Un problema da risolvere: l'assunzione della paroxetina. Un viaggio nella mente alla ricerca di se stessi.

La paroxetina cloridrato è un farmaco antidepressivo appartenente alla categoria degli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della SEROTONINA). Come gli altri SSRI, la sua assunzione genera un aumento della disponibilità sinaptica di tale neurotrasmettitore, che è carente nei soggetti affetti da depressione. Rispetto ad altre molecole della stessa classe terapeutica a parità di dosaggio ha un effetto più potente. Viene comunemente impiegato nel trattamento della depressione, negli attacchi di panico associati o meno ad agorafobia, nel disturbo ossessivo-compulsivo, in casi fobia sociale e nei disturbi d’ansia. Come gli altri farmaci della sua classe la paroxetina è generalmente preferita agli antidepressivi triciclici per la sua maggiore tollerabilità e la minor presenza di effetti collaterali. (Wikipedia)

– Ah, è lei?- con la faccia di chi ha aperto la porta per prendere aria e invece respira il puzzo maleodorante di un nuovo problema.
Nemmeno il tempo di rispondere e riprese: -ma non doveva arrivare più tardi?
Aspetterà un po’, ho un altro paziente!- e si fiondò su per la tromba delle scale senza curarsi, fortunatamente, della mia espressione in evidente crisi d’identità.
Credo fosse stata la parola “paziente”. Non so, aveva un suono così particolare, quello delle sale di attesa, degli ambulatori medici, di lettini che si spostano e camici bianco fantasma che scompaiono e ricompaiono in modo anonimo.
Corsi anch’io su con lui per l’androne delle scale.
Gli stavo appiccicato, apparentemente per prendere la scia e sorpassarlo, in realtà per non rimanere solo.
Quel puzzo di sterilizzazione e disinfettante mi dava alla testa.
Non sono sicuro di quello che sentivo…
La difficoltà di concentrarmi era data dall’ansia. Questa fruiva di blasonatura genetica del talamo e dell’amigdala (ero diventato esperto da buon ipocondriaco)… e vedevo la realtà sfaccettata come una Guernica proiettata in un Kaleidoscopio.
Fortunatamente alternavo anche tratti di lucidità in cui il puzzo di Betadine e Acqua ossigenata risultava solo un apparente stato reclamato dal cervello, in balia delle paure e dei ricordi.
Mi stavo riprendendo…
Nella foschia mentale riconobbi il vero odore della struttura.
Questo si ricomponeva. Era stato appiattito ai margini dei muri, diviso come il Mar Rosso, rimandato a rappresentare ogni oggetto, singolarmente.
Il profumo miscelava l’antichità e lo stile rinascimentale della casa Medicea e notai l’istante in cui fu sconvolto totalmente dal funesto scatto del dottore che, per tornare velocemente dal paziente, aveva creato un mulinello d’aria al sapore di CalvinKlein.
Salii.

 

paroxetina 1

La paroxetina è come una bella donna. Disegno di Daniele Lari

Le scale erano scivolose, probabilmente lavate da poco, con prodotti scadenti.
Chi puliva, naturalmente non il dottore, lo faceva come secondo lavoro: c’erano i segni di frettolosità e svogliatezza negli incastri tra gli scalini, gli stessi punti in cui i prodotti non erano stati amalgamati bene alla superficie e avevano reagito, consumando il marmo degli antichi principi di Firenze.
I miei occhi iniziarono ad abituarsi all’atmosfera solenne e abbastanza buia del posto.
– Accomodati un attimo qui, arrivo tra poco…-
Comandò il dottore. E con un po’ di asincronismo tra i movimenti e le parole indicò una piccola sala d’attesa con quattro sedie messe in fila e un tavolino di vetro che rifletteva il soffitto, totalmente affrescato dalle mani di un “manierista”.
Non opposi resistenza.
Mi stavo abituando a non avere il tempo né di rispondere, né scegliere.
Odiavo aspettare. Consapevole della mia irrequietezza, sentii a poco a poco il tempo in quella stanza diventare convenzionale. Lo sentii agire sulle tre dimensioni, che mi imprigionavano in quel punto dello spazio, e mangiarmi.
Mi sedetti fingendo ingenuità e inconsapevolezza anche se la mia situazione la conoscevo bene.
Non avevo voglia di guardarmi attorno: quando sei “malato” non ti importa di nulla e di nessuno, hai in mente solo te stesso; è come se i tuoi occhi perdessero il colore delle galassie e assumessero quello della luna quando il sole muore.
Malgrado l’egocentrismo, fui distolto da una corrente fresca.
Mi sfiorava il viso in panne. Mi volgeva verso le pitture che tappezzavano completamente la sala.
Come la mia testa, malata, poteva telecomandare l’attenzione in un posto così bello?
Riconoscevo i tratti raffinati sui muri e seguivo le iconografie religiose muoversi sullo sfondo oro. Le vedevo prendere vita, alternare movimenti consoni alla circostanza del quadro, e poi oscillare in modo strano, come se ballassero sulle note della musica in sottofondo. La musica del dottore. Questo doveva aver fiutato l’esaurimento della mia pazienza con qualche congegno, forse lo stesso con cui lo squalo percepisce il cambiamento dei campi elettrici.
Così appiccò una musica fiammeggiante per non distrarsi.

 

paroxetina 2

Paroxetina

Tornai a concentrare la mia attenzione sulle figure in movimento.
Mi avvicinai di qualche passo per accertare la mia pazzia. In realtà, le figure non ballavano, si sgranchivano. Si stiravano. Combattevano la letargia, stanchi.
Anche loro fingevano. Erano stati imprigionati, per l’eternità, con un’unica espressione.
Mi sentii rincuorato: anche io ero nella stessa situazione.
Tornai ad abbracciare la sedia con le natiche.
I pochi minuti di attesa del dottore si trasformarono in un’unità di misura oltre il tempo.
Tutto era arbitrario in quella stanza. I gemiti del coito tra l’attesa di misurare la mia sanità e la voglia di scappare partorivano cigolii, fratelli di un respiro affannato, innamorato.
Mi sentivo in un Nido di matti, poco prima di essere lobotomizzato, proprio nel momento in cui la tua mente prova a fuggire, invece di arrendersi a un inevitabile destino e sceglie di fare marcia indietro, tirando il freno a mano e andando contro la legge, scorretta fino alla fine.
Ora dondolavo forte. Le mani, informicolate, erano nascoste sotto le gambe, afferravano la sedia.
C’era caldo. Tanto caldo. Soffocavo come Ace Ventura nel Rinoceronte, ma resistevo come Terminator nella lava
Non so a che scena avrebbe assistito se qualcuno fosse entrato.
Per un momento ebbi paura del giudizio di quel qualcuno e allora mi finsi normale, poi ricominciai.
All’improvviso lo scricchiolio della maniglia anticipò l’uscita veloce del “paziente” che si volatilizzò per le scale, tuffandosi nell’ombra e lasciando della sua immagine solo il fracasso del portone sbattuto come se volesse far saltare l’edificio.
Non ci riuscì e, quando sul volto del dottore vidi il sorrisetto di Bruce Willis, subito dopo aver evitato un’esplosione, capii che era il mio turno.