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Si è ormai conclusa la ventunesima edizione di Artissima, la grande kermesse torinese dedicata al contemporaneo che da cinque anni ha luogo nel padiglione Oval, modernissimo spazio espositivo progettato ad hoc dal collettivo tedesco Raumlaborberlin, in occasione delle Olimpiadi del 2006. Registrando un totale di 50.000 visitatori che, nei tre giorni di apertura al pubblico, hanno affollato gli stand delle 190 gallerie partecipanti, questa edizione magistralmente diretta da Sarah Cosulich Canarutto (peraltro prima donna alla guida della fiera a partire dal 2012), ha consacrato Artissima come appuntamento imprescindibile nell’agenda di qualsiasi amante del contemporaneo.

Fig 1. Padiglione Oval, Centro Fieristico Il Lingotto, Torino

Fig 1. Padiglione Oval, Centro Fieristico Il Lingotto, Torino

Simultaneamente alla fiera, anche la seconda edizione del progetto espositivo OneTorino che, pensato dalla curatrice come evento collaterale “per rafforzare il ruolo [della città] e del territorio (…) nella progettazione e produzione artistica,” ha quest’anno catalizzato l’attenzione dei più. Fin da subito destinata a far discutere, partendo dalla presentazione delle opere, fino alla conseguente richiesta del consigliere radicale Silvio Viale di revocarne il patrocinio, la mostra ad opera del curatore-non curatore ed irriverente artista in pensione Maurizio Cattelan, ha infatti registrato sorprendenti consensi da parte di pubblico e critica. Con sede unica a Palazzo Cavour, gioiello del settecento Barocco, nonché antica residenza del nobile statista Camillo Benso, l’esposizione è stata variamente definita ‘modaiola‘, descritta come ‘una bizzarra costellazione di oggetti’, o addirittura identificata con la reificazione di ‘un incubo surrealista’.

Fig.2 Maurizio Cattelan con il suo team curatoriale. Da sinistra Myriam Ben Salah e Marta Papini

Fig.2 Maurizio Cattelan con il suo team curatoriale. Da sinistra Myriam Ben Salah e Marta Papini

A metà tra l’invenzione creativa e l’intento documentario, tra lo sberleffo superficiale e la critica sottile, pungente e provocatoria (come quasi tutte le opere del multidisciplinare Padovano, basti pensare alle celebri sculture La Nona Ora, 1999, Him, 2001, o ai bambini-manichini impiccati in Piazza Ticinese a Milano, 2004), Shit and Die, questo il titolo studiatamente sfacciato della mostra, raccoglie creazioni contemporanee ed i più impensabili reperti storici, provenienti da istituzioni museali o da reconditi luoghi di Torino. Attraverso tale scontata ma probabilmente efficace dicotomia ‘passato-presente’, la mostra si configura quindi come un viaggio attraverso il tempo, dove l’accumulazione di oggetti disparati, assieme alla giustapposizione di opere di artisti sia internazionali che locali, mira a tracciare un’esaustiva ed originale storia della città piemontese (capitale sabauda dal 1563 al 1570, dunque prima città del Regno di Sardegna dal 1720 al 1861 e poi d’Italia per soli 4 anni), sino ai giorni nostri.

Fig. 3-4 Da Sinistra M.Cattelan, La Nona Ora, 1999; M.Cattelan, Him, 2001

Fig. 3-4 Da Sinistra M.Cattelan, La Nona Ora, 1999; M.Cattelan, Him, 2001

Ecco dunque che, come si legge nel dettagliatissimo Press Kit, sono proprio gli oggetti a definire il percorso da seguire e, come ‘ancore tematiche’, a guidare il visitatore attraverso le sette sezioni che, senza soluzione di continuità, si snodano al piano primo del Palazzo. In The Assembly Line of Dreams, il concetto di felicità è tradotto in prodotti del pensiero industriale e rievocato nella ricostruzione del design di ‘Talponia’, unità residenziale progettata dagli architetti Gabetti e Isola tra 1969 e 1975; in Aldologica, si realizza invece una meta-mostra dedicata al torinese Aldo Mondino, omaggio tutto locale che trova continuazione in Double Trouble, dove le polaroids del fotografo Carlo Mollino sono accostate ad altrettante interpretazioni del corpo femminile, ad opera di artiste donne. La tematica della rappresentazione, seppur abbandonati i riferimenti al nudo, al pornografico e alle tensioni di genere, è poi reiterata in In Event of Moon Disaster, sezione in cui alcuni artisti contemporanei sono stati chiamati a cimentarsi con i ritratti di illustri personaggi torinesi. A guardare le innumerevoli foto della mostra, disponibili online e nel catalogo a corredo, quello che appare come il tentativo un po’ banale di rievocare una quadreria barocca, è poi seguito da Fetishit, dove il riferimento simbolico ad un tempo storico si fa ancora più pregnante: lo studio del Conte Camillo Benso è infatti ricostruito nei minimi particolari e le sue forniture coperte con del cellofan, come a segnare il superamento del passato e l’inesorabile correre della storia. Per concludere, oltre all’esposizione di una antica forca per l’impiccagione nel cortile coperto del palazzo, Dead Man Working si costituisce come un lapidario memorandum della fine, e gli enormi metronomi di Martin Creed (1999) ne costituiscono un’esplicita oggettificazione.

Fig. 5-6 Da Sinistra Carlo Mollino, Untitled, 1963. Courtesy Carlo Mollino / Raccolte Museali Fratelli Alinari (RMFA), Firenze; Valerio Carubba, Eve (A Portrait of Gianni Minà), 2014. Courtesy l’artista e Galleria Monica de Cardenas, Milano/Zuoz

Fig. 5-6 Da Sinistra Carlo Mollino, Untitled, 1963. Courtesy Carlo Mollino / Raccolte Museali Fratelli
Alinari (RMFA), Firenze; Valerio Carubba, Eve (A Portrait of Gianni Minà), 2014. Courtesy l’artista e
Galleria Monica de Cardenas, Milano/Zuoz 

Anche a non voler contraddire il paradigma secondo il quale un’opera d’arte, e dunque anche una mostra, non siano apprezzabili se non viste e visitate personalmente, si ha la sensazione che le riflessioni su Shit and Die si esauriscano già prima di un’attenta ispezione. L’enorme quantità di materiale, testuale e visivo, a disposizione online già prima dell’inaugurazione della mostra (tra cui le numerose interviste rilasciate da Cattelan, la sezione dedicata sul sito di Artissima, i dettagliati fotoreportages di ArtTribune, così come il curioso profilo Tumblr dell’esposizione) sembra infatti bastare a se stesso ed in qualche modo contraddire l’intelligente strategia di marketing, messa in atto dall’arguto Cattelan per soddisfare la curiosità dell’esperto o dell’annoiato frequentatore del Web. Ed è quello che è successo anche a me. In modo non scusabile sino ad oggi impossibilitata alla visita, mi sono infatti ritrovata a chiedermi se anche questa non fosse l’ennesima avvisaglia di una critica impasse nel modo di fare arte e del suo circuito, ovvero il definitivo disgiungersi delle opere stesse dal significato applicato loro dalla critica e dunque l’evidente superfluità di un loro godimento diretto. Essendo comunque arrivata a convincermi del contrario (sono infatti in partenza per Torino, probabilmente efficacemente sedotta da tali anticipazioni più che scoraggiata), tale riflessione in negativo è stata all’inizio avvalorata dall’apparente banalità delle tematiche, una su tutte il richiamo costante al passato, come salvagente di una contemporaneità che non ha più niente da dire.

Fig.7 Fetishit, 2014, Ricostruzione dello studio del Conte Camillo Benso

Fig.7 Fetishit, 2014, Ricostruzione dello studio del Conte Camillo Benso

A questo proposito concorderebbero con me “Bob e Roberta Smith”, artista ed organizzatore di Art Amnesty, una mostra-happening con sede al MoMA PS1, ma più che altro un disperato appello a liberarsi delle brutture del contemporaneo. Seguendo tali elucubrazioni, anche “Shit and Die potrebbe dunque risultare in un conciso invito agli artisti a liberarsi della propria creatività o ‘fottuta arte’, attraverso il metaforico ed ultimo atto del defecare, prima di abbandonare la scena in modo definitivo.

Fig.8 Bob e Roberta Smith, “I Promise Never to Make Art Again”, Art Amnesty, 2014

Fig.8 Bob e Roberta Smith, “I Promise Never to Make Art Again”, Art Amnesty, 2014

Se traslata sullo spettatore, e dunque sul singolo individuo, l’interpretazione letterale di tale esortazione potrebbe poi assumere toni ancor più personali e quindi tradursi, in una precisa dichiarazione esistenziale, in accordo con la psicanalitica definizione di ‘abietto’. “L’individuo”, spiega infatti Claire Lauherta, indubbiamente influenzata dagli studi condotti in materia da Julia Kristeva, “afferma la propria soggettività attraverso l’espulsione di ciò che è comunemente ritenuto improprio [o abietto]. In altre parole, i fluidi organici come le lacrime, il latte, le feci, il sangue mestruale e lo sperma. Le società Occidentali moderne tendono infatti a percepire tali elementi come ‘sporco’ da espellere, con lo scopo ultimo, per ciascun individuo, di raggiungere completa affermazione di sé.” Insomma, Expello ergo Sum! Ecco allora che, nell’opera dell’americana Kiki Smith, l’atto del defecare si trasforma in assunzione dell’elemento femminile ad effettiva presenza corporea, seppur vulnerabile, mentre negli irriverenti video di Martin Creed funziona come conferma del diffuso taboo (letteralmente, il disgusto provato nell’atto di assistere a) nei confronti di irrinunciabili funzioni vitali.

Fig.9-10 Da Sinistra, Kiki Smith, Tale, 1992, cera d’api, cera microcristallina, pigmento, cartapesta; Martin Creed, Still da Work no.660, 2007, 35mm film, sonoro e colore

Fig.9-10 Da Sinistra, Kiki Smith, Tale, 1992, cera d’api, cera microcristallina, pigmento, cartapesta;
Martin Creed, Still da Work no.660, 2007, 35mm film, sonoro e colore

Seppur non in senso così letterale (da quanto ho letto e visto nessuna delle opere in mostra è infatti un richiamo così diretto all’atto), Shit and Die potrebbe dunque costituirsi come un ultimo inno alla vita, contro l’angoscia della morte. Caga e muori, ovvero lascia il TUO segno prima che il tempo si sia scordato di te. Di conseguenza, se mi si concede l’ennesima ed ultima elucubrazione, gli oggetti cercati, raggruppati ed esposti tra le sontuose sale del Palazzo secondo una determinante logica curatoriale, non solo ci parlerebbero di Torino o più in generale della storia d’Italia, ma alluderebbero su un piano più astratto, alla condizione umana, testimoniando un comune sforzo a lasciar traccia del proprio passaggio sulla terra, una condivisa volontà di produrre per il più umano desiderio di non esser dimenticati. Insomma, uno sguardo ingenuo, ma rassicurante sulla contemporanea dimensione consumistica. Un’alternativa romantica all’altrimenti distopica Società del Simulacro, in completo contrasto con la tesi del filosofo Jean Baudrillard. La conferma che, forse, in barba a Bob e Roberta Smith, all’arte contemporanea possa ancora esser concessa la grazia.

Fig.11 Installation View, Eric Doeringer, Untitled, 2014

Fig.11 Installation View, Eric Doeringer, Untitled, 2014

SHIT AND DIE: Lucubrations on the Contemporary

(Or, A Review in Reverse)

The twenty-first edition of Artissima, the largest festival in Turin dedicated to contemporary art, is now over. Set in the Oval Pavilion, a modern exhibition space designed by the German collective raumlaborberlin, the fair has this year registered a total of 50,000 visitors and, in this way, rewarded the tireless work of the recently-nominated director Sarah Cosulich Canarutto – while ultimately consecrating Artissima as an unmissable event in the agenda of any art lover.

Concurrently, the second edition of One Torino (a side event aimed “to strengthen the role [of the city] and the territory (…) in the artistic production,” as Cosulich herself explained), has definitely catalysed the attention of the majority. Bound to cause an immediate controversy, starting with the presentation of the works, to carry on with the request of the counsellor Silvio Viale to withdraw its sponsorship, the exhibition curated by retired artist Maurizio Cattelan has surprisingly aroused the sympathy of both the audience and the critics. On the site of Palazzo Cavour, the Eighteenth Century residency of the noble Camillo Benso, the exhibition has been variously defined as a ‘fashionable event’, described as ‘a bizarre constellation of objects’, or even addressed as ‘a surrealist nightmare.’

Spanning both the imaginative and the documentary, a sneering approach as well as a sharp and straightforward criticism (like the majority of Cattelan’s works, such as La Nona Ora, 1999, Him, 2001 or the children-dummies hanged in Piazza Ticinese in Milan, 2004), Shit and Diethis the strategically brash title of the exhibition, associates contemporary creations with the most unthinkable, historical artefacts, borrowed from local museums or spotted in some of the city’s hidden places. Through this obvious yet effective dichotomy between the past and the present, the exhibition is so configured as a journey through time, where the accumulation of disparate objects, together with the juxtaposition of works by both international and local artists, aims to draw a comprehensive and original history of Turin up to present days. 

As explained in the surprisingly detailed press kit that acts as a proper Guide Book, the exhibited objects and artefacts determine a precise path that, according to seven different sections, winds on the first floor of the Palazzo. In The Assembly Line of Dreams, the concept of happiness is translated into industrial products and objectified in the reconstruction of ‘Talponia’, a residential unit designed by architects Gabetti and Isola between 1969 and 1975. Aldologica is instead a meta-exhibition dedicated to the Piedmontese Aldo Mondino, a passionate and parochial homage to Turin reiterated and extended in Double Trouble. Here, the black and white Polaroids of local photographer Carlo Mollino are juxtaposed to as many interpretations of the female body, by disparate women artists. The issue of representation, albeit abandoned references to the naked, the pornographic and to gender criticism, is then repeated in the section In Event of Moon Disaster, where contemporary artists were asked to grapple with the portraits of famous people from Turin. By looking at the countless photos of the exhibition, available online and within the accompanying catalogue, this banal attempt to recall a Baroque picture gallery, is then followed by Fetishit, where the symbolic reference to a historical time becomes even more meaningful. The study of Count Camillo Benso is in fact reconstructed in detail and its supplies covered with cellophane, so to mark the passage of time and the inexorable rush of history. Finally, in addition to the display of an ancient gallows in the covered courtyard of the Palazzo, Dead Man Working constitutes a lapidary memorandum of the End, while the relentlessly ticking metronomes by Martin Creed (1999) feature as its explicit objectification.

While not wanting to contradict the paradigm that a work of art – and therefore also an exhibition, cannot be fully experienced unless seen or visited personally, you get the feeling that all the possible reflections on Shit and Die run out even before having had the chance to wander around its premises. The enormous amount of material available online before the inauguration (including the numerous interviews with Cattelan, the dedicated section on Artissima.it, the detailed photo-reportages by ArtTribune, as well as the curious Tumblr profile of the show) indeed seems to suffice to itself and to somehow contradict the clever marketing strategy, wittingly implemented by Cattelan, in order to satisfy the curiosity of both art experts and bored Web frequenters. And this is what has happened to me,too. Even though inexcusable for not yet having been able to visit the exhibition, I have found myself wondering if this could be considered a hint of a critical deadlock in the way of making art and its circuit – which is the final separation of the works from their critical meaning, i.e., the subsequent superfluity of their direct enjoyment by visitors. Finally convinced of the contrary, (I am indeed about to leave for Turin, probably seduced rather than discouraged by the above mentioned anticipations), this negative conclusion was at the beginning supported also by the apparent banality of the proposed themes, among which the constant reference to a bygone past, as a lifesaver to a contemporaneity that has nothing more to say.

In this regard artist “Bob and Roberta Smith” would definitely agree with me. He is indeed the author of Art Amnesty, an exhibition/happening to be held at MoMA-PS1 in 2015, i.e., a desperate plea to get rid of the uglinesses produced by contemporary art. If following this lucubrations, Shit and Die could also result in a concise call to artists to break free of their creations – or ‘Damn Art’, through the definitive yet metaphorical act of defecating, before permanently abandoning the scenes. 

If applied to the viewers, the literal interpretation of this explicit exhortation could then take on the tone of an even more personal reflection, and therefore result in a precise existential statement, that finds its core in the psychoanalytic definition of ‘abject’. “Individuals,” says Claire Lauherta, undoubtedly influenced by the studies conducted on the subject matter by Julia Kristeva, “exert their subjectivity through the expulsion of what is commonly considered as improper [or abject]. In other words, the body fluids such as tears, milk, feces, menstrual blood and semen. Modern Western societies tend to perceive such elements as ‘dirt’ to be expelled, with the ultimate goal, for each individual, to achieve self-affirmation.” In short, Expello ergo Sum! Accordingly, in the work of American artist and feminist Kiki Smith, the act of defecating then corresponds to the translation of the woman’s body into an actual, albeit vulnerable, bodily presence, while in the irreverent videos of Martin Creed functions to confirm the widespread taboo (namely, the disgust felt in the act of spectating) in respect of essential, vital functions.

Although not in such a literal way (from what I have read, indeed none of the exhibited works directly references the bodily function), Shit and Die could therefore qualify as a final hymn to life, against the anguish of death. “SHIT AND DIE”, or ‘leave your mark before history forgets about you.’ Therefore – if I am allowed an umpteenth yet final rumination, the objects displayed in the sumptuous rooms of the Palazzo, not only would trace the history of Turin and of Italy at large but, on a more abstract level, would allude to the human condition, speaking truth to one’s effort to leave a trace of his/her passage, while outlining a shared inclination to produce more to satisfy the need not to be forgotten. In short, a naïve yet reassuring look on the contemporary, consumerist dimension or a romantic alternative to the otherwise dystopian Society of the Simulacrum – postulated by French philosopher Jean Baudrillard. Ultimately, the confirmation that, perhaps, in spite of “Bob and Roberta Smith”, contemporary art can still be granted a pardon.