Un romanzo di quattrocento pagine che finisce con un punto interrogativo. Questo è ciò che lo rende grande» (The New Yorker)

Di solito non scrivo recensioni su autori di cui ho letto soltanto un’opera, ma prendendo in mano Pastorale americana ho capito che mi trovavo davanti ad un romanzo che parla da solo, a pagine scritte con estrema chiarezza, a un autore che parla ad un’intera nazione e al mondo intero.
Philip Roth, – in quello che a detta di tutti è il suo miglior libro – inizia la sua epopea in modo autentico e calibrato, ci introduce nella vita dello Svedese tramite gli occhi del suo alter ego Nathan Zuckerman, con uno sguardo che inizialmente è di spassionata ammirazione.

 

“Lo Svedese brillava come estremo nel football, pivot nel basket e prima base nel baseball. Soltanto la squadra di basket combinò qualcosa di buono (vincendo per due volte il campionato cittadino con lui come marcatore principale), ma per tutto il tempo in cui eccelse lo Svedese il destino delle nostre squadre sportive non ebbe troppa importanza per una massa studentesca i cui progenitori – in gran parte poco istruiti, molto carichi di preoccupazioni – veneravano il primato accademico più di ogni altra cosa…Ciononostante, grazie allo Svedese, il quartiere cominciò a fantasticare su se stesso e sul resto del mondo, così come fantastica il tifoso di ogni paese…L’assunzione di Levov lo Svedese a domestico Apollo degli ebrei di Weequahic si può spiegare meglio, credo, con la guerra contro i tedeschi e i giapponesi e le paure che essa generò. Con lo Svedese che furoreggiava sul campo da gioco, l’insensata superficie della vita forniva una specie di bizzarro, illusorio sostentamento, il felice abbandono a una svedesiana innocenza, per coloro che vivevano nella paura di non rivedere mai più i figli, i fratelli o i mariti”.
Così Roth ci introduce nel mondo dello Svedese nelle prime pagine del romanzo, ci mostra un uomo indistruttibile, osannato da tutti, il giusto dei giusti, alto, biondo e dalla mascella sicura.
Questa prima parte intitolata Paradiso ricordato ci descrive in maniera maniacale i successi dello Svedese ai tempi del liceo, sempre presente sui campi da gioco, portato in voce dalle “ragazze pon pon che avevano un urrà apposta per lui”; e i successi ancora più grossi negli anni della maturità, l’aver sposato Miss New Jersey, la ragazza più bella del paese, l’aver preso in mano la gloriosa fabbrica del padre e l’essere riuscito a renderla ancora più grande, tutto questo sembrava assicurare allo Svedese un futuro roseo e senza intoppi, un destino segnato dalla nascita.
Ma il meccanismo perfetto di Roth, non dissimile ad un’operazione chirurgica, incrina la vita ampollosa di Seymour Levov, e perfettamente in tempo con il finale di questa prima parte arriva la bomba. Improvvisamente tutto fa crack, la vita dello Svedese e di una nazione intera, un popolo che credeva nel sogno americano incarnato da questo biondo e slanciato ebreo.
Merry, figlia forse anche troppo amata, sempre tenuta sotto la grossa ala dorata del padre perfetto, piazza la bomba; un uomo a caso muore, è la terrorista di Old Rimrock, è lo scandalo di un villaggio, è la fine di un uomo.

 

La seconda parte La caduta (non poteva che intitolarsi così) dà quasi un po’ di speranza allo Svedese, che in uno dei pezzi più belli e significativi del romanzo conosce una ragazza pallida e minuta, una presunta studentessa della Wharton School della Pennsylvania, che gli chiede tutto sul suo lavoro, sulla fabbricazione dei guanti, proprio all’interno della sua amata fabbrica.
Ovviamente non può sapere che quella Rita Coehn che sta ospitando in uno dei luoghi a lui più cari è l’origine di tutto, la ‘carnefice’ di sua figlia, fautrice di tutto quello che Merry ha imparato sulla lotta alle oppressioni, sul ribellismo, e inevitabilmente sul sangue che dev’essere versato.
Ma poi, alla fine della visita alla fabbrica, tutto gli verrà svelato: “Vuole il suo album di Audrey Hepburn”. Sette semplici parole.
E da lì, quell’ammirazione spassionata che Roth ha avuto per il suo personaggio si trasformerà in spietatezza verso lo Svedese dalla vita perfetta, verso quell’uomo vissuto sotto una campana di borghesismo cieco, una spietatezza manifestata negli svariati incontri con Rita Cohen, che non gli chiederà più informazioni sulla fabbricazione dei guanti ma lo attaccherà verbalmente sbattendogli in faccia tutto quello che di guasto c’è nella sua vita, tutto quello che ha sbagliato nei confronti della giovane Merry, gli stereotipi di una vita intera.
Le aggressioni di Rita sono quanto di più crudele c’è nella vita, e lo Svedese incassa, crolla, ma cerca di resistere, tutto pur di rivedere quella figlia che ormai non gli appartiene.
E poi, l’incontro tanto atteso: dopo la sofferenza finalmente una speranza di riconciliazione. Ma Merry è troppo cambiata, Seymour Levov capisce che è una battaglia persa, ormai il lavaggio del cervello è già stato fatto, li separa una distanza incolmabile, la distanza dei tempi che sono passati, gli anni Cinquanta sono un sogno perduto, i Settanta impazzano in tutto il loro ardore e Merry è figlia di quegli anni, non appartiene alla generazione del padre, quando ancora il sogno americano conquistava i cuori e le speranze della gente.

 

Nella terza ed ultima parte Paradiso perduto, il crollo continua, alternato dai ricordi dell’innocenza perduta, a quando Merry apriva il cancello di casa con la punta di un bastone; ma la caduta non riguarda solo lo Svedese, si frantuma tutto quello che gli sta intorno.
La moglie Dawn, allevatrice e mungitrice di vacche che non disdegna un lifting a Ginevra di tanto in tanto, non ama più quella vita all’apparenza perfetta, e allora come se non bastasse si fa trovare china sul lavello col vicino Orcutt, lo Svedese osserva e non si rende conto di come stia crollando tutto a pezzi, di come non ci sia più nulla di integro intorno a lui.
Philip Roth trasforma la spietatezza in tenerezza guardando al suo personaggio con occhio vigile e disincantato, quell’occhio che osserva con compassione lo Svedese e lo specchio che fa del suo popolo e della sua nazione.