Un racconto dai toni scuri e forse privo di speranza. Le prime notti a Parigi, girando tra locali e deambulando nella notte.

“Non so se in questa società di cartapesta e barboni c’è ancora spazio per storie come questa. Un sincero sputo in faccia a tutti i cliché, ai costumi prestabiliti, alle convenzioni e all’accademia. Oh sì, direte voi, che c’entra l’accademia? Ebbene, in questa storia si smaschera e si parla male anche di questa e del branco di ciarlatani che la popolano che, sventolando una bandierina con su scritto ‘dottore’, si credono Dio sceso in terra”.

Avevo stappato l’ultima bottiglia rimasta, quando mi soffermai per prendere questo appunto sull’inizio del mio romanzo. Come se questa idea fosse uscita con la zaffata tannica che accompagna lo ‘schiok!’ del tappo che abbandona il suo giaciglio e lascia tornare libera l’aria che teneva prigioniera.

In quei giorni mi aggiravo tra le strade di una Parigi assediata da barboni e immigrati, clandestini perlopiù. Non facevo fatica a mischiarmi a loro. Non perché appartenessi all’uno o all’altro gruppo ma perché ne condividevo gli ideali. Ero stato catapultato dal mio arrivismo alla ricerca di contatti in quella fogna francese. Credevo di dover continuare a dimostrare qualcosa. Tipo, “guarda sono meglio di me stesso”. Stronzate. Stronzate come tutto il resto. Ero, in realtà, incazzato nero perché non scopavo. E questo non succedeva perché ero appena arrivato, e il mio perfezionismo non mi faceva parlare una dannata parola della tenera lingua francese. Quando vennero a trovarmi i miei amici dissi che il rumore di alcuni treni della metropolitana parigina che frenavano mi ricordavano la passera. Non proprio la passera in sé per sé, ma il suono che una passera fa quando rilascia dell’aria. Volgarmente, parlando ad un mio amico direi: ‘una scureggia di passera’. In ogni caso, era evidente che l’astinenza mi stava facendo svisionare. Ci bevemmo sopra. E continuai a berci sopra anche quando se ne andarono, nel fittizio tentativo di mischiarmi a quell’atmosfera bohémienne. In un aspetto riuscivo sicuramente a intrufolarmi bene con la citata imperversante atmosfera bohème: ero povero in canna, finanziato dalla mia famiglia e con un nodo alla gola, dettato dal senso di colpa, per ogni moneta che sputtanavo. Era la fase di integrazione, le débarquement. Giravamo per locali che cambiavano veste dal giorno alla notte. Si travestivano da antiquari il giorno, vendendo quell’oggettistica demodé che riempie le case dei francesi, per poi svestirsi la notte, mostrandosi così in tutta la loro purezza, in quello che erano realmente. Una nuvola di fumo e alcool, uno stridere di vinili su giradischi scricchiolanti, un misto di paillettes, ormoni, scaracchi e bicchieri. Alcuni dei quali rotti. Un misto di vibrazioni funky-jazz, inumidite da una costante pioggerellina impercettibile.

 

Tutti sedevano, facevano conversazione e non si sforzavano di essere felici se non lo erano. Vi era un qualcosa che non riuscivo bene a definire, a cogliere a pieno, vi era un brivido di dinamismo che faceva si che il locale ballasse anche se tutti stavano fermi. Il bello era che la samba continuava pure quando il bandone del fasullo antiquario si abbassava: a una certa ora gli avventori, a prescindere dalla scusa che avevano per restare, venivano cacciati fuori. Ed era lì che l’arte intrinseca in essi veniva fuori, nell’inventare nuove destinazioni, una più colorata dell’altra e caratterizzata dal filo conduttore dei fiumi di alcool e tabacco. Vi era chi, allacciandosi il fiocco sciolto di uno stivaletto sciupato, proponeva di intrufolarsi nell’hotel di un amico che restava segretamente aperto fino a notte fonda. Vi era chi suggeriva di andare a vedere le puttane che il quartiere a luci rosse aveva da offrire. Vi era infine chi, ormai oscurato dal tasso alcolico, proponeva mete troppo esotiche, che probabilmente aveva sognato la notte prima. Erano così le prime notti. Probabilmente è restrittivo definirle ‘le prime notti’, visto che durarono almeno tre mesi. L’aspetto che mi intrigava di più in tutto ciò era ritornare a casa. Una volta presi l’autobus nella direzione sbagliata. E’ una cosa molto umiliante. Tu sei convinto che stai ritornando a casa. Sai che là, dove il veicolo ti sta portando, vi è il tuo riparo caldo e sicuro. Vi sono le tue cose, i tuoi vestiti, le tue scarpe e le coperte. Sai che là vi sono i preservativi – se mai ti dovessero servire – e lo spazzolino. Insomma, sai che là c’è la tua zona franca, casa. E’ per questo che abbassi la guardia, ti rilassi, ti lasci andare a i tuoi pensieri o ad osservare le persone. Non presti neanche attenzione alle fermate perché sai che per almeno venti minuti non avrai bisogno di farlo. E poi, di colpo, realizzi la dimensione dell’ingiustizia in cui sei stato trascinato. Sei stato sequestrato da un autista psicopatico che, unicamente per proprio divertimento e sadismo, ti sta portando dall’altra parte della città. Fu così che quando realizzai del grossolano errore, una giovane donna che parlava la mia lingua scorse il panico nei miei occhi e mi invitò a casa con i suoi amici. Aveva un cane, era molto alternativa e questo mi rincuorava. Pensavo che avesse una maggiore propensione ad aiutare il prossimo. E così effettivamente fu: mi invitò a casa, insieme a tutti gli altri. Comprammo del rhum del Madagascar sulla via e facemmo del T-punch. Rimanemmo sul divano fino a che fuori dalla finestra non iniziò a fare giorno. Mi cucinò una ratatouille in scatola. Era ottima.

Dopo aver fatto un po’ di conversazione, uno spinello sequestrò completamente la mia attenzione per dirigerla verso il cane. Non parlai più, giocai col cane fino a che non me ne andai. Riflettevo su come il livello di comunicazione che si può avere con un animale intelligente come un cane è spesso molto più alto rispetto a quello che si può raggiungere con certi esseri umani. Cercavo ancora di superare i miei drammi d’infanzia, e a volte ci riuscivo egregiamente. Quel cane, mi fece stare a mio perfetto agio!