Io The Budos Band me la immagino come un collettivo di giganti, una catena di montagne musicali inscalabili, un Olimpo di persone illuminate che si uniscono sotto un unico ideale, un unico suono, un’unica attitudine. Me li immagino come nove titani che suonano batteria, chitarra, basso, fiati, tastiere e percussioni, creando una mistura caustica e oscura di funk, afro-beat, melodie orientaleggianti e ruvidissimo rock, traendo la propria forza ispiratrice direttamente dalle viscere di un vulcano. Sono invece nove esseri umani e come praticamente tutte le cose migliori del soul e della black music degli ultimi anni, incidono per la gloriosa Daptone Records, che mette sotto un’unica ala Sharon Jones & The Dap Kings, Charles Bradley, Lee Fields e Antibalas. Questo giusto per mettere le cose in chiaro. I meravigliosi dischi dell’etichetta di Brooklyn vengono incisi ai Daptone’s House of Soul dove, come ben specificato nella relativa pagina di Wikipedia, NON si incide in digitale bensì in analogico. La cosa strabiliante è che pur applicando dei metodi appartenenti ad un’epoca oramai passata, la grande Daptone è riuscita ad imporsi come label-leader sul mercato della black music non commerciale, pur riuscendo anche in territori mainstream ospitando nei propri studi il fortunatissimo “Back To Black”, della compianta Amy Winehouse per la quale gli alfieri di casa, The Dap-Kings, hanno fatto da backing band per il tour del 2007.

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Dopo quattro interminabili anni dal loro ultimo album, The Budos Band tornano in studio regalandoci “Burnt Offering”, la cui aria minacciosa è subito dichiarata dall’illustrazione di copertina su cui campeggia un misterioso stregone indicante l’infinito, accanto a lui un braciere su basamento di teschi umani che esala copiose nuvole di fumo grigio. Nonostante queste fascinazioni fantasy, le coordinate musicali rimangono le stesse: grandi riff e motivi fiatistici ci guidano in un mondo tarantiniano in cui facilmente possiamo immaginarci eleganti killer camminare per strada, mentre una sezione ritmica pazzesca incastra ritmi degni dei migliori J.B.’s con con un basso super-groove e chitarre taglienti. In questo nuovo album la band sposta il baricentro verso territori più heavy, giocando a fare la prog-rock band che si infatua per il funk e non viceversa. La prima traccia “Into the Fog” apre ruvida su di uno sfrigolante accordo di organo di floydiana memoria, in “The Sticks” e nella torva “Shattered Winds” il trucco che fa stare la band in bilico fra psych-beat e heay-funk è giocato con maestria disarmante e sembra di sentire i Kula Shaker che guardano verso l’Africa anzichè verso la penisola indiana. In “Aphasia”, terza traccia dell’album, la fanno da padrone le suggestioni 70s delle chitarre del mitico Thomas Brenneck. L’album gira e brucia, rimanendo in bilico sulle fiamme dei suoi piedistalli pur avvicinandosi, in alcuni episodi, a quanto già sentito nei suoi predeccesori. Si arriva poi al grande brano conclusivo “Turn and Burn”, una cavalcata di quasi sei minuti in cui tutti gli ingredienti vengono portati alle estreme conseguenze: tappeti di organo, ammalianti linee dei fiati, potenti groove di batteria accompagnati da suadenti congas; nel suo lungo sviluppo il brano si dilata, si apre, lasciando partire soli ipnotici per poi richiudersi e finire, psichedelico, sugli effetti dell’organo che muore in una sorta di cupo ruggito lamentoso. Rivede tutti, ORA, le vostre classifiche per l’album più bello dell’anno.