L’ennesimo school shooting, alla Marysville-Pilchuck High School, ci ha portato a chiedersi cosa determina tali comportamenti e come prevenirli.

I fatti occorsi in questi giorni a Seattle hanno riportato alla luce un tema che negli Usa è sempre stato molto sentito, ovvero quello delle sparatorie scolastiche (school shooting). Dibattito che va a collegarsi con la tanto invocata revisione del Secondo Emendamento, che riconosce al cittadino il diritto di possedere armi. Non intendo discutere in questa sede se sia necessario o meno riesaminare questa parte della Costituzione americana (ci hanno già pensato approfonditamente tanti altri quotidiani di respiro nazionale ed internazionale), ma intendo piuttosto soffermarmi su cosa rappresenti effettivamente questo fenomeno, e quali possano essere le misure necessarie per prevenirlo.

Prima di iniziare, ritengo però necessario smentire subito il luogo comune imperante, che vede le sparatorie scolastiche come una problematica esclusivamente americana. Uno stereotipo ben sintetizzabile in una affermazione di Obama del 2012, in cui il presidente americano sosteneva che siamo l’unico Paese sviluppato nel mondo dove accadono queste cose”. La realtà è invece ben diversa, tali avvenimenti sono riscontrabili in tutto il mondo; l’Europa, ad esempio, è stata recentemente teatro di azioni simili a Mosca e Viljandi, senza contare i numerosissimi casi analoghi che hanno toccato in anni recenti anche Messico, Asia e Sud-America. Considerare lo school shooting come una pratica circoscritta agli Usa è quindi profondamente sbagliato, creazione di un sistema dei media sempre più direzionato verso il sensazionalismo per avere maggiore presa sull’audience, piuttosto che verso quella che sarebbe la sua funzione, ovvero informare correttamente l’opinione pubblica. Media che, in sintesi, ci hanno portato erroneamente a rappresentare lo school shooter come un solitario, che agisce sempre ed esclusivamente per desiderio di vendetta, predisposto fin dalla nascita a turbe mentali di vario genere. All’atto pratico siamo invece di fronte a giovani che, riprendendo una nota asserzione di Erich Fromm, manifestano la cosiddetta “aggressività maligna”, ovvero che agiscono in preda ad una esplosione di violenza gratuita, non finalizzata a qualcosa di concreto. Gli school shooting si connotano, infatti, in primo luogo nella assoluta mancanza di finalità strumentale. In seconda istanza, l’azione violenta è rivolta in genere verso persone della stessa cultura di appartenenza dello stragista. Si tratta, in altri termini, di attacchi “intraculturali”, in genere compiuti da individui non o male integrati socialmente. Questi i principali tratti caratteristici che differenziano questi fenomeni criminosi da altre stragi, quali quelle terroristiche o del fondamentalismo religioso, finalizzate invece al raggiungimento di uno scopo ben preciso.

Come accennato all’inizio è altresì necessario comprendere quali possano essere i fattori potenzialmente scatenanti e, conseguentemente, le misure preventive che è possibile adottare. Un ruolo fondamentale, in questo senso, lo gioca il contesto sociale; nella società moderna esso porta sempre più alla riduzione delle relazioni autentiche, con conseguente sviluppo del senso di isolamento e di mancata integrazione. Quest’ultimo conduce ad uno stato di anomia e frustrazione, che può condurre ad un odio sordo verso il sistema sociale e, nei soggetti più deboli e predisposti, verso atti di violenza cieca e incontrollata. Tale odio verso il sistema viene così “trasferito” su soggetti più vulnerabili come gli studenti e le scuole, surrogati simbolici di quello che è il reale oggetto del loro dissapore. In pratica, diverse possono essere le motivazioni sottostanti (ricerca di attenzione, malessere nella sfera personale o familiare, disprezzo verso una istituzione) e, se quasi impossibile appare la prevenzione di tutte le ragioni potenziali, è però possibile adoperarsi per migliorare il benessere mentale degli studenti, e quindi minimizzare i rischi. L’obiettivo deve essere quello di concepire la scuola come luogo che favorisce l’equilibrio psicofisico del giovane, monitorando il suo stato mentale, programmando incontri e sedute con specialisti del settore, laddove egli mostri o accusi disturbi di qualche tipo. Tutto questo deve essere finalizzato a non lasciare il giovane da solo con i suoi problemi, a creare un ambiente più solidale e accogliente. Questo non significa, ovviamente, considerare la scuola come una specie di clinica, ma piuttosto come un aiuto ulteriore. Allo stesso modo, non bisogna cadere nell’errore di concepire l’ambiente scolastico come la principale causa del fenomeno; tali problematiche sono un riflesso del contesto inteso come comunità, di cui la scuola è parte integrante. Quindi, nell’ipotesi di uno studente che mostri qualche segno di insofferenza, di potenziale “minaccia” da questo punto di vista, tutto questo andrebbe ricondotto all’ambiente sociale nel suo insieme, che forgia i valori, i pregiudizi, le emozioni che il ragazzo prova nel suo percorso di vita.

La necessità è quindi quella di operare su quattro fronti, ovvero la personalità dello studente; le dinamiche familiari, le dinamiche scolastiche e il posto occupato dallo studente in esse e le dinamiche sociali, al fine di porre un freno a questo preoccupante fenomeno. In definitiva, trovare i tratti accomunanti i vari episodi di violenza (come la NCAVC sta cercando di fare da svariati anni a questa parte) in modo che le istituzioni possano prendere le dovute contromisure. Un compito sicuramente arduo, ma che parte dalla consapevolezza che le famiglie e le scuole possano giocare un ruolo fondamentale nella sua buona riuscita. È necessario dedicare ai giovani una maggiore attenzione, cercando di comprendere le loro ansie e le loro paure, accompagnandoli nel loro processo di crescita. Obiettivo raggiungibile solo attraverso una evoluzione della società stessa, attualmente molto individualista e poca propensa ad essere solidale con chi ne avrebbe bisogno. È così che cresce il rischio di trovarsi davanti a giovani insoddisfatti e arrabbiati col mondo che li circonda, con le potenziali estreme conseguenze cui possiamo assistere. È necessaria una chiara e forte presa di coscienza; non da parte degli Stati Uniti, ma da parte del mondo intero.