Folli e bipolari, Wildbirds & Peacedrums ci regalano una delle gioie musicali della stagione, fuori dagli schemi. Se volete farvi un regalo di Natale l’avete trovato.

Litanie ancestrali, tamburi vodoo, ipnosi ritmiche e gorgoglii onirici invadono la mia stanza. Non preoccupatevi, non sono sotto l’effetto di droghe lisergiche o altre sostanze psicotrope (anche perché tendo a precisare che non faccio uso di tali composti chimici e spero che qualcuno creda alla mia affermazione). Bensì perché mi trovo dinanzi ad un’entità musicale multiforme, dai mille volti istrionici, che prende vita modellandosi lentamente come una moltitudine di cellule organiche che rispondono al nome di Wildbirds & Peacedrums. Un’entità ormai esistente da qualche anno, che non possiamo più ignorare. Perché il duo svedese è dal 2008 che continua a sfornare perle musicali confondendo le coordinate del pop, ed è giusto dedicargli un piccolo tributo, oggi nell’anno di grazia 2014, pochi giorni dopo l’uscita del loro nuovo album.

 

Ma parliamo un po’ di loro precisando una cosa: in Svezia deve fare veramente freddo (e lo dico anche per esperienza personale). Talmente freddo che in molti (vedi anche un altro duo from Stoccolma, certi “Knife”) si sentono in dovere di riscaldare l’atmosfera con tormente soniche ossessive, tambureggianti, dal ritmo infuocato. Ed è quello che fanno i “Widlbirds & Peacedrums”, ponendo le fondamenta della loro musica su una base semplice quanto geniale. Percussione e voce, caos e ordine. Lui ai tamburi, per farci scatenare, lei alla voce – soffice quanto folle, blues quanto punk – per farci sognare. Il duo (nella vita sono una coppia, ma non siamo qui per parlare di questo, mica siamo una rivista di gossip), composto da Mariam Wallentin e Andreas Werliin, esce dall’accademia di musica e teatro di Goteborg con un’idea in testa: rivoluzionare tutto quello che hanno imparato. Fuoriuscire dagli schemi accademici della musica per entrare in territori mai esplorati. E da qui emigrano, destinazione Berlino, dove muoveranno i primi importanti passi.

 

I due scriveranno tre bellissimi album per poi arrivare a questo straordinario “Rhythm”. E mai titolo è stato così azzeccato. Difatti i nostri svedesi rinunciano a qualsiasi strumento in favore del ritmo allo stato puro. Via le chitarre, solo percussioni e la voce di Mariam Wallentin (immensa), con l’aggiunta di una linea di basso in alcuni sporadici episodi. Il tutto dà al quarto album in studio dei “Wildbirds” un tocco disorientante ma estremamente fresco, così da non annoiare. Si parte con il blues di “Ghosts & Pains”, ballata fantasmagorica interpretata al termine della notte, seguita da “The Offbeat”. La temperatura sale, il ritmo comincia a farsi forsennato, e veniamo assaliti immediatamente dalla frenesia. “Gold Digger” è una supernova in procinto di esplodere, mentre “Mind Blues” è un ipotetico scioglilingua continuo (tanto è veloce la parte vocale) che assale alla giugulare. Le invenzioni continuano a sovrapporsi lasciando un senso di stupore crescente e trainandoci verso “Who I Was”, dove la tensione si tramuta quasi in impulso sessuale. “Soft Wind, Soft Dead” è probabilmente il capolavoro dell’album, suonando come un gospel proveniente dallo spazio. Un gospel marziano, da pianeta rosso. “The Unreal Vs The Real” è un jazz oscuro e tribale, che ricorda la migliore Bjork, mentre “Keep Some Hope”, singolo di lancio di “Rhythm”, ci incatena in un pop a metà tra anni 90 e 2000 con rimandi ai Knife. Tutto termina con il caos cacofonico di “Everything All The Time”, a dimostrare quanto il nostro gruppo sia geniale. Folli e bipolari, gli “Wildbirds & Peacedrums” ci regalano una delle grandi gioie musicali della stagione, fuoriuscendo continuamente dagli schemi. Se volete farvi un regalo di natale, ecco, l’avete trovato.