La bomba ad orologeria chiamata Brit-Pop, quel curioso miscuglio di riferimenti 60s ed esuberanza 90s, dove la sostanza è importante ma la copertina lo è di più

È il 1989. Anzi no, è il 1964 l’anno della British Invasion: i Beatles guidano un esercito di ragazzi armati di stivaletti a punta e capelli a scodella che conquistano prima l’Inghilterra e poi il resto del mondo a partire dagli Stati Uniti d’America, La Mecca del Rock’n’Roll. Il resto della storia lo sapete già, la fine del sogno, gli anni ’70, il glam, la Tatcher e il post punk, quando l’immaginario albionico non era più fatto di fiori e acidi ma di fabbriche e antidepressivi. L’Inghilterra è a modo suo sempre il centro del mondo musicale alternativo ma certo non è più come avere Jagger o Bowie, manca quella botta di stile, la sensazione di essere non soltanto i più bravi di tutti ma anche i più fighi di tutti. Passo passo ci stavano arrivando, gli inglesi, con gli anni ’80 esplodono The Smiths e la Manchester/Madchester lisergica che dagli Stone Roses guida i ragazzi fino agli Happy Mondays e agli albori della acid-house, in un turbinio di pasticche colorate. E’ da quel magma caldissimo che scaturiscono gli anni ’90 inglesi, non quelli delle Spice Girls e di David Beckham ma quelli della bomba ad orologeria chiamata Brit-Pop, quel curioso miscuglio di riferimenti sixties ed esuberanza ninenties, dove la sostanza è importante ma la copertina, diamine, lo è di più. Magie del marketing? Allineamento dei pianeti? Fatto sta che Sua Maestà Regina Elisabetta si ritrova sotto casa due band perfette per interpretare quella scena musicale e quell’attitudine, due band simili ma diversissime, sorta di compagni di banco gelosissimi gli uni degli altri tanto da odiarsi visceralmente. Da un lato i figli della working class e della rude Manchester, dove la propria autorealizzazione può passare tranquillamente attraverso una scazzottata al pub o nell’incidere il singolo n°1 delle chart mondiali. Dall’altro lato gli studenti dei college londinesi, che ricorrono a riferimenti letterari e alla sotto-cultura urbana della capitale. Blur vs Oasis. Un vero tormentone, che come ogni tormentone che si rispetti, arriva al suo naturale esaurimento. Al di là dei gusti personali e del proprio schieramento nel grande dualismo del Brit-Pop, ciò che è innegabile è la differenza di qualità fra le esperienze post-band dei musicisti in questione: se i fratelli Gallagher si sono lanciati in delle carriere soliste auto-compiacenti, fotocopiando in modo sempre più sbiadito le proprie capacità, Damon Albarn ha invece iniziato la vera fase matura della propria esperienza di musicista. In primis i Gorillaz, forse la formazione più avveniristica degli ultimi quindici anni, poi The Good The Bad and The Queen – insieme a dei titani della musica come Paul Simonon, Simon Tong e Tony Allen – e la sua incredibile esperienza di discografico e compilatore.

In tanta coerenza e in cotanto crescendo professionale i Blur potevano essere lasciati da parte? Parve di no, quando finalmente seppellita l’ascia di guerra con Graham Coxon, i quattro sono tornati ad esibirsi dal vivo in titanici raduni musicali, su tutti il grande concerto re-union di Hyde Park. Proprio in occasione di un grande concerto avviene la magia: è il 2013 e la band si trova ad Hong Kong con uno show annullato e cinque giorni liberi. Si torna a casa? No, ci si chiude in studio e vediamo che succede. Dopo una vita. Da quelle sessions sono nate le ossature di nuove canzoni, che con un colpo di frusta (o whip, se preferite) diventano album. Era giusto aggiungere un’altro capitolo alla lunga storia dei Blur? Sicuramente sarebbe stato un peccato non raccogliere un talento ancora cristallino, forse un po’ ingessato dal mestiere ma ancora del tutto godibile. The Magic Whip è un album che non ti aspetti, anticipato da quello che è forse il suo brano peggiore (la nenia Go Out) arriva invece dritto al cuore sin dalla sua partenza – Lonesome Street altro singolo estratto – degna di figurare nelle scalette dei grandi album del passato.

Il sound è lo stesso di quando li avevamo lasciati, facendo intendere che la loro idea di band è ancora ben chiara nella loro testa. E nella nostra. I Thought I Was A Spacemen è vicina all’Albarn solista tanto quanto ai Blur di Think Tank, ed è una vera chicca di arrangiamento ed esecuzione vocale, lo stesso vale per My Terracotta Heart e Too Many Of Us, forse il momento più alto del disco per intensità e qualità di scrittura. I Broadcast gioca col passato e con gli esordi, quelli delle esuberanze chitarristiche. Potrei analizzare e vivisezionare le 12 canzoni di The Magic Whip fino all’eternità, ma credo sia giusto chiudere con le parole di chi i Blur li conosce bene e non li ha amati mai:

Liam Gallagher – “Lonesome St by BLUR song of the year LG x”. Non è una quadratura del cerchio questa? Cool britannia, ora e sempre.lglg

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