Una serata tranquilla su una casa-barca ad Amsterdam finisce con un salvataggio adrenalinico dopo che un uomo casca in un canale.

Capita a volte, per le strane iperboli che si percorre mentre si è intenti a decidere cosa fare da grandi, di sorprendersi a fare tutt’altro. Capita fino a che non si tira le cuoia, credo. Io mi sono ritrovato a vivere su una houseboat in un canale di Amsterdam, per dirne una. I superstiziosi forse avrebbero scelto una confortante casa di mattoni, di fronte allo zelante compagno di studi che ti ricorda i quindici cristiani ripescati ogni anno nei canali, quasi tutti con la bottega aperta – e senza considerare King’s Day. Se ad ogni modo non hai ancora capelli bianchi e se (soprattutto) sei senza casa, finisce che non te ne curi poi molto, e sali a bordo.

Dovete capire, per potervi gustare questa storia, che il vicinato è proprio come ve lo aspettate: altre barche. Barche dove vivono personaggi a metà tra una comunità hippie e un romanzo di Calvino. Il compagno zelante avrà il suo bel dire, ma qua le giornate scorrono pacifiche e silenziose, i tramonti sono bellissimi e la vita è dolce. Di notte, a due canali di distanza, l’umanità in calore del quartiere a luci rosse.

Ora, una buona storia necessita perlomeno di un banale prologo. In questo caso si tratta di me che torno a casa dopo una giornata in biblioteca. Decisamente insignificante. Nel rincasare insieme ad un mio amico argentino, la cui descrizione donerebbe probabilmente un po’ di originalità al prologo (genio matematico, cantante lirico, ex-modello e soprattutto gran cazzone), l’unica cosa che turba l’ordinario svolgersi degli eventi è un signore anziano seduto sul bordo di prua, nella barca vicino la mia. Mi fa un cenno con la testa. È scalzo.

Saliamo la scaletta ed entriamo in casa. L’amico argentino prende a suonare la chitarra, cantando con un volume che mi farebbe temere per la cristalleria, ne avessi una. Io, munito di pancetta, parmigiano d’importazione e angosce vaghe, mi confronto con la carbonara. Aspettando l’acqua che bolle, ci stappiamo un paio di birre. Mentre mi faccio bullo dell’italica arte culinaria, in uno di quegli attacchi di confusa malinconia in cui ti scopri più patriottico di quando credessi possibile, sentiamo delle urla fuori dalla barca. Va precisato che l’olandese, lingua soave e delicata, ha un suono simile ad un principio di tubercolosi, specialmente se urlato. Così continuiamo imperterriti nel nostro rituale di birra e chiacchere confuse, e quando le urla si fanno sempre più somiglianti al risveglio mattutino di un fumatore incallito, non lasciamo che ci rovinino il buonumore. 

“Dici che si stanno augurando buon appetito?”

“A me sembrava un ‘Ti amo, cara’ ”

La realtà irrompe poi nel nostro amabile conciliabolo sotto forma di un paio di cazzotti contro la fiancata della barca. Innervosito, esco fuori in cerca di spiegazioni, sfoggiando la mia miglior faccia da duro. La scena che mi si para davanti, surreale, mi piomba nello stomaco come un masso: due uomini, miei vicini di casa, stanno urlando in piedi sulla fiancata della mia barca. Guardano giù, nello specchio di acqua tra la barca del vicino e la mia. Lì, un metro più in basso dei miei piedi, l’anziano signore che cinque minuti prima mi aveva salutato allegramente sta con l’acqua fino al collo, immobile. La faccia da duro, se mai era esistita, assume istantaneamente le sembianze di un non meglio specificato panico. È morto?

Poi vedo la sua mano rugosa aggrappata ad un pezzo di ferro che sporge dalla fiancata, ed il piombo fuso nelle viscere pare andarsene. Le grida dei due uomini tornano a riempirmi il cervello. E’ importante che capiate che la faccenda si svolge a Gennaio, quando non è raro svegliarsi coi canali completamente ghiacciatiNell’afferrare la scala che uno dei due vicini mi sta passando, mi domando confusamente quanto possa resistere un vecchio, completamente vestito, immerso in dell’acqua la cui temperatura è vicina allo zero. L’altro vicino sta provando a ripescarlo, tirandolo per l’altro braccio, senza successo: il bordo della barca è troppo alto, il vecchio un peso morto, senza forze, l’acqua come ferro ghiacciato. In virtù della tendenza delle cose a peggiorare, quando già vanno male, il vicino si sporge troppo e, privo di qualsiasi grazia, finisce anche lui nel canale. Il mio cervello, bloccato dal panico, registra a malapena la notizia, e si concentra assurdamente sul volto del vecchio, totalmente impassibile. Non trema neanche. Solo gli occhi completamente sgranati mi danno una vaga idea del cieco terrore che lo sta attanagliando, appena un metro sotto di me, indifeso e dignitoso come solo gli anziani sanno essere. In quell’istante ho paura, paura di veder morire un uomo di fronte ai miei occhi. A riportarmi un po’ di lucidità ci pensa l’irragionevole rutto del mio vicino di casa bolognese, che ha probabilmente finito di digerire i tortellini. Mentre rivolgo un vago pensiero alla carbonara, così rassicurante, riusciamo a tirar fuori dall’acqua almeno l’avventuroso vicino di casa.

Quanto segue è piuttosto vago, nella mia testa. Una volta assicurata la scala alla barca con una fune, cerchiamo di issare il vecchio, che continua ovviamente a collaborare con tutte le sue forze, cioè quasi per nulla. Se dovessi raccontarvi degli istanti successivi, vi racconterei del ritmo di pochi centimetri al minuto con cui il vecchio, sempre impassibile e silenzioso, emerge dall’acqua, degli sguardi silenziosi del vicinato, che nel frattempo si è raccolto intorno a noi, e di poco altro. 

Prima che potessimo aiutarlo a tirar fuori l’ultima gamba dall’acqua, sono arrivati i soccorsi. Lo hanno immediatamente spogliato e messo dentro a una di quelle coperte termiche che sembrano carta stagnola. Seduto sul lastricato del piccolo molo, la testa bassa, mi sembra un gigantesco kebab. Mentre lo guardo, mi rendo conto per la prima volta che sta tremando di freddo.

Solo quando il suo corpo ha ripreso un po’ di calore riesce ad alzare la testa e a guardarci, a noi tre che in qualche modo lo abbiamo salvato. Non dice niente, forse perché non ce la fa o forse perché non ce n’è bisogno. Semplicemente mi sorride, di quei sorrisi che fanno i nonni in ospedale ai nipoti, per capirsi. 

Da dentro la barca viene ancora un bell’odore di carbonara, a profumare l’aria della città indifferente. Due canali più in la, l’umanità in calore del quartiere a luci rosse.