Un’originale riflessione sulla drammatica vicenda di Stefano Cucchi. L’amara constatazione che la storia potrebbe ripetersi una, cento, mille volte ancora

 

Forse il suo è un cattivo rapporto con la porta. Forse il suo è un cattivo rapporto con la forza.

Tutte le volte che fa il suo ingresso in casa, il suo saluto consta nell’imprimere una forza almeno quattro volte superiore a quella che servirebbe per chiudere quella maledettissima porta.

 

Nessun saluto. Solo il boato.

 

Ed io, come un soccorritore dopo una calamità, lo vado a cercare in giro per la casa.

Vado diretto in camera ma non c’è; salone e cucina vuote. Vado in terrazza, anche lì nulla. Eppure la porta l’ho sentita. Poi negli occhi quelle immagini, i lividi, la sua magrezza.

 

Stefano non c’è più. Il suo sorriso…un lontano ricordo. Mi inginocchio, inizio a piangere.

 

Urlo. Urlo così forte che all’improvviso mi sveglio. Un sogno…piuttosto un incubo.

 

Mi volto e vedo mia moglie dormire. Mi alzo, madido di sudore…vado in camera di Riccardo. Dorme, nudo come al solito, con quella sua espressione che pure mentre dorme sembra dirmi” Che voi?” Bevo un bicchiere d’acqua e ritorno a letto.

 

La cicatrice percorre le tue spoglie. Stefano, non mi ero reso conto di quanto fossi diventato magro. Forse ci siamo allontanati molto negli ultimi tempi. Forse è stata colpa mia. La mia deficienza di comprenderti. Ti hanno arrestato un giovedì, il 15 ottobre del 2009, e il 22 ottobre eri già morto. Non mi ricordo avessi tutti quei segni. Il tuo corpo sembrava essere stato bastonato. Lividi in viso, schiena, gambe. Chi ti ha conciato così? Perché il giudice ti ha voluto tenere in galera?

 

Già..un po’ di galera…ho pensato che potesse servirti da lezione. Mi sento in colpa. Due vertebre rotte avevi quando ti hanno portato al Fatebenefratelli e un’emorragia alla vescica. Ti volevano ricoverare. Perché hai detto no? Te e quel tuo maledetto modo di essere uomo, fino all’ultimo.
All’udienza ti ho visto per pochi attimi poi non ci hanno più permesso di vederti. Quel giovedì te ne sei andato e non sei più tornato. L’ultimo ricordo che ho di te è quell’espressione seria e triste. Eri sdraiato su quel lettino di metallo. Ti ho riconosciuto. Eri tu. Ancora più magro. Quante botte però avevi preso in quell’ultima settimana. Perché quando hai potuto non me l’hai detto che ti stavano massacrando. Te e quel tuo maledettissimo modo di essere uomo.

 

La galera ti ha ucciso. La tua vescica danneggiata dalle percosse ti rendeva impossibile perfino urinare. Ti hanno lasciato senza acqua ne cibo. Un cucchiaino di zucchero, dicono che ti avrebbe salvato. La rabbia più grande è che tu sia morto nell’indifferenza in ospedale. Neanche lì si sono accorti della tua situazione? Che medici sono quelli che lasciano a se stesso e al suo maledetto modo di essere uomo, un ragazzo?

 

Non ci volevo credere. Mi ricordo le parole di quel politico…t’ha chiamato sieropositivo anoressico…Poi, sono iniziate a spuntare le testimonianze.

 

Pugni. Calci. Bastonate. Pesavi solo 43 chilogrammi, ragazzo mio. Cosa li ha spinti? Chi è stato? Perché?

 

Quella cicatrice che percorre le tue spoglie dopo l’autopsia. Una chiusura lampo nella tua e nella nostra vita. Tra quello che c’era prima e quello che non c’è più adesso.
Oggi, a distanza di cinque anni, dopo aver sperato in un barlume di giustizia, tutti gli imputati sono stati assolti, non per non aver commesso il fatto ma per assenza di prove.

 

Il tuo corpo martoriato non lo era?

 

Forse no. Non abbastanza. Oggi abbiamo pagato di nuovo noi. Hai pagato di nuovo te. Sei morto un’altra volta, anzi ti hanno assassinato ancora. Mi mancherai figlio.

 

Mi inginocchio, inizio a piangere.

Urlo. Urlo così forte che all’improvviso mi risveglio.

 

Mi volto e vedo mia moglie sempre dormire. Mi alzo, fradicio stavolta di sudore…vado in camera di Riccardo. Dorme, sempre nudo. Stavolta però voglio guardarlo, solo per pochi istanti. Si muove, respira. Improvvisamente apre gli occhi, mi guarda e mi dice ” Pa’ che voi?”.

 

“Dormi amore mio. Buonanotte”.

*****

“[…] Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte, micercarono l’anima a forza di botte”.