La dipendenza da farmaci vista attraverso una scatola di paroxetina.

…Passai la lingua sopra i molari; incerto sulla sua consistenza, la sentivo scivolare come una serpe nella steppa, intravista, o forse no, ma in grado di attaccare senza rivelare la vera sua identità, in grado di uccidere con il nome di Nessuno. Odiavo il lavoro di rifinitura, il lavoro sporco, quello di togliere i granuli rimanenti della medicina; questi mi ferivano le gengive senza prendersi la responsabilità per gli effetti collaterali, di cui erano colpevoli. Cosa è la dipendenza da farmaci?

Il tempo cui quella sostanza rimaneva a contatto con la bocca era direttamente proporzionale alla forza e alla velocità con cui avrebbe fatto effetto, e controeffetto dopo, anestetizzando il gusto prima, e poi gli altri sensi.
Per questo, nel mio organismo, si stabilirono collaborazioni ben precise.
Furono messe a punto per diminuire la percezione iridescente del sapore della Paroxetina e del suo principio attivo.
In realtà il gusto era anonimo.
Non saprei descriverlo, ma mi divertivo a dipingerlo con l’identità del killer che stermina la famiglia, e alle testimonianze del vicino risulta nei canoni della normalità: “Non me lo sarei mai aspettato, era uno tranquillo, uno qualunque”.
Naturalmente, si assume la normalità come intellegibile, risultato di una media che tende a classificare tutte le eccezioni come deviazioni standard dalla media stessa, e non come altre forme multidimensionali della normalità.
La seconda ondata gustativa arrivò, forte. No! Più forte. No! Ancora più forte. Non avrei resistito se non fossi stato già, anche per poco, abituato. La schiena si incrinò, i capelli si contrassero, sparando doppie punte. Il corpo provò a reagire, ma fu come provare a fotografare l’eclissi con l’autovelox.
L’impatto della seconda ventata di percezione gustativa aveva il retrogusto dell’inganno; retrogusto arcaico, opulento, concupiscente di desideri deplorevoli riposti nel suo contenuto.

Il contenuto della pasticca agiva allo stesso modo di un attentatore, finanziato dallo stesso paese per cui si faceva saltare in aria allo scopo di aizzare o dissipare l’orda. L’orda, la folla che poi avrebbe reagito sulle direttive mediatiche.
La pasticca era il burattino di Mangiafuoco e la bestia del Circo con personalità diverse (sul palco e fuori), la pasticca era la Mela dell’Eden, era un simbolo indistruttibile protratto nel tempo come punto di fine, ma anche d’inizio.
La pasticca era un’Idra nel corpo di sirena, dipinta con “…virgineo volto di essere alato, schifosissimo flusso dal ventre, artigli adunchi e sempre emaciata la faccia per la fame”.
La pasticca era una chimera.
Come un veleno, trasmetteva ai sensi, ciechi, solo la parvenza di granulosa paccottiglia chimica, ma, attimo dopo attimo, sublimava il corpo e lo imprigionava in un’altra realtà.
La stessa realtà, ma sofferta dalle esperienze di coloro che ci avevano vissuto e si erano infranti sulla stessa (realtà) come la fioca luce delle stelle lontanissime si fracassa sulle sponde della vita in flutti di dolore.

La mandibola “si mise in proprio”, e, poco a poco, la persi dal mio controllo. La sentivo fomentare la reazione della sua controparte superiore, invitandola a una cooperazione che, quando andava a buon fine, produceva un suono secco nel tentativo di polverizzare quella dannata pasticca.
I tonfi simmetrici dei denti rimbombavano nel palato, teatro di suoni forastici e inusitati: mi richiamavano le battaglie dei Titani.
L’aria, impaurita, non si faceva respirare. Giocava a sbirciare nella bocca, senza trattenersi.
Non il tempo di setacciare tutte le cavità dove avrebbero potuto nascondersi i residui (della putrida medicina) che i miei occhi seppellirono l’espressione del bambino, impaurito dalla novità, e resuscitarono una vecchia sensazione di curiosità.
State a sentire…ora devo usare bene le parole.
Sebbene fossi concentrato su me stesso e sui miei affari, di punto in bianco fui attratto dall’immagine di due giovani.
I due si baciavano (odio banalizzarlo così, ma non ho molto tempo ancora).
Scommisi con me stesso se fosse tutto vero. Sembrava un sogno.
Ero stranito. I due vennero fuori di punto in bianco, ma il fatto che fossero così dettagliati e concreti mi spolverava l’idea che fosse tutto vero.
Potevo avvicinarmi, e questo definiva l’immagine, ma accresceva la paura che, forse, una prospettiva diversa avrebbe potuto rovinare l’istantanea.
Esitai, solo per poco.
Però feci in tempo a sbilanciare di nuovo le mie certezze: nemmeno io mi ricordavo com’ero finito lì, come se fossi giunto a destinazione senza ricordare il percorso.
La testa vuota, la nebbia sottile, il crepuscolo, aveva tutta l’aria di essere una stramberia bislacca, come quelle che hanno i sogni.
Appesantito da queste ambiguità, cercai di liberarmene, ma non senza difficoltà, la stessa difficoltà, fisica e mentale, provata da un soldato quando, dopo la battaglia, si spoglia della sua pesante armatura insanguinata.
Sentii i muscoli facciali contrarre in smorfie i dissapori interni della medicina.
Iniziava a fare effetto.
Spogliato della solida armatura di domande, necessarie a capire se fossi davvero lì oppure no, indossai i panni di un fantasma, che si avvicinava alla scena del bacio, arrancando, piano piano, portato a spasso da un corpo che, ormai, non mi sembrava più mio.
Ogni passo era un sacrificio coronato dalla soddisfazione di essere sempre più vicino…E percepivo il mio corpo trasudare le stesse fatiche dell’Orlando, che eroe Furioso, rivelò la sua umanità, impazzendo per il dolore.
E mi sentivo perdere. Mi trasformavo in morte, abbracciando la falce, non per uccidere, ma per sorreggermi, e avvicinarmi.
Seppur fossi bravo a mascherare l’agonizzante trasformazione, era chiaro il mio bisogno di aiuto.
Ma i giovani non cedettero alle loro effusioni. Non si degnarono! Non mi avevano visto? Com’era possibile?
Agitai gli occhi. Spesso lo facevo al posto di darmi un pizzico, uno schiaffo, per simulare una specie di scossa, nel tentativo di rivitalizzarmi.
Ma fu peggio.
Persi il controllo.
Un’ondata di svarioni infranse il mio equilibrio, e la strada di fronte, che prima era vivida, la persi di vista.
Spesi gli ultimi attimi di lucidità a soffocare le paure più oscure. Ero imballato. Non riuscivo più a muovermi e nel tentativo di gridarlo, con lo strenuo dei movimenti scattosi, sputai un urlo di frattura esistenziale.
Ma nulla. I due stavano fermi, in una posizione che mi ricordava Amore e Psiche, immobili, ignari della mia Metamorfosi.
Si stringevano, come se volessero fermare il vento, senza muoversi, come in posa per una fotografia scattata più volte nel tempo, come due opere incomplete lasciate lì, a metà tra il nulla e il tutto.
Così cercai di brancolare un appiglio, anche se l’unica cosa che scorgevo erano gli occhi di lei, come se fossi lui, e tutt’intorno luccichii sfaccettati, come quando il sole si infrange nell’acqua.
Esanime, come l’Orlando accasciato vicino a Caronte, suonai il Corno, e morii dentro il ragazzo.
Assurdo.
Flebile, mi sentii venire meno, e poi eruttare un vulcano dentro.

L’esplosione defibrillò la pancia, poi lo stomaco, allora si soffermò al petto e rivitalizzò il cuore, poi riprese fino al cervello, infuocandomi gli occhi.
Adesso ero lui, il giovane.
Potevo sentire i suoi occhi lavici esplodere di ardore e mi venne spontaneo: pensai di sfruttare la sua forza per riprendermi… ma nel momento in cui tentai di aggrapparmi a una qualunque decisione per scappare via, lontano, da quell’incubo, smisi di respirare.
L’energia, che avevo sentito come un cazzotto nel ventre, si canalizzò verso lo spazio, ai limiti dell’indefinito, e lì, sparò le mie paure.
L’apnea lapidò i miei sensi, tutti, tranne la vista.
Vidi gli occhi di lei.
E me riflesso, dentro.
Non avevano un colore preciso, c’erano gli ingredienti per la cromoterapia, l’effluvio dei colori più vividi e la cura per l’appassimento dell’abitudine, c’era oro, argento, minerali, metalli, c’era il passato, il presente e il futuro. C’erano le orbite dei pianeti e le reti stellari. C’era tutto, tranne un’uscita di sicurezza.
Distogliere lo sguardo era impossibile, un incantesimo….C’erano dentro la bellezza e la perfezione della natura: dalle galassie alle conchiglie, dalle costellazioni alle cellule, c’erano dentro l’armonia, la complessità e le domande sul caso.
Avevano effetto di anestetici per il panico. Erano freddi, come catene d’acciaio intorno al cuore.
Le mie funzioni vitali si ridussero al minimo e provai a usare la memoria per uscire da quell’amabile prigionia…
Cercai di concentrarmi sulle fasi che mi avevano trascinato dentro il ragazzo.
Ricordai che c’era stata la pasticca e poi, subito dopo, l’immagine dei due giovani, smaccata, come il disegno di un bambino che colora, lasciando gli spazi, e va fuori dai contorni.
Ricordai le loro posizioni, innocenti, degne di un’opera fatta per piacere, non per valere.
Si baciavano, si abbracciavano, mescolavano e bevevano quel momento come fosse una soluzione per scampare alla morte.
Nei loro gesti c’era la generazione di un tempo a se’ stante, percepito indistintamente dalle leggi del moto, della luce e dell’inerzia.
Erano un dono sospeso, come il servizio di Roger Federer, che non appartiene né a chi batte né a chi riceve. Non ci sono parole per descriverlo, le uniche di cui disposi sono state deturpate dall’uso improprio che ne ho appena fatto….
E piano piano anche la memoria si spense; mi dette l’impressione delle vecchie TV a tubo catodico, quelle che quando si spengono scoppiettano, rilasciano i residui del meccanismo di proiezione ed elettrizzano lo schermo, imprimendo l’ultima scena come una statua in basso rilievo.
Finché non tornai a essere lui, negli occhi di lei.
Persi l’identità di quello che ero prima, mi sembrò di aver visitato una galleria dove erano custodite opere d’arte pregevoli e rimanere stordito dalla sindrome di Stendhal.
Che cosa avevo capito?
Era come se il cosmo, da una perfezione primordiale, fosse sdrucciolato su un ripido pendio: ecco allora Lei, la mia entropia, la corsa folle nelle gelide, buie immensità?
Ecco l’ergere della coscienza come freccia che trafigge se stessa. Ecco che dalla natura delle sue forme affiorava la storia con le sue lunghissime scie di sangue.
Nei suoi occhi i segreti di Vermeer.
Lei, qualcosa che non dovremmo vedere, qualcosa di privato che incanta di un affetto filiale, ma che cede all’incesto amoroso.
“Perché non mi ero fermato lì? Dove credevo di andare? Alla saggezza terrena? Al bieco calcolo, all’infelicità, alla piccineria?”
“Come un gesto vissuto in virtù dell’assurdo”, mi misi una mano in tasca.
C’era qualcosa… la estrassi e con apatia vidi la carta stagnola piegata.
C’era scritto sopra Paroxetina.
Ero sempre stato io, il guardone, la morte, il giovane, anche l’innamorato.
Tutto un effetto collaterale? Forse la mia ansia?
Non aveva importanza, ormai era in circolo, ormai ero prigioniero…