Un pittoresco ritratto di Charles Baudelaire e del suo paradiso artificiale. Il magnetismo di una delle figure più influenti della storia della letteratura.

“L’inclinazione frenetica dell’uomo per tutte le sostanze, salutari o rischiose, che esaltano la sua personalità, testimonia della sua grandezza, perché aspira sempre a riaccendere le proprie speranze e a elevarsi verso l’infinito. Ma bisogna vedere i risultati”. (Charles Baudelaire, I paradisi artificiali, 1860)

1859 o 1844, non ricordo…
Stava lì, in un angolo qualunque della locanda. Aspettava.
Semi-illuminato dalla lanterna si lamentava della forte escursione termica tra i suoi pensieri e le voci che giravano sul suo conto. Era solo, eppure non aveva l’aria di qualcuno che non lo è.
Occupava lo spazio come se davanti al suo tavolino ci fosse qualcuno, uno qualunque o tutti coloro che avrebbero incrociato il suo sguardo.
Per ogni attimo era accompagnato da qualcuno, per ogni istante in cui surrogava la mente dell’altro si sentiva vivere e voleva tornare a morire per scrivere su quello che aveva vissuto.
I suoi occhi! Erano neri come la pece e si accostavano al suo vestiario con eleganza, come fossero accessori. Se fossero appartenuti a qualcun altro non avrebbero riscosso molta attenzione, ma su di lui erano il mezzo per una confessione imminente delle proprie debolezze, come un imbuto cosmico, un ponte di einstein rosen, che trascendeva la pelle e infilzava le sue mani nel tuo cervello come spine.
L’attimo di curiosità o di attrazione che ti sublimava in quel patto di sguardi non era diverso dall’attimo successivo, quello in cui ti scordavi di lui o continuavi a sbirciarlo anche dalla tua posizione, senza però accorgerti di come la dipendenza dalla sua immagine diventava sempre più bieca e palese. Non ricordavi nemmeno più cosa fosse quella locanda senza di lui.
Sembrava Maledetto.
Le ombre sul suo viso correvano come cavalli lanciati in una corsa demoniaca. E da vigorose e marcate, a poco a poco, perdevano la loro vitalità. Sparivano nei flussi ridondanti delle candele, nello sfarfallio dei fuochi affamati di ossigeno, dentro le coppe di vetro…
Quelle ombre, le stesse, mi dicevano che le cose della terra durano poco, che la vera realtà si trova nei sogni. Quelle ombre, le stesse, le provavo quando ero solo e mi drogavo, e le apprezzavo; mi ritrovavo a “meditare instancabilmente per lunghe ore, appuntando l’attenzione su qualche dettaglio senza importanza o nei caratteri tipografici di un libro; restarmene assorto per la maggior parte di una giornata estiva inseguendo un’ombra bizzarra proiettata di sbieco sulla tappezzeria o sul pavimento; perdermi per una intera notte a fissare la fiamma immobile di una lampada o la brace nel camino; fantasticare per giorni interi sul profumo di un fiore; o ripetermi in maniera ossessiva una parola qualsiasi, finché il suono, mille volte pronunciato, si vuotava di ogni significato; perdere ogni senso dinamico o di esistenza fisica in un’immobilità assoluta del corpo, ostinatamente prolungata;” ecco, su di lui, invece, quelle ombre le odiavo, lo facevano apparire come un relitto alla mercè delle correnti, dominato dal mondo esterno.
Prendeva vita dentro di me la paura della mia imminente devastazione.
Non volevo essere come lui! No! Ancora no!
La sua mano sinistra sedava la medesima parte del viso con l’indice puntato sulla tempia, nei capelli, e le rimanenti dita, piegate, s’impiccavano sullo zigomo in un posa estetica bugiarda che mediava la sua volontà di sfidare lo stomaco a digerire la felicità.
E per digerire la felicità bisogna avere prima di tutto il coraggio di ingoiarla.
Man mano che lo guardavo, spuntava la sua umanità, lo riconoscevo in un familiare, e nella sua dannata immagine identificavo le rughe e le pieghe di un uomo errante, cupo e solitario, immerso nella mobile fiumana delle moltitudini, il quale rivolgeva il suo cuore e il suo pensiero a un’Elettra lontana che gli asciugava il sudore della fronte e gli rinfrescava le labbra incartapecorite dalla febbre. E più che Maledetto dalla gente mi sembrava maledetto da qualcosa che operava dentro di lui, come adesso dentro di me.
Stavo capendo. Mi avvicinavo alla soluzione, se di questa si poteva parlare.
Non avevo fatto altro che evidenziare i suoi tratti, gli stessi che si ripercuotevano su di me quando mi lasciavo alle sostanze. Non volevo essere così! No! Non lo meritavo!
Tornai a lui.
Non era il suo essere naturale, quello era il veleno dentro il suo spirito. I suoi occhi traspiravano la deformazione dei suoi sentimenti, schiacciati. Chissà se aveva usato la mia stessa droga? Avrei dovuto chiederglielo per non fare la stessa fine?
Ma no! Io non ero come lui, non potevo esserlo! Io ne sarei uscito quando volevo.
Mi girai come per cambiare pensiero, come una macchina da scrivere quando trova il margine, suonai la fine della mia indipendenza. Mi sentii osservato e poi tradito, fu come se la folla si fosse accorta della mia presenza, all’improvviso, della presenza di un narratore nella loro storia. Da giudicante divenivo il giudicato e, come l’uomo che si è dato per lungo tempo all’oppio e all’hashish, sebbene indebolito dall’abitudine della schiavitù ha trovato l’energia necessaria per liberarsene, apparivo come un prigioniero evaso.
Enchained, fettered, enslaved! Catene che sposano l’uomo con se stesso con le garze dell’amore illegittimo: ero divenuto nel tempo uno schiavo prigioniero nelle pastoie dell’oppio, e i miei lavori come i miei ordini prendevano i colori dei miei vaneggiamenti.
Eppure, come tutti gli altri, mi avvelenavo, quotidianamente, di un interesse esagerato per qualcosa, e intanto la morfina finiva nella penna e smettevo di interessarmi a tutto, come un gioioso eterogeneo pensiero rapsodico e disordinato.