare colla da un sacchetto e poi barcollare con la candela al naso e gli occhi iniettati di sangue. Tutto questo è alla luce del sole ma il governo non sembra disposto ad investire per risolvere il problema che sembra essere davvero grave. Il traffico di esseri umani è una piaga in Nepal: minori di ambo i sessi sono venduti come schiavi domestici, come operai in fabbriche tessili oppure costretti a prostituirsi. Spesso sono le famiglie stesse a vendere i più giovani di cui non sanno come occuparsi. Una ONG si è data come missione di salvare coloro che sono venduti dalle proprie famiglie fornendo una contropartita ai genitori che desistono. Il prezzo della vita umana è di qualche pianta da coltivare e un porcellino, un dato che la dice lunga sulla miseria delle aree rurali.

 

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Bodnath.
© Marta Cazorla Soult

 

La capitale tuttavia non offre solo immagini di disagio e povertà. È qui che si trovano Bodnath, il più grande stupa del paese che ospita le ceneri di Kashyapa, predecessore del Buddha Sakyamuni, e Swayambunath, il “tempio delle scimmie” la cui vista sulla valle di Kathmandu non ha rivali. Per visitare il più grande museo del paese bisogna invece spostarsi a Patan, soprannominata “la città dai mille tetti dorati” per via dei numerosi templi. La Durbar square ha resistito meglio al terremoto del 2015 e seppur di taglia modesta, vale la pena di visitarla per via del palazzo reale e i templi di Vishnu e Krishna, per non parlare dei santuari che popolano quella che era in antichità la capitale dell’impero Ashoka.

 

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Interno del palazzo reale di Patan.
© Marta Cazorla Soult

 

Tutti i tesori di Patan non bastano per competere contro il fiore all’occhiello della valle di Kathmandu. A qualche decina di chilometri dalla capitale si trova la città di Bhaktapur, capitale dell’antico reame Newar, come lo si può anche capire dallo stile del suo centro storico. Ciò che rende Bhaktapur la tappa imprescindibile di un viaggio in Nepal è anzitutto il suo eccellente stato di conservazione. La città vecchia, accessibile esclusivamente a piedi, è rimasta pressoché intatta, al contrario di Kathmandu e Patan, parzialmente divorate dal progresso. Senza temere un traffico selvaggio è possibile perdersi tra i vicoli che portano sulle piazze principali, gioielli di rara bellezza. Taumadi Tole, dove si trova il mercato e il meraviglioso tempio di Nyatapola, è dove abbiamo passato la maggior parte del nostro tempo, ipnotizzati dai gesti misurati dei mercanti mentre degustiamo il Juju Dhau, considerato il re degli yogurt. Altro luogo dove il tempo sembra si sia fermato è la piazza del tempio Dattatraya. Si narra che l’intero edificio sia stato costruito con il legno di un solo albero. Le imponenti statue all’ingresso e il custode arcigno, intento a spazzare le scale e scacciare le capre che bivaccano sonnolente, rendono il quadro assai suggestivo al calar della sera.

 

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Vista su Taumadi Tole.
© Marta Cazorla Soult

 

A pochi metri di distanza si trova un ottimo ristorante Newar dove decidiamo di rifocillarci dopo ore trascorse errando per il borgo. La cucina è povera ma almeno cambia un po’ rispetto al classico dal bhat. Il proprietario insiste inoltre perché assaggiamo un alcol di riso che distilla lui stesso e che possiede insospettabili proprietà curative. Ne ho bevuto un bicchiere per vedere se mi avrebbe aiutato a digerire il pasto senza bruciarmi troppo le budella. Non so se ha funzionato ma ne ho comunque acquistato una bottiglia prima di lasciare il ristorante. Dopo alcuni bicchieri di nettare Newar ci decidiamo a rientrare per approfittare del’ultimo giorno di viaggio sin dal mattino. Coincidenza vuole che sia anche l’ultimo giorno dell’anno secondo il Vikram Samvat, il calendario indù, e che Bhaktapur sia una meta raccomandata per assistere ai festeggiamenti.

 

Già alle 9 del mattino migliaia di persone si accalcano nella piazza detta del “vasellame” per via delle ceramiche che vi sono prodotte. Al centro della piazza giace un tronco d’albero altissimo che gli abitanti devono issare prima del tramonto per assicurare fortuna e prosperità alla città. Solamente gli uomini sembrano avere diritto a partecipare: i più anziani sono a capo delle funi legate al tronco mentre i giovanissimi si dispongono all’estremità. Occorrono molti tentativi per raggiungere il traguardo, ogni colpo di reni è ritmato dalle percussioni che suonano alcuni bambini tutt’attorno. La loro bravura mi impressiona al punto che mi concentro esclusivamente sulla loro musica, la cui ripetizione, come una vecchia litania, mi stordisce sotto il sole cocente. Simultaneamente un gigantesco carro in legno intarsiato viene trainato da un punto all’altro della città, i ragazzi si arrampicano sui differenti piani impilati e gli astanti intonano canti tradizionali. Tuttavia io resto concentrato sui giovani musicisti che aumentano la cadenza dei loro colpi senza sosta, almeno fino a quando Morgane non mi ricorda che dobbiamo rientrare a Kathmandu per recuperare il nostro bagaglio all’ostello e prendere l’aereo per Parigi.

 

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Festeggiamenti per l’anno nuovo a Bhaktapur.
© Marta Cazorla Soult

 

Al bar dell’ostello decido di concedermi un’ultima Nepal Ice, una birra locale piuttosto forte e mediocre. Il ragazzo della reception mi raggiunge sulla terrazza dove cominciamo a parlare del più e del meno. Viene da un villaggio non lontano e da qualche anno vive nella capitale per lavorare e pagarsi un corso d’Inglese. “Vuoi andare a studiare o a lavorare all’estero? Dove ti piacerebbe andare?”, gli domando. Al che mi risponde con una gentilezza di cui molto spesso hanno fatto prova le persone incontrate sul nostro cammino:

“No no, sto studiando inglese perché voglio lavorare come guida con gli stranieri che vengono a fare trekking qui. Non voglio lasciare il Nepal, è il paese più bello del mondo.”

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